MORITZ GEIGER

 

A cura di Andrea Ardiri

 

 

Moritz Geiger (1880 – 1937), allievo di Theodor Lipps e di Wilhelm Wundt, divenne, dopo l’incontro con Husserl, uno dei principali animatori del Circolo fenomenologico di Monaco e Göttingen. Fu coeditore dello Jahrbuch für phänomenologische Forschung ed insegnò a Göttingen fino al 1933, anno in cui fu costretto a fuggire negli Stati uniti a causa delle persecuzioni naziste. Si dedicò per lo più all’incremento dell’estetica fenomenologia, il cui maggiore esponente è sicuramente Roman Ingarden. La parola d’ordine della filosofia di Geiger è la Wendung zum Objekt  (il volgersi all’oggetto), che caratterizza il metodo fenomenologico in senso “realistico”. In Italia, Gabriele Scaramazza ha dedicato numerose pubblicazioni all’estetica monacense, ed in particolare all’estetica di Geiger. Il testo che segue è tratto da un saggio di commento al Frammento sul concetto di inconscio e sulla realtà psichica. Un contributo alla fondazione del realismo psichico immanente in cui Geiger contesta la svolta scientista della psicologia dei suoi tempi, richiamandosi alla tradizione psicologica di quello che chiama “realismo immanente”, che fa risalire a Locke. “Immanente” è qui inteso come trascendente rispetto ai vissuti (erlebenstranszendent), cercando di delineare i movimenti della “vita psichica reale”, come egli stesso la definisce.

L’obiettivo principale di Geiger, riguardo alla definizione dei rapporti tra la volontà e l’inconscio, è quello di formulare una fondazione coerente del realismo immanente, in contrapposizione ai metodi della psicologia scientifica, la quale, accanendosi sull’analisi dell’esperienza dei vissuti tralascia o nega in maniera sistematica qualunque altra forma di determinazione tipica della realtà degli atti psichici. A suo avviso il principale problema di questo tipo di approccio alla vita psichica sta proprio nel voler equiparare la psicologia alle scienze naturali, trattando i vissuti come fossero dati fisici o chimici che seguono la logica della causalità. La psicologia dei vissuti ha invece smarrito un atteggiamento più equilibrato e meno dogmatico nei confronti della realtà della mente, quale poteva essere prima del suo avvento quello degli scrittori, degli storici o dei mistici: gli affetti e le volizioni riletti sotto una simile lente riescono molto meglio a cogliere la complessità dei fenomeni psichici, che di gran lunga trascende il semplice e blando nesso causale. Ciò cui si può auspicare circa l’evoluzione di questa ricerca è l’affermazione di un principio di fiducia nelle regole della coscienza interna, che possa, da una parte, essere equiparato al principio di fiducia nella percezione delle scienze naturali e, dall’altra, rendere conto della complessità dei fenomeni psichici e dei suoi rapporti con la realtà esterna. In prima istanza sarà di primaria importanza delimitare all’interno della totalità della vita psichica il concetto di coscienza, al fine di poter così delimitare i contorni dell’inconscio ed i suoi eventuali rapporti con la volontà.

 

 

Analisi della “vita psichica reale”

 

Secondo Geiger la psicologia scientifica risulterebbe fuorviante in quanto, da una parte, la sua metodologia è eccessivamente soggettiva (la vita psichica, analizzata soltanto all’interno della categoria dei vissuti, individualizza e radicalizza le espressioni della vita psichica senza coglierne la ricorsività) e, dall’altra parte, la sua aspirazione all’oggettività dei contenuti finisce per divenire incompatibile con la vita psichica reale individuale (lo studio dei vissuti come effetto non è in grado di spiegare la complessità del vissuto psichico che, spesso, vive indipendentemente dalla prassi e, quindi, possiede uno sviluppo assolutamente autonomo in cui non è riscontrabile un criterio di verifica valido nell’intersoggettività, ma soltanto un criterio puramente soggettivo).

Per comprendere meglio la causa di questo tipo di fraintendimento deve aver luogo innanzi tutto un’analisi delle definizioni implicite al concetto di coscienza nel suo utilizzo linguistico. All’interno delle espressioni linguistiche distinguiamo quattro differenti tipi di impiego del concetto di coscienza:

 

1.     Attiva (Bewusst-sein);

2.     Passiva (oggetto verso cui è polarizzato l’atto psichico);

3.     Aggettivale (proprietà costitutiva dell’oggetto presente alla coscienza);

4.     Spaziale-sostanziale (“luogo” reale della coscienza).

 

1.     Il concetto di coscienza attiva riguarda propriamente l’“esser cosciente di”, che può essere considerato una forma del conoscere in quanto “collegamento con l’oggetto”, come modo del prender conoscenza del reale (in tal senso la percezione e la rappresentazione intellettiva non possono che essere considerate tali).

