Gandhi e la prova del fuoco

 

Di Antonietta Pistone

 

 

 

È stato pubblicato di recente il terzo volume della collana di testi e studi su pace e nonviolenza l’aratro, diretta e curata dal Prof. Antonio Vigilante, per le Edizioni del Rosone di Foggia. L’opera, intitolata “La prova del fuoco”, rappresenta una traduzione di scritti gandhiani, tra i quali si può annoverare l’articolo omonimo al libro. Il tema principale è quello della nonviolenza, che si radicalizza come principio morale basilare della religione filosofica Induista, Buddhista e Jainista, a cominciare dal rispetto per la vita animale, e per la mucca ritenuta sacra in India. Altri temi affrontati da Gandhi sono la scelta della dieta vegetariana, e la proibizione dell’eutanasia, se praticata per ottenere vantaggi e secondi fini, che non siano quelli della pietà nei confronti di chi soffre una condizione di malattia terminale che non trova più alcun tipo di sollievo nelle pratiche mediche e negli interventi di cura.

         Ma il fondamento dell’Induismo gandhiano resta comunque l’ahimsa (nonviolenza), che diviene fine e scopo della religione, e che si fa anche percorso di crescita e di educazione per i seguaci credenti, che sono chiamati ad addolcire la naturale tendenza umana alla violenza. La himsa, infatti, è presente in ogni più apparentemente ingenuo atto del vivere, a cominciare dalla respirazione che, inavvertitamente, ci mette nella condizione di dover sopprimere alcuni microrganismi presenti nell’aria che inaliamo ad ogni inspirazione. Eppure, senza l’atto del respirare la nostra stessa vita risulterebbe impossibile. Una certa percentuale di himsa (violenza) è perciò connaturata all’esistenza stessa della vita e delle forme viventi più disparate. Ma quando l’uomo diviene consapevole di ciò, deve fare di tutto per limitare la violenza ontologica del vivere e dell’esistere, accettando come legittima solo ed esclusivamente quella quota di inevitabile, senza la quale sarebbe impossibile la vita stessa,  cercando di limitare, per quanto è in suo potere, il livello della violenza insita nella realtà del mondo naturale. L’etica nonviolenta si fonda sul rispetto della tradizione; sulla profondità dell’esperienza individuale di vita propria di ciascuno; sul dialogo e sull’ascolto della voce interiore. Gandhi pone a confronto la sacralità della vita cristiana, che interpreta l’esistenza come dono di Dio e accettazione benevola che non può decidere l’uomo quando rifiutare con la morte; e la qualità della vita laica, che conferisce valore umano a quell’esistenza dignitosa che ciascuno può condurre solo ed esclusivamente in condizioni di buona salute e di integrità mentale, ritenendo che non sia giusto chiamare vita la condizione di inabilità che deriva dagli stati di coma profondo ed irreversibile, come da qualsivoglia condizione di infermità che vada a compromettere le normali attività quotidiane della persona. Per il Mahatma (l’infallibile),  è atto di pietà religiosa liberare l’uomo sofferente dal suo dolore di vivere, quando la sua condizione manifesti il carattere dell’irreversibilità. Egli parla di “sentiero dell’amore” che diventa precisamente “la prova del fuoco” alla quale si sottrae chi è incapace di amare il proprio simile fino in fondo.  L’impedimento dell’eutanasia per il malato terminale diventa un atto di violenza, al pari delle parole dure, dei giudizi severi, del rancore, della rabbia, delle malignità e della brama di crudeltà. L’eutanasia non è un atto di violenza se le intenzioni di chi la pratica sono buone, e la morte del sofferente può essere interpretata come un momento di liberazione dai vincoli del dolore di vivere esistenziale. “Il principio di aggrapparsi alla vita in ogni circostanza tradisce una certa codardia…”, sostiene Gandhi, che in un passo successivo dice ancora:”fino a quando non è disposto ad assumersi i rischi e ad affrontare le conseguenze, un uomo non può essere libero dalla paura, e fino a quando non è libero dalla paura è, ipso facto, incapace di praticare l’ahimsa”. La nonviolenza viene dunque interpretata come scuola di liberazione delle coscienze, che matura l’uomo facendolo diventare realmente adulto e responsabile di fronte alle proprie azioni individuali e collettive.

         Le condizioni imprescindibili richieste per praticare l’eutanasia senza che venga commessa violenza sul paziente sono la presenza di una malattia terminale, il non poter fare più nulla per salvare la sua vita, l’incapacità acquisita di esprimere liberamente la personale volontà e il presentarsi del caso come disperato oltre ogni possibilità di aiuto.

Un altro valore fondamentale resta quello della incessante ricerca della verità. “Io insegno al bambino che è affidato alla mia cura non essendo arrabbiato con lui, ma amandolo, tenendo conto della sua ignoranza e giocando con lui”, sostiene Gandhi. Come a dire che la nonviolenza resta anche un precetto sostanziale della relazione tra allievo e maestro. La citazione ricorda La realtà liberata di Aldo Capitini, che fonda una civiltà dell’amore sulla liberazione dell’uomo. Ma anche la pedagogia del bambino liberato di Maria Montessori. Inoltre, con riferimento a Socrate, il Bapu sostiene che la verità è la voce interiore che parla all’uomo. Ma la verità, per colui che ricerca insieme agli altri, è anche Dio, e Dio è Amore. Dunque l’uomo trova dentro di sé ogni principio religioso e conoscitivo che lo conduce sulla strada dell’Amore, che è sacrificio, rinuncia, sottomissione al dovere e rigoroso dominio sulle proprie passioni. L’uomo è più spirito che corpo, come prova la disciplina del sesso (che si perfeziona nella castità) e la dieta rigorosamente vegetariana (che culmina nell’astinenza), in linea con il rispetto degli animali e della natura, su cui l’uomo non ha alcun diritto di opporre il proprio potere. Gli animali, come gli alberi, sono amici. E sono amici tutti gli esseri umani a noi vicini. La fusione con la totalità del creato fonda l’armonia primigenia di tutti i viventi in Dio. Conseguentemente, la vita non è degna di essere vissuta se non preservando la dignità spirituale e il destino che va oltre la morte corporale. “Un seguace dell’ahimsa -scrive Gandhi- al momento di coricarsi deve chiedersi:”Oggi ho parlato duramente a qualche collaboratore?…Mi sono sottratto al mio dovere e ho scaricato il fardello sul mio collaboratore? Ho mancato di servire il vicino che era malato? Ho rifiutato di dare dell’acqua ad un passante assetato che me l’aveva chiesta? Mi sono preoccupato di accogliere chi è arrivato? Ho sgridato un lavoratore? Sono stato esigente con lui senza pensare che poteva essere stanco? Ho pungolato i buoi con bastoni appuntiti? Mi sono arrabbiato in cucina perché il riso era cotto male? Tutte queste sono forme intense di violenza…”. Nel momento attuale di crisi dei valori, per l’Occidente la nonviolenza è un’idea semplice che tutti possono comprendere e fare propria, applicandola alla loro vita. Ripartire dalle piccole cose forse è la strada giusta per non smarrire del tutto il senso del progresso sociale, che è oggi da intendersi come integrazione delle culture e dei popoli, verso una nuova forma di civiltà della pace e dell’amore che l’Oriente può aiutarci a scorgere proficuamente. 

 

Antonietta Pistone

Docente di storia e filosofia



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