GERSONIDE

 

A cura di Giovanna

 

 

Levi ben-Gershom, noto come Gersonide, fu filosofo, esegeta, matematico e fisico vissuto nella Francia meridionale. Nacque a Bagnols nel 1288 e morì il 20 Aprile del 1344. “Gershuni”, l’equivalente ebraico di “Gersonide”, fu usato per la prima volta per designare Levi b. Gershon da David Messer Leon (c. 1500). Levi era discendente da una famiglia di studiosi. Secondo alcuni, suo padre era Gershhon b.Solomon, l’autore di "Sha'ar ha-Shamayim".

La posizione di Levi ben Gershon nella filosofia ebraica è unica. Di tutti i Peripatetici Ebraici solo lui ha osato rivendicare il sistema aristotelico nella sua integrità, a prescindere dal conflitto esistente tra alcune delle sue dottrine ed i principali dogmi del Giudaismo. Inventore di un sofisticato strumento per calcolare la distanza angolare tra due stelle, scrisse parecchi commenti biblici e commentari ai commenti di Averroè ad Aristotele.

Dotato di uno spiccato senso critico, Levi talvolta non concorda con Aristotele e sostiene i suoi propri punti di vista in opposizione a quelli del suo Maestro, Averroè; ma quando, dopo aver valutato i vantaggi e gli svantaggi di una dottrina la ritiene valida, non teme di professarla, anche quando è in diretta contraddizione con il dogma accettato della teologia ebraica. Significativamente, egli dice che “la Legge non può impedirci di considerare vero ciò che la ragione ci sprona a credere”.

Venendo storicamente dopo Maimonide, Levi si occupò soltanto di quelle questioni filosofiche che l’autore di "Morch Nebukim", a causa della sua ortodossia, risolse o in diretta opposizione ai principi aritstotelici oppure  spiegò con vaghe affermazioni sulle quali lo studente era stato lasciato nell’oscurità per quanto riguarda la vera opinione di Maimonide sull’argomento. Le questioni sono le seguenti: l’immortalità dell’anima, la profezia, l’onniscienza di Dio, la divina provvidenza, la natura delle sfere celesti e l’eternità della materia. Alla soluzione di questi problemi filosofici Levi dedicò il suo Milamot Adonai: Le guerre del Signore, opera in sei libri portata a compimento nel 1329. Il lavoro comprende sei principali sezioni, ciascuna delle quali è suddivisa in capitoli. Il metodo adottato da Levi è quello aristotelico: prima di fornire la sua soluzione al problema in oggetto, presenta una rassegna critica delle opinioni dei suoi predecessori.

La prima sezione si apre con un’esposizione delle teorie di Alessandro di Afrodisia, Temistio, Averroè e di alcuni filosofi del suo tempo, a proposito della dottrina aristotelica dell’anima.

La trattazione aristotelica dell’argomento è infatti molto oscura; mentre asserisce che l’anima è la prima entelechia del corpo organico, e di conseguenza non può essere separata da esso più di quanto la forma non possa essere separata dalla materia, egli sostiene che dei due elementi dell’anima, l’intelletto passivo ed attivo, l’ultimo è immortale.

Al fine di armonizzare queste due affermazioni contrastanti, Alessandro di Afrodisia, nella sua parafrasi del libro di Aristotele sull’anima, opera una distinzione tra l’intelletto materiale, il quale, come la materia, ha soltanto un’esistenza potenziale, e l’intelletto acquisito, quest’ultimo è l’intelletto materiale quando, per studio e riflessione, è passato dalla potenzialità all’attualità ed ha assunto un’esistenza effettiva.