2.     Il concetto di coscienza passiva rappresenta l’oggettualità verso cui la coscienza tende, quindi si potrebbe affermare che non fa propriamente parte dell’azione della coscienza, sebbene ne sia il contenuto, in quanto realmente esterna alla coscienza (gli oggetti sono semplicemente “toccati dall’atto di coscienza[1]”).

3.     Il concetto di coscienza aggettivale è una proprietà, un momento strutturale dell’oggetto di cui è predicato. Questa concezione della coscienza è tipica del “flusso di coscienza” e tende alla totale equiparazione degli atti di coscienza agli oggetti di coscienza in quanto contenuti indistinti di un flusso continuo e per lo più indistinto di nessi causali - casuali.

4.     Il concetto sostanziale o spaziale di coscienza riguarda una vera e propria collocazione dei fenomeni percettivi e rappresentativi: la coscienza è quindi un contenitore “in cui questi contenuti vengono a trovarsi[2]”.

 

I primi due sono concetti complementari che costituiscono la coscienza verbale, rappresentando la classica dicotomia soggetto-oggetto: il concetto attivo è il soggetto che coglie la realtà del concetto passivo che, però, pur essendo contenuto dell’atto psichico, non né è propriamente parte. Il terzo modifica radicalmente la percezione della sostanzialità della coscienza, identificandola con una sorta di “materia” dell’oggetto, inerente quindi più che ad un soggetto dell’atto psichico ad una proprietà intrinseca dell’atto stesso. L’ultima accezione del concetto di coscienza è invece in parte assimilabile alle altre tre poiché, riferendo semplicemente alla coscienza un’identificazione spaziale degli atti psichici che però non ne indichi alcuna altra proprietà, risulta compatibile ad esse senza per questo perdere la propria proprietà costitutiva. Bisogna però precisare che il concetto spaziale, se concomitante al concetto di coscienza verbale, ne altera in certa misura la natura, rendendolo da concetto puramente fenomenologico, quale esso è (in quanto non si occupa in alcuna maniera dell’esistenza reale dei contenuti della coscienza all’esterno di essa), in concetto metafisico (giacché il quasi-luogo della coscienza sostanzializza i contenuti coscienti al di là della loro effettiva realtà fenomenica). Il concetto aggettivale di coscienza invece, mettendo sullo stesso piano gli atti di coscienza ed i contenuti di coscienza, non riesce a comprendere la complessità del rapporto Io-mondo, ossia la relazione che intercorre tra la coscienza e ciò è invece esterno ad essa (sebbene possa fungere da propulsore della sua azione), e quindi ricade nell’assurdo concettuale che il soggetto cosciente ed il contenuto della coscienza ricadano allo stesso modo all’interno del flusso di coscienza senza essere in esso pienamente discernibili l’uno dagli altri. Dati questi presupposti se ne desume che l’unico concetto di coscienza che possa mostrare la natura della reale vita psichica del soggetto cosciente relato al mondo è il concetto verbale di coscienza.

 

 

Definita la dinamica della coscienza nel rapporto Io-mondo, inglobata nel concetto verbale di coscienza, possiamo analizzare anche, e contrario, il concetto negativo di coscienza correlato, ossia l’inconscio. Come abbiamo già accennato, il concetto verbale di coscienza è articolato in due accezioni distinte (attivo e passivo); bisognerà dunque verificare, attraverso tale concetto, l’effettiva ammissibilità dell’esistenza di atti psichici inconsci e, dopo averne accertato le relazioni con la coscienza, definire a quale delle due accezioni del concetto verbale il concetto di inconscio rimandi.

