GORGIA


CENNI BIOGRAFICI

Gorgia di Lentini era il figlio di Carmantide e nipote del famoso medico Erodico e lo ricordiamo come il più notevole rappresentante della antica sofistica dopo Protagora, e, insieme al suo maestro Tisia, il creatore dell'arte retorica. Così lo ricorda già Cicerone (I, 103; De Oratore), come colui che volle:

"dichiararsi pronto a rispondere a tutte le domande, che ciascuno volesse fargli".

Come date di nascita e morte possono essere assunte orientativamente quelle del 483 e del 375 a. C., morendo quindi ultra centenario. Con l'esercizio e con l'insegnamento dell'arte oratoria, una novità anche per il mondo greco, diventò ricco al punto da poter dedicare, a Delfi, una statua d'oro al dio Apollo. Nel 427 andò ad Atene come ambasciatore di Leontini, in cerca di alleanze contro lo scomodo potere siracusano, e lì si fece apprezzare come retore finissimo trovando imitatori: famoso il suo Epitafio, per commemorare dei soldati ateniesi morti in guerra. Dello stesso avviso non pare Platone che, nel suo Gorgia, lo pone in contrasto critico con Socrate (447, c):

"Ma vorrà poi Gorgia discutere con noi? Perché io vorrei sapere da lui quale è la virtù propria di quest'arte che egli professa e insegna e in che cosa precisamente consista".

E più avanti (449, a):

Socrate - 'Piuttosto, Gorgia, dicci tu stesso come dobbiamo chiamarti e che arte è la tua'.
Gorgia - 'La mia arte è la retorica'.

E ancora, dove Platone crea il dialogo tra Socrate e Gorgia in modo che questi si contraddica, quasi a rivelare una latente rivalità per l' espressione culturale - confronta con la scheda su Tisia - proveniente da una ex terra colonica che diventa sempre più sede di potenti città, usando pure lo stratagemma di "chiedere" a Gorgia risposte concise, mentre il suo Socrate articola domande molto meglio costruite (454/455):

Socrate - Ti sembra che sapere e credere, ossia 'scienza' e 'opinione', siano la stessa cosa?
Gorgia - No; direi che son cose distinte.
Socrate - E diresti bene. Infatti se uno ti domandasse: 'Gorgia v'è una opi nione falsa e una vera?' tu risponderesti di si, credo.
Gorgia - Di si, certo.
Socrate - Ma la scienza può essere falsa e vera?
Gorgia - Assolutamente no.
Socrate - E' proprio vero, quindi, che scienza e opinione non sono la stessa cosa.
Gorgia - Infatti.
Socrate - Eppure vi ha persuasione sia in quelli che hanno scienza che in quelli che hanno solo opinione.
Gorgia - Lo credo bene.
Socrate - Dobbiamo stabilire, pertanto, due specie di persuasione: quella che produce opinione senza il sapere, l'altra che produce scienza.
Gorgia - Hai ben ragione.
Socrate - E allora dimmi, o Gorgia, quale delle due persuasioni produce nei tribunali e nelle altre adunanze la retorica intorno al giusto e all'ingiusto? Quella, cioè, da cui deriva opinione senza sapere, oppure l'altra da cui deriva il sapere?
Gorgia - Evidentemente quella da cui deriva opinione senza sapere.
Socrate - Dunque la retorica, a quanto pare, è produttrice di quella persua sione che induce all'opinione senza il sapere, e non alla scienza del giusto e dell'ingiusto.
Gorgia - Così è.
Socrate - Di conseguenza il retore non insegna nei tribunali e nelle altre adunanze nulla intorno al giusto e all'ingiusto, ma suscita soltanto una semplice credenza. Ed infatti, come potrebbe in così breve tempo insegnare ad una moltitudine di gente cose di così grande importanza?
Gorgia - Sarebbe effettivamente impossibile.