La causa di questa transizione è l’intelletto universale, che è Dio stesso. Ma poiché la relazione tra Dio e l’anima è solo temporanea, l’intervento divino cessa con la morte e l’intelletto acquisito scivola nel nulla. Il sistema psicologico, nel quale una mera facoltà fisica della sostanza che non ha nulla di spirituale nella sua essenza può con un graduale sviluppo diventare qualcosa di immateriale e permanente, è respinto da Temistio. Per lui l’intelletto è una disposizione inerente che ha per substrato una sostanza che differisce interamente da quella del corpo. Averroè, nel suo trattato sull’intelletto, combina i due sistemi ed enuncia l’opinione che l’intelletto diventa una sostanza attuale non appena lascia il corpo. Secondo alcuni contemporanei di Levi l’intelletto è una facoltà che esiste da sè. Dopo un’attenta esamina delle varie opinioni, Levi fornisce il suo punto di vista sulla natura dell’intelletto.

L’intelletto è nato con l’uomo, non è altro che una mera facoltà che ha come substrato l’anima immaginativa, essendo quest’ultima unita con l’anima animale. Questa facoltà, quando è messa in moto dall’intelletto universale, inizia ad avere un’esistenza effettiva dalle idee acquisite e dai concetti con i quali si identifica perché l’atto del pensare non può essere separato dall’oggetto del pensiero.

L’ identificazione dell’intelletto con l’intellegibile costituisce l’intelletto acquisito (“sekel hanikneh”), che è per la facoltà originale ciò che la forma è per la materia. Ma l’intelletto acquisito cessa di esistere con la morte del corpo? Questa domanda è strettamente collegata a quella della natura degli universali. Se, come asserito dai realisti, gli universali sono entità reali, allora l’intelletto acquisito, che consiste di idee concepite le quali hanno una reale esistenza, può sopravvivere al corpo; ma se, come sostenuto dai nominalisti, nulla esiste fuorchè gli individui e gli universali sono meri nomi, allora l’immortalità è fuor di questione. In contrasto con Maimonide, Levi difende la teoria dei realisti e sostiene con essa il principio dell’immortalità.

La seconda sezione de “Milamot” è dedicata alla filosofia. Fu concepita per completare e correggere alcune affermazioni fatte da Aristotele nel suo lavoro incompleto De Sensu et Sensibili, il quale contiene due capitoli sul processo di divinazione. Mentre Maimonide si occupò soltanto dell’aspetto psicologico del problema - “quali sono i requisiti della profezia?” - Levi considerò anche la fase metafisica: “è possibile una profezia?”; non è l’ammissibilità della prescienza assolutamente incompatibile con la credenza nel libero arbitrio dell’uomo? Per rispondere alla prima domanda non vi è, secondo Levi, bisogno alcuno di dimostrazioni speculative. Il fatto che esistano uomini dotati della facoltà di prevedere il futuro è, a suo avviso, incontestabile. Questa facoltà si trova non solo nei profeti ma anche nei chiaroveggenti, nei visionari e negli astrologi. Cita il caso di un uomo malato di sua conoscenza, il quale, nonostante non avesse nozioni mediche, sognò il rimedio che lo avrebbe curato. Lo stesso Levi sostenne di aver ricevuto in sogno, in diverse occasioni, soluzioni ad enigmatici problemi metafisici.

Ma la prescienza implica anche la predestinazione. Ciò, tuttavia, sembra essere in contrasto con la libertà d’arbitrio. Per confutare tale obiezione, Levi si impegna a dimostrare che, nonostante tutti gli eventi sublunari siano determinati dai corpi celesti, l’uomo può con il suo libero arbitrio e la sua intelligenza annullare tale determinazioni. Dopo aver riconciliato la predizione con il principio del libero arbitrio, definisce la natura della prescienza ed opera una distinzione tra profezia ed altri tipi di divinazione. Nelle visioni profetiche, afferma, è la facoltà razionale che è messa in comunicazione con l’intelletto universale e, pertanto, le predizioni sono sempre infallibili; mentre nella divinazione la facoltà ricettiva è il potere d’immaginazione e le predizioni possono spesso essere chimeriche. Quindi, come Maimonide, Levi sostiene che l’origine delle percezioni profetiche è la stessa di quella della scienza comune, ovvero l’intelletto universale. Mentre l’autore de Moreh annovera tra i requisiti della profezia una ricca immaginazione, Levi asserisce che la grandezza del profeta consiste precisamente nella sua facoltà di verificare la pratica dell’immaginazione così che essa non disturbi i dettami della ragione.