Partendo dalla definizione del concetto attivo di coscienza è facilmente scartabile l’ipotesi di rimando ad esso, poiché, definito l’inconscio in contrapposizione rispetto alla coscienza intesa in tal senso, un atto psichico dovrebbe poter essere non-conscio rispetto allo stesso “esser cosciente di”, ossia dovrebbe essere non un atto di coscienza, ma un non- atto di coscienza. In altri termini, affermando che un atto psichico possa essere inconscio rispetto alla coscienza in senso attivo dovremmo ipotizzare una negazione della “coscienza di”, quindi non- coscienza di, non- rappresentazione, non- presenza: assenza. Invece la coscienza in senso passivo, sebbene a prima vista sembri meglio adattarsi alla definizione dell'inconscio psichico, tuttavia pone un'altra questione: un oggetto, sebbene posto al di fuori della coscienza, può mantenere la propria esistenza, ma questa esistenza è comunque esterna all'universo psichico e, quindi, è inconscio nella stessa misura in cui lo è un oggetto che non vediamo perchè abbiamo gli occhi chiusi rispetto alla nostra vista. Sinora però abbiamo preso in esame soltanto oggetti che conservano un'esistenza propria anche all'esterno della coscienza: come si pone la questione di fronte ad oggetti che posseggono una loro esistenza reale soltanto all'interno della coscienza? Le volizioni, i desideri, le pulsioni, le passioni, gli affetti in generale rientrano pienamente in quest'ultima categoria di oggetti, i quali posseggono una loro esistenza reale soltanto in quanto eventi psichici, in quanto "vissuti di coscienza[3]". Gli eventi psichici come il volere sono difficilmente comprensibili all'interno sia dei modi del cogliere che di quelli dell'esser colto, di conseguenza la concezione dominante (quella della psicologia scientifica) li cataloga come vissuti di coscienza; resta però da stabilire cosa si intenda esattamente per vissuto di coscienza. Il concetto di vissuto, di per sé, descrive una qualità dell'evento psichico, ossia il fatto che l'io prende conoscenza di tale evento; tuttavia nell'utilizzo linguistico tale concetto tende ad assumere non un connotato di accidentalità, bensì di sostanzialità. Se, per esempio, A vuole B e C non vuole che A ottenga B si può forse dire che A ha un vissuto di volontà e C un vissuto di non volontà? Naturalmente è corretto dire che A vive il volere B, ma tale vissuto, ad un'analisi più attenta, in realtà non dice nulla del volere A, se non il fatto che questo volere è un qualcosa che A sperimenta; in tal senso il volere di A non è diverso dal non volere di C o da qualunque altro vissuto e, di conseguenza, sebbene il concetto di vissuto tenda ad inglobare nella sua espressione l'essenza degli eventi psichici, il concetto di vissuto non è in grado di dirci alcunché del volere. Dunque, sebbene l'interpretazione della psicologia scientifica del concetto di vissuto sottenda un'accezione aggettivale di esso, risulta evidente che si debba supporre una dicotomia del concetto (analoga a quella del concetto di coscienza, ossia quella di un concetto verbale) in senso attivo e senso passivo. Il volere è interpretabile come vissuto soltanto nel senso passivo del concetto; tuttavia, diversamente da quanto accade nella percezione dei contenuti esterni della vita psichica, il vissuto di un evento psichico reale e autonomo dalla percezione, come sostenuto in precedenza, è difficilmente diversificabile in un “accorgersi di[4]” [Gewahrwerden] e un contenuto di coscienza. Il vissuto è soltanto una griglia che descrive il darsi all'Io della datità, ma il volere di uno scopo o la gioia non si riducono al loro esser vissuto, che è il prender conoscenza, ma sono anche una presa di posizione di un Io, un fatto d'esistenza; relare questi due aspetti in rapporto rispettivamente di sostanzialità e qualità risulta talmente riduttivo da essere falso e fuorviante. Quindi, nonostante le analogie tra l'orizzonte della percezione, in cui il cogliere e l'esser colto sono nettamente distinti, e gli eventi psichici non riescono a spiegare la realtà di quell'intimo appercepire [Inenwerden] che risulta essere la vera relazione tra il vivere il volere ed il volere stesso, in cui l'evento psichico non è semplicemente “colpito da un raggio della coscienza”, ma come illuminato dalla coscienza, la quale però non è nettamente distinta da esso proprio in base a questo fortissimo legame puntuale ma, allo stesso tempo, lato sensu, riflessivo.

A questo punto, fatto salvo quanto detto in precedenza sui rapporti tra la volontà ed il concetto di vissuto, resta da chiarire se è coerente l'ipotesi di un “volere non vissuto”. Intuitivamente appare contraddittorio il concetto di un volere non vissuto: infatti sembrerebbe insito nella stessa essenza del volere il determinarsi al compimento di un proprio scopo conscio e, quindi, in quanto attività dell'Io, vissuto. Tuttavia si potrebbe ammettere l'esistenza di un volere “inosservato”, vale a dire di un volere che, sebbene si già auto-affermato, venga interrotto e poi ripreso nei percorsi della vita psichica (altrimenti bisognerebbe supporre che il volere, lo stesso contenuto di volontà, si ponga in maniera puntuale ogniqualvolta si venga a sovrapporre ad altri atti di coscienza). E' ragionevole pensare che il volere in alcune circostanze possa essere semplicemente “messo da parte” (ad esempio, se volessi scrivere un libro, l'attuarsi di questo volere non implicherebbe che ogni sera prima di andare a dormire io cessi di volere ed il giorno dopo io mi determini nuovamente a cominciare a scrivere) senza per questo cessare di esistere e, in tal senso, non sarebbe propriamente vissuto. Per riuscire però ad analizzare compiutamente il volere non vissuto sarà bene precisare in quali momenti si strutturi la volontà, cosicché risulti più chiaro se un volere “momentaneamente” non presente possa o non possa essere considerato “vissuto”. All'interno della volontà occorre separare due livelli distinti; la posizione di volontà ed il comportamento volontario.

