GIANSENIO



 

A cura di Alessandro Sangalli

 

 

 

1. Vita e opere

 

GIANSENIOCornelio Giansenio – nome italianizzato di Cornelis Otto Janssen – nacque ad Ackoy, presso Utrecht, il 28 ottobre del 1585. Fu educato nel Collegio di S. Gerolamo a Utrecht, poi a Lovanio (Louvain) presso i Gesuiti. Dal 1602 studiò all'università di Lovanio, dove conobbe Jean Du Vergier de Hauranne, futuro abate di Saint Cyran. Dopo aver conseguito il baccalaureato in Filosofia, si trasferì a Parigi per completare i suoi studi teologici. Insegnò per qualche anno nel collegio della cattedrale di Bayonne, dove l'amico Du Vergier era canonico. Per molti anni Giansenio e Du Vergier si dedicarono allo studio comune degli scritti dei Padri della Chiesa, in particolare di S. Agostino.

Nel 1617, quando Du Vergier fu eletto abate di Saint Cyran, Giansenio fece ritorno a Lovanio per occuparsi della ricostruzione e della direzione del collegio di Santa Pulcheria: due anni più tardi, diventato dottore in Teologia, iniziò ad insegnare all'università cittadina ottenendo la cattedra di Sacra Scrittura. In questo periodo iniziò a scrivere la sua opera più importante, l’Augustinus, che fu pubblicata solo postuma nel 1640.  

Nel 1635 fu nominato rettore dell’università di Lovanio e l’anno dopo fu investito vescovo di Ypres, nelle Fiandre. Qui morì di peste il 6 maggio del 1638.

Le sue opere principali sono: Alexipharmacum (1630), che – sotto lo pseudonimo di Alessandro Patrizio Armacano – difese l’anno successivo con una Spongia notarum dalle accuse di Gilberto Voet; Tetrateuchus (1639), commentario ai Vangeli; Pentateuchus (1641) e Analecta (1644) commentari al Pentateuco, ai Proverbi, all'Ecclesiaste, alla Sapienza, ad Abacuc e a Sofonia; Augustinus, seu doctrina sancti Augustini de humanae naturae sanitate, aegritudine, medicina adversus Pelagianos et Massilienses (Lovanio 1640 e subito ristampato a Parigi nel 1641), trattato che contiene la teorizzazione del giansenismo.  

Alcune posizioni di Giansenio, come l’accettazione del sinodo protestante di Dordrecht del 1619 o l’aver accolto con favore il De republica Christiana di Marcantonio De Dominis, avrebbero potuto metterlo in sospetto di eresia, ma le sue opere in difesa della Chiesa cattolica, dove negava ai Protestanti l’autorità di una riforma, lo facevano considerare assertore della vera fede. Solo dopo la sua morte la Congregazione dell’Indice e della Santa Inquisizione condannò la sua opera Augustinus, in cui vennero ravvisati errori sulla dottrina della predestinazione. Solo questa pubblicazione tardiva risparmiò l'autore dal clamore delle polemiche e delle condanne che si scatenarono contro la sua dottrina.

 

 

2. L’Augustinus e la teorizzazione del giansenismo

 

L’opera di Giansenio nasce da un sentimento di reazione e da un bisogno di riforma all’interno del cattolicesimo: una reazione che spingeva ad una maggiore interiorità della vita religiosa, in opposizione alle tendenze post-tridentine, e auspicava un ritorno alle Scritture e ai Padri della Chiesa; una riforma incentrata sul rafforzamento dell'autorità dei vescovi contro il potere degli ordini religiosi, in particolare contro i gesuiti.  