Un altro punto di disaccordo tra Maimonide e Levi è la questione se le perfezioni intellettuali e morali siano da sole sufficienti ad assicurare ai loro possessori la visione profetica. Per Maimonide, la speciale volontà di Dio è la conditio sine qua non per la profezia, per Levi le perfezioni morali ed intellettuali sono da sè sufficienti.

La parte più interessante de Milamot è la terza sezione principale che tratta l’onniscienza di Dio. Come è noto, Aristotele limitò la conoscenza di Dio agli universali, arguendo che se Egli avesse avuto la conoscenza dei particolari, sarebbe stato soggetto a cambiamenti costanti. Maimonide rifiuta tale teoria e si impegna a dimostrare che il credo nell’onniscienza divina non è in contrasto con il credo nella Sua unità ed immutabilità. “Dio”, afferma, “percepisce gli eventi futuri prima che questi accadano, e la Sua percezione è sempre infallibile. Pertanto non Gli si presenta alcuna nuova idea. Egli sa che quel tale individuo nascerà in quel tempo, vivrà per un certo periodo e poi ritornerà alla non-esistenza. Il venire alla luce di quell’individuo non rappresenta per Dio un fatto nuovo; nulla è accaduto di cui Egli non era a conoscenza, poiché Egli conosceva tale individuo, così come è ora, prima della sua nascita”. Per quanto riguarda le obiezioni fatte dai Peripatetici alla credenza nell’onniscienza di Dio, ovvero a come sia concepibile che l’essenza di Dio possa rimanere indivisibile nonostante la molteplicità di conoscenza di cui si compone; al fatto che la Sua intelligenza debba abbracciare l’infinito; che gli eventi debbano mantenere il loro carattere di contingenza nonostante il fatto che essi sono previsti dall’Essere Supremo; tutto ciò, secondo Maimonide, è basato su un errore. Sviati dall’uso del termine “conoscenza”, gli uomini credono che qualunque sia il requisito per la loro conoscenza tale requisito lo sia anche per la conoscenza di Dio. Il fatto è che non vi è paragone alcuno tra la conoscenza dell’uomo e quella di Dio, essendo quest’ultima assolutamente incomprensibile all’intelligenza umana. Questa teoria è aspramente criticata da Levi, il quale afferma che non la ragione ma la sola religione ha dettato ciò a Maimonide. Infatti Levi arguisce che non vi è dubbio che tra la conoscenza umana e quella divina vi sia un’ampia differenza di grado; ma l’assunzione che non vi sia la benché minima analogia tra le due è ingiustificata. Quando la natura di Dio è caratterizzata attraverso determinazioni positive, l’anima è vista coma la base del ragionamento. Pertanto la scienza è attribuita a Dio perché anche l’uomo la possiede fino ad un certo livello. Se poi, come suppone Maimonide, non vi è, fatta eccezione per il nome, alcuna somiglianza tra la conoscenza di Dio e quella dell’uomo, come può l’uomo ragionare di Dio? Allora, di nuovo, vi sono attributi che possono essere predicati di Dio, come per esempio, la conoscenza e la vita, che implicano la perfezione, ed altri che devono esserGli negati, quali per esempio, la corporeità ed il movimento perché essi implicano l’imperfezione. Ma secondo la teoria di Maimonide non v’è ragione d’escludere qualsiasi attributo dal momento che applicati a Dio tutti gli attributi necessariamente perdono il loro significato. Maimonide è davvero coerente ed esclude tutti gli attributi positivi ammettendo solo quelli negativi, ma le ragioni da lui spiegate per tali distinzioni non sono soddisfacenti. Avendo pertanto confutato le teorie di Maimonide, sia quella dell’onniscienza di Dio che quella degli attributi divini, Levi spiega i suoi punti di vista. Il pensiero sublime di Dio, afferma, abbraccia tutte le leggi del cosmo, che regolano l’evoluzione della natura, gli influssi generali esercitati dai corpi celesti sul mondo sublunare e le specifiche essenze delle quali la materia è investita, ma gli eventi sublunari, i molteplici dettagli del mondo fenomenico sono nascosti dal Suo spirito. Non conoscere tali dettagli non è tuttavia un’imperfezione perché nel conoscere le condizioni universali delle cose, Egli sa ciò che è essenziale e conseguentemente buono nell’individuo.