 

1.   La posizione di volontà [Wollensetzung] è il livello in cui il volere assume il proprio contenuto e si divide a sua volta in due momenti; il momento della posizione di scopo, in cui determino cosa voglio (l'oggetto del volere), e quello dell'autodeterminazione, in cui mi risolvo [ich entschliesse mich] nello scegliere di volere proprio quella cosa e non altro. La posizione di volontà costituisce dunque il primo stadio della struttura del volere, quello del “far volere se stessi”, in cui il volere si pone nella sua oggettualità.

2.   Il comportamento volontario [das wollende Verhalten] è il livello della determinazione al volere che si traduce nell’esplicazione di questo volere, come momento della vera “prassi” del volere e, soprattutto, come stadio del suo perdurare in essa.

 

In realtà possiamo considerare propriamente come atto di volontà soltanto il primo, in quanto il secondo risulta essere semplicemente il propulsore del vissuto, ciò che muta il contesto riversandolo all’esterno della coscienza. La vera contrapposizione all’interno della definizione dell’atto del volere è quella che intercorre solo all’interno della riflessività, che è l’orizzonte psichico reale assolutamente distinto dal vissuto in quanto prassi esterna alla coscienza, tra il vissuto, che è un rendersi conto che relaziona Erlebnis (vissuto già determinato) e Sein (essere), e la posizione di volontà, che rappresenta l’effettiva autodeterminazione del volere nella realtà della sfera del reale. L’Io causa (che pone il volere) non coincide dunque con l’Io volente, ma se ne discosta nella misura in cui possiamo discernere tra posizione di volontà e comportamento volontario. Data questa distinzione all'interno della struttura della volontà siamo in grado di determinare se e quali momenti della volontà possono trovarsi nella condizione del non vissuto.

 

      Nella posizione di volontà riscontriamo l'effettività del porsi del volere nella sua dimensione autentica e, in quanto tale, nel pieno orizzonte della coscienza; date tali premesse non si può ipotizzare che in essa il volere possa non essere vissuto. Nel caso in cui all'interno della coscienza vi siano condizioni di conflitto tra i vari atti è possibile che ciò impedisca momentaneamente l'insorgenza del volere alla luce della coscienza e, di conseguenza, sebbene esso sia vissuto, a causa di questa mancanza di accordo interiore [Einverständnis] che lascia che un altro atto di coscienza occupi il posto di quel volere.

      Nel comportamento volontario è possibile il sorgere un comportamento finalizzato non vissuto, sebbene ad un'analisi più accurata si palesi che tale comportamento non si sviluppa a partire da un vero e proprio atto di volontà in quanto non supera lo stadio del desiderio (che, in quanto determinato genericamente, non si concretizza in un volere).

 

Tra l'impulso derivato dalla posizione di volontà e la conversione in comportamento volontario può tuttavia esistere un momento di stallo: infatti tra l'imposizione di un volere ed il suo tradursi in voler fare possono intercorrere (il che non è assolutamente un fenomeno raro, ma, anzi, tipico di ogni volere che ha per oggetto un'azione che non sia a breve termine) degli “intervalli” temporali [Zwischenzeiten] in cui il volere, pur essendo stato posto e, quindi vissuto, non è attivo. Possiamo perciò distinguere un volere attivo da uno inattivo (il che non presuppone affatto una corrispondenza tout court tra volere attivato e volere vissuto); così si può venire a costituire un volere attivo che sia allo stesso tempo non vissuto e, viceversa, un volere inattivo che sia vissuto. Dunque, ad esempio nei comportamenti di riflesso condizionato, la condizione del volere vissuto è sovrapponibile alla puntuale inattività di tale volere (in tal caso si può parlare anche di volere decaduto[5]) e, quindi, sebbene come volere generale-generico, inconscio.

 

 



[1] M. Geiger, “Frammento sul concetto di inconscio e sulla realtà psichica. Un contributo alla fondazione del realismo psichico immanente”, in R. De Monticelli (a cura di) La persona: apparenza e realtà. Testi fenomenologici 1911-1933, Cortina, Milano 2000, p. 112.

[2] Ivi, p.114.

[3] Ivi, p.118.

[4] Ivi, p.124.

[5] Ivi, pp.152-153.



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