L’Augustinus si colloca nella secolare polemica sulla grazia e sulla predestinazione: è un’esposizione delle teorie di Giansenio confermata dall’autorità di S. Agostino, che il nostro considera «Pater Patrum, doctor doctorum, primus post scriptores canonicos, inter omnes vere solidus, subtilis, irrefragabilis, angelicus, seraphicus, excellentissimus et ineffabiliter mirabilis». Non a caso un maestro come Piero Martinetti ha scritto che la corrente del giansenismo «segnò un ritorno deciso all’agostinismo più rigoroso» (La libertà, cap. IV). L'opera consta di tre volumi, cui Giansenio dedicò più di vent’anni di lavoro: il primo volume espone e confuta l’eresia pelagiana (eresia che negava la trasmissione del peccato originale e la necessità della grazia, affermando la capacità dell’uomo di guadagnare la salvezza con le sue sole forze); il secondo si occupa dello status naturae lapsae e dello status naturae purae; il terzo esplicita la dottrina giansenistica sulla grazia e sulla predestinazione. L’Augustinus si chiude con una critica alla dottrina molinista.

Nell’elaborare la sua dottrina, Giansenio riprende e sviluppa le teorie di Baio (Michel de Bay, attivo nel secolo XVI nell’università di Lovanio): come il suo predecessore, egli pensa che l'uomo sia irrimediabilmente corrotto ed inevitabilmente incline al male a causa del peccato originale (la caduta, lapsus) che si trasmette in maniera ereditaria; nonostante il libero arbitrio, l'uomo non sa che peccare. Senza la grazia divina, per l'uomo è impossibile la salvezza. Prima della caduta, Adamo era libero, poteva scegliere se peccare o meno ed era dotato solo della grazia sufficiente (per Agostino auxilium sine quo non). Per effetto del lapsus, egli perde la libertà e per poter compiere ogni atto buono necessita della grazia efficace (auxilium quo), ovvero la grazia che determina la volontà. L'uomo è quindi ineluttabilmente trascinato al male e naturalmente incline a peccare: dopo il peccato originale, la volontà umana perde la sua libertà e si trova sotto l’influsso invincibile del piacere e del male. Le opere dell’uomo sarebbero solamente peccati se non intervenisse la grazia divina a determinare necessariamente la volontà e a dirigerla verso il bene.

In polemica con i molinisti – che in base alla dottrina del gesuita Luis de Molina (1535-1600) conciliavano l'onnipotenza della grazia con la libertà dell'uomo, ammettendo l’esistenza di una grazia sufficiente (data da Dio a tutti gli uomini) che riceveva però la sua efficacia dall'assenso della nostra libertà – Giansenio sostiene che ogni grazia è efficace e perciò stesso necessita inevitabilmente: sotto la sua azione non possiamo fare nulla di libero. Dio ha predestinato alla salvezza o alla dannazione con un atto antecedente ad ogni merito o colpa.

 

 

3. Il determinismo e la morale

 

La dottrina delineata da Giansenio porta innegabilmente con sé un rigido determinismo: in un simile orizzonte, non si può parlare di libertà, a meno di intenderla in modo negativo, come assenza di vincoli materiali o coazione fisica (libertà da). L’uomo – come abbiamo detto poco sopra – è portato a peccare in modo necessario e inevitabile, non è libero di scegliere se peccare o meno, non è dotato (come Adamo) del liberum arbitrium indifferentiae. Le opere buone che compie sono da imputare all’effetto della grazia efficace, che annulla l’azione della concupiscenza e del desiderio e volge infallibilmente la volontà umana verso il bene. Nemmeno l’uomo che compie il bene è quindi libero.

L’uomo non può far nulla per meritarsi la grazia: anzi, indipendentemente da essa, egli non può acquistare nessun merito. L’uomo non ha veramente meriti propri, ma solo meriti di grazia, doni della misericordia divina. La grazia infatti previene il libero arbitrio, che non può far altro che seguirla e obbedirle. Attenzione però a non travisare: la necessità con cui un peccatore pecca non lo assolve dalla sua colpa. Il peccato, per quanto necessario, è sempre e comunque una colpa.

La salvezza è opera esclusiva della grazia, che ci viene donata da Dio senza alcun merito da parte nostra, ma solo come dono della sua bontà. È sempre Dio che sceglie liberamente chi predestinare alla salvezza e chi alla dannazione, con un atto le cui motivazioni non possiamo penetrare. Il numero degli eletti è fissato nella mente di Dio: il mondo non esiste che per essi e il tempo si arresterà quando il loro numero sarà completo.