Nella quarta sezione Levi discute la questione della Provvidenza divina. La teoria secondo la quale l’umanità sola nella sua interezza è guidata e protetta dalla provvidenza divina non riconosce nè l’esistenza della profezia nè quella della divinazione. Nè può ciascun individuo essere l’oggetto della sollecitudine di una provvidenza speciale, poiché ciò è (1) contro la ragione, poiché, come è stato dimostrato, l’intelligenza divina abbraccia solo gli universali ed è inammissibile che il male provenga da Dio, la fonte di ogni bene; (2) contro l’esperienza poiché spesso si cerca il retto vinto dalla miserie, mentre il malvagio trionfa; (3) contro il senso della Torah, che quando ammonisce gli uomini che le loro ribellioni saranno seguite da disastri perché Dio nasconderà loro il Suo volto, implica che le calamità che li sopraffaranno giungeranno come la conseguenza del loro essere stati lasciati senza protezione dalle vicissitudini del destino. Levi pertanto perviene alla conclusione che alcuni sono sotto la protezione e guida della provvidenza generale, mentre altri sono protetti e guidati da una provvidenza speciale ed individuale. È inconfutabile, afferma, che ad una provvidenza benefica importino tutti gli esseri sublunari. Ad alcuni attribuisce alcuni organi corporali che li rendono capaci di procurarsi tutto ciò che è loro necessario nella vita per proteggersi dal pericolo, ad altri assegna una natura che li mette in condizione di evitare ciò che potrebbe nuocer loro. È inoltre dimostrato che la posizione più alta della scala della creazione occupata da un essere vivente gli garantisce più organi per la sua conservazione e difesa: in altre parole, maggiori la sollecitudine e protezione assegnategli dal Creatore.

Quelle specie animali che più da vicino assomigliano all’uomo partecipano nella sollecitudine della provvidenza ad un livello più esteso rispetto a quella parte di animalità che costituisce il punto di raccordo tra i regni animale e vegetale. Se, poi, il grado di partecipazione di un essere nella protezione della divina provvidenza è proporzionato al grado del suo sviluppo è chiaro che più uno si avvicina all’intelligenza attiva, più esso è l’oggetto della sollecitudine divina. Pertanto coloro che si sforzano per sviluppare le facoltà dell’anima godono della cura di una provvidenza speciale ed individuale, mentre coloro che brancolano nell’ignoranza sono custoditi soltanto dalla provvidenza generale. C’è, tuttavia, una grossa obiezione a questa teoria: non vi può essere questione di una provvidenza speciale se Dio conosce soltanto le generalità. Per far fronte a questa antinomia, Levi definisce la natura della provvidenza speciale. Tutti gli avvenimenti, afferma, tutti i fenomeni di questo mondo sono da attribuirsi agli influssi dei corpi celesti, regolati da leggi eterne ed immutabili, così che il principio demiurgico, che conosce tali leggi, ha una conoscenza perfetta di tutti i fenomeni che si ripercuotono su questo mondo, di ciò che è buono e cattivo che è in serbo per l’umanità. Tale sottomissione alle sostanze eteree tuttavia non è assoluta poiché l’uomo per il suo libero arbitrio può, come asserito precedentemente, annullare tali determinazioni. Al fine però di scongiurare tali influssi, egli deve essere avvertito del pericolo. Questo monito viene dato dalla divina provvidenza all’umanità nel suo insieme, ma è percepito soltanto da coloro il cui intelletto è pienamente sviluppato; la provvidenza divina giova soltanto agli individui.

La quinta sezione comprende tre parti, rispettivamente di astronomia, fisica e metafisica.

La parte astronomica, che forma da sola un saggio di considerevole portata composto da 136 capitoli, non fu inclusa nell’edizione pubblicata de Milamot ed è ancora in forma di manoscritto. Fu tradotto in latino per conto di Papa Clemente VI e godette di una tale alta reputazione nel mondo scientifico cristiano che l’astronomo Keplero si peritò di ottenerne una copia.

La seconda parte è dedicata alla ricerca delle cause finali di tutto ciò che esiste nei cieli, ed alla soluzione dei problemi astronomici, quali ad esempio se le stelle esistono per sé o se invece esse hanno lo scopo di esercitare un influsso su questo mondo; se, come supposto da Tolomeo, esiste sopra le sfere celesti una sfera senza stelle che impartisce il moto diurno ai cieli inferiori, o se, come sostenuto da Averroè, non ve n’è alcuna; se le stelle fisse sono tutte situate in un’unica e stessa sfera, o se il numero delle sfere corrisponde a quello delle stelle; come il sole riscalda l’aria; perché la luna prende a prestito la sua luce dal sole e non brilla di luce propria. Nella terza parte Levi stabilisce l’esistenza primo di un intelletto attivo, poi di intelligenze planetarie ed infine di una causa primaria, che è Dio. La prova migliore dell’esistenza di una causa efficiente e finale è il fenomeno della procreazione. Senza l’intervento di un’intelligenza efficiente, non vi è possibilità di spiegare la generazione e la sistemazione di esseri animati.

Esiste soltanto un’unica intelligenza demiurgica oppure ve ne sono molteplici? Dopo aver esaminato le varie opinioni in merito, Levi conclude quanto segue: 1) i vari movimenti dei corpi celesti implicano una gerarchia di principi motori; 2) il numero di questi principi corrisponde a quello delle sfere; 3) le sfere stesse sono esseri animati ed intelligenti, che compiono le loro rivoluzioni con perfetta cognizione della loro causa. Diversamente da Maimonide, egli sostiene che le varie intelligenze non sono state gradualmente emanate dalla prima, ma sono state tutte il diretto effetto della causa primaria. Non può, tuttavia, questa causa primaria essere identificata, come supposto da Averroè, con una delle intelligenze, in particolare con quella che dà il moto alle sfere più elevate, ovvero quella delle stelle fisse? Questo, dice Levi, è impossibile poiché ognuna di queste intelligenze percepisce soltanto una parte dell’ordine universale dal momento che è confinata ad un cerchio limitato di influenze; se Dio quindi fosse il motore di qualsiasi sfera ci sarebbe un legame stretto tra Lui e le Sue creature.

L’ultima sezione tratta la creazione ed i miracoli. Dopo aver confutato le argomentazioni avanzate da Aristotele a favore dell’eternità del mondo ed aver dimostrato che nè il tempo nè il moto sono infiniti, Levi dimostra quanto segue: 1) il mondo ebbe un inizio; 2) il mondo non ha fine; 3) non è seguito ad un altro mondo. Nell’ordine della natura, afferma, l’intera terra era coperta da acqua, che era avvolta dalla sfera concentrica di aria, la quale, a sua volta, era coperta da quella del fuoco.