Ma allora a cosa servono i precetti, i comandamenti e le esortazioni? Forse Dio comanda agli uomini ciò che, senza la sua grazia, sa essere impossibile da realizzare? E la grazia, determinando necessariamente la volontà, non annulla nell’uomo ogni merito e autonomia sul piano morale? Queste difficoltà non sono facilmente risolvibili, e forse sono comuni a tutte le prospettive deterministiche, sempre in pericolo di farsi portavoce di quell’unità assoluta, di quella necessità fatalistica che William James – in The Dilemma of Determinism, una celebre conferenza del 1884 – paragonò a «un blocco di ferro nel quale non può esservi equivoco od ombra di deviazione». Martinetti, notando queste stesse oscurità, scrive che l’Augustinus di Giansenio «non indietreggia dinanzi a conseguenze paradossali ed inumane: ma in tutta l’opera spira un senso alto e severo di moralità, che spiega come essa abbia potuto sollevare tanti entusiasmi e tante tempeste nella chiesa» (La libertà, cap. IV).

Giansenio contrapponeva le sue tesi alla rilassatezza e al lassismo della morale ecclesiastica, specialmente a quella gesuitica, secondo la quale – in sostanza – la salvezza è sempre a portata dell’uomo. L’uomo tratteggiato da Molina possiede infatti una grazia sufficiente che, se accompagnata alla buona volontà, è tutto ciò che occorre per godere della salvezza eterna: questa era la tesi che la Compagnia di Gesù aveva posto a fondamento del suo proselitismo, volto a conservare nella Chiesa il maggior numero possibile di persone, senza troppo badare alla religiosità interiore. Contro questa prospettiva, il giansenismo proponeva un rigorismo morale e religioso senza compromessi.    

 

 

4. La condanna e la difesa                     

 

Il 10 agosto 1641 la Congre­gazione dell'Indice e dell’Inquisizione condannò 18 opere, tra le quali anche l'Augustinus di Giansenio. A questa condanna, oltre alla denuncia della Sorbona (che il 1° luglio 1645 condensò il giansenismo in cinque proposizioni ritenute eretiche) fecero seguito vari anatemi papali: la bolla In eminenti di Urbano VIII nel 1642, la bolla Cum occasione di Innocenzo X nel 1653, le bolle Ad sanctam beati Petri sedem (1656) e Regiminis Apostolici (1664) di Alessandro VII.

Anche nel Settecento, il giansenismo subì gli attacchi della Santa Sede: su pressione dei gesuiti, papa Clemente XI, con le bolle In vinea Domini (1705) e Unigenitus (1713), arrivò perfino a condannare frasi perfettamente ortodosse contenute nell’Augustinus. Questo fatto provocò una momentanea ribellione nella chiesa transalpina: l’arcivescovo di Parigi Louis Antoine De Noailles e altri diciotto prelati non accettarono i contenuti della bolla e fecero appello al sinodo generale francese. Clemente XI reagì con l'emissione della bolla Pastoralis officii (1718), condannando l'appello e scomunicando gli appellanti. Nemmeno il ritorno di De Noailles all'ortodossia vaticana dieci anni più tardi riportò la situazione alla normalità: il parlamento francese continuò ancora per molto tempo a rifiutare la bolla Unigenitus.

Il giansenismo è ritenuto dottrina eretica dalla Chiesa Cattolica, ma Giansenio, per il fatto di non aver divulgato le sue idee, dal punto di vista del diritto canonico, non è considerato un eretico.

Fra i difensori e i sostenitori del giansenismo possiamo ricordare l’abate Saint Cyran e amico di Giansenio, Jean Du Vergier, il discepolo di questi Antoine Arnauld, il teologo Pierre Nicole, lo scrittore Pasquier Quesnel e il più noto Blaise Pascal. Quest’ultimo, il 23 gennaio 1656, pubblicò con lo pseudonimo di Luigi Montalto la prima delle sue diciotto Lettere provinciali, un capolavoro di profondità e umorismo dove si occupa di smontare la dottrina molinista, difendendo la prospettiva agostiniana e giansenista.  

    

 

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