Fu quindi, si chiede, come suppone Aristotele, il calore assorbente del sole che fece sì che l’acqua recedesse e la terra apparisse? In quel caso l’emisfero sud, dove il calore è più intenso, doveva presentare un fenomeno simile. È pertanto ovvio che fu dovuto all’azione di un agente superiore. Dal fatto che il mondo ebbe un inizio non si deve però assumere che avrà anche una fine; al contrario, esso è senza fine come i corpi celesti, che sono la fonte della vita e del moto, e dei quali le sostanze, essendo immateriali, non sono soggette alle leggi naturali del decadimento. Avendo così dimostrato che il mondo non è eterno a parte ante ed è eterno a parte post, Levi fornisce il suo punto di vista sulla creazione. Sceglie una posizione a metà tra la teoria dell’esistenza di una sostanza cosmica primordiale e quella di una creazione ex nihilo, entrambe da lui criticate. A suo avviso, dall’eternità esisteva una materia non determinata inerte, priva di forma ed attributo. Ad un certo momento Dio assegnò a tale materia (che fino ad allora aveva solo un’esistenza potenziale) un’essenza, una forma, il moto e la vita; da essa procedettero tutti gli esseri sublunari e le sostanze celesti, ad eccezione delle intelligenze separate che erano dirette emanazioni della Divinità.

Nella seconda parte dell’ultima sezione Levi si impegna a dimostrare che la sua teoria della creazione concorda con la narrazione della Genesi; egli dedica gli ultimi capitoli de Milamot alla discussione dei miracoli. Dopo aver definito la loro natura dalle inferenze bibliche, egli dimostra che colui che compie effettivamente i miracoli non è nè Dio nè il profeta, bensì l’intelletto attivo. Ci sono, afferma, due tipi di legge naturale: quelle che regolano l’economia dei cieli e dalle quali le sostanze eteree producono i comuni fenomeni sublunari e quelle che governano le particolari operazioni del principio demiurgico e dalle quali vengono prodotti gli straordinari fenomeni noti come miracoli. Come la libertà d’arbitrio nell’uomo, questa facoltà fu data da Dio all’intelletto attivo come una correzione agli influssi dei corpi celesti, che sono talvolta troppo rigidi nella loro inflessibilità. Il soprannaturale inteso nel suo senso letterale non esiste dal momento che persino un prodigio è un effetto naturale di una legge primordiale, sebbene distinto da altri eventi sublunari per la sua origine ed estrema rarità. Pertanto un uomo dall’intelletto fortemente sviluppato può prevedere il compimento di un determinato miracolo che è unicamente il risultato di una legge provvidenziale concepita ed eseguita dall’intelletto attivo. I miracoli sono soggetti, secondo Levi, alle seguenti leggi: 1) il loro effetto non può essere permanente e pertanto soppiantare la legge della natura; 2) nessun miracolo può produrre cose che si contraddicono intrinsecamente quali, ad esempio, un oggetto che è tutto nero e bianco allo stesso tempo; 3) nessun miracolo può avvenire nelle sfere celesti. Quando Giosuè affermò “Sole, levati su Gibeon”, egli volle semplicemente esprimere il desiderio che la sconfitta del nemico dovesse essere completata mentre il sole continuava a risplendere su Gibeon. Pertanto il miracolo consisteva nella prontezza della vittoria.

Le conclusioni raggiunte ne Milamot furono introdotte da Levi nei suoi commentari biblici in cui egli si adoperò al fine di riconciliarle con il testo della Legge. Guidato dal principio disposto ma non sempre seguito da Maimonide, ovvero che un insegnamento filosofico o morale soggiace ad ogni racconto biblico, Levi adottò il metodo di assegnare il significato letterale e poi di riassumere le idee filosofiche e le massime morali contenute in ciascuna sezione. I libri di Giobbe e i Cantici sono principalmente interpretati da lui in modo filosofico. Gerusalemme, a suo avviso, simboleggia l’uomo, che, come la città, fu scelto a servizio di Dio; “le figlie di Gerusalemme” simboleggiano le facoltà dell’anima, e Salomone rappresenta l’intelletto che governa tutto. Contrariamente agli esegeti filosofici del suo tempo, Levi tuttavia, non allegorizzò le parti storiche e legislative della Bibbia, ma si impegnò a fornire una spiegazione naturale dei miracoli.

 

 

 

 

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