Tale dialogo di Platone induce a riflettere: l'autore ambienta l'incontro nel 427 a.C, cioè quando Gorgia andò in Atene, ma parrebbe composto intorno al 395, dopo cioè l'avvenuta condanna a morte di Socrate; condanna ottenuta dal potere suggestionante della retorica, a danno del giusto: a danno del giusto Socrate. E il dialogo sopra riprodotto - che andrebbe letto per intero - è colmo di giusto rancore: "Quando dicesti che il retore avrebbe potuto servirsi della retorica anche ingiustamente, io rimasi perplesso (...)". L'animo di Gorgia si risentì dello scritto dell'allievo di Socrate che lo vedeva protagonista: il siciliano non avrebbe consentito che la nuova scienza venisse applicata malamente. Fanno fede i suoi componimenti ulteriori. Tra gli altri suoi viaggi vi sono quelli a Fere in Beozia e in Tessaglia, e fu altre volte in Atene. La sua dottrina contiene un intendimento dell'arte oratoria come produttrice di persuasione: non occorre cioè che chi ascolta si convinca che ciò che ode è la verità, bensì è più utile che questi si convinca praticamente, piegandosi alla causa sostenuta dall'oratore. Nell'Elogio di Elena alla parola viene dato il potere di dominare la vita, influenzandone le scelte anche affettive, per cui la donna non ha colpa per quel che è accaduto tra i Greci e i Troiani perché fu spinta dagli dei o dalle parole. E saper accostare parola a parola può determinare la modellatura dell'animo del singolo, come del carattere della folla. La parola può modificare l'anima di chi la ode, e tramite la poesia può anche indurre nuove esperienze (concezione di cui è evidente la parentela col relativismo gnoseologico di Protagora). E le due opere prima citate, dedicate a Elena e Palamede, sono saggi tipici di tale abilità retorica, nata con Gorgia. Nell'opera Sul non ente Gorgia sostiene tre tesi: nulla esiste, se esiste non è conoscibile dall'uomo, se è conoscibile non la si può comunicare ad alcuno, specialmente col solo uso della parola.

"La critica più recente ha chiarito, sopratutto mediante l'analisi comparativa delle due esposizioni che ci restano dello scritto gorgiano (quella di Sesto Empirico e quella dello Pseudo-Aristotele), come l'esposizione di Sesto, da cui deriva l'immagine del Gorgia effettivamente scettico e nichilista, sia in realtà deformata dalla sua intenzione di dossografo dello scetticismo, e debba quindi cedere il passo all'esposizione dello Pseudo-Aristotele, nella quale l'intenzione di ironia antieleatica dello scritto di Gorgia appare concretamente connessa al suo relativismo sofistico" (Dizionario Enciclopedico Italiano, ed. Treccani).

Rileggiamo la conclusione dell'Elogio di Elena:

"Così con le parole ho liberato la donna dalla sua cattiva fama secondo la premessa del mio discorso: e sforzandomi di distruggere l'ingiustizia di un'infamia e l'ignoranza di una opinione, questo discorso ho voluto scrivere, non solo per elogiare Elena, ma perché fosse a me di passatempo".

Sul valore che Gorgia attribuisce al passatempo, allo scherzo, abbiamo una nota di Aristotele, inquadrata con altre e che forse sono traccia di una seconda trattazione sulla Poetica, a noi non pervenuta:

"Su ciò che fa ridere, dal momento che esso sembra avere una sua utilità nei dibattiti, e che Gorgia ha detto, e ha detto bene, che occorre distruggere la serietà degli avversari con il riso e il riso con la serietà, quante siano le forme del comico si è detto negli scritti sulla poetica: di queste l'una si adatta all'uomo libero, l'altra no, e si deve scegliere quel che meglio si adatta".

La lezione di Gorgia è tra quelle immortali dei classici, ed in generale è tra le più alte lezioni dell'ingegno umano. Per noi immortale vuol dire davvero rileggere Gorgia con attenzione; pare oggi un esercizio nuovo l'ascoltare, a saper meglio valutare la enorme mole di informazioni - che in molti hanno interesse a che venga intesa tutta come cultura - che ci circonda. Ricordiamo un aneddoto grazioso che si narra a proposito del famoso viaggio di Gorgia in Atene. Lì egli arringò a lungo la folla, facendo risaltare la differenza di temperamento che sussisteva tra gli abitanti della Sicilia e della Magna Grecia, e tutti gli altri, definiti barbari. I barbari, diceva Gorgia, vivono nella discordia perché vivono tra loro senza armonia. L'armonia sarebbe stata, secondo l'oratore, il segno distintivo della superiorità greca sui nemici, e ciò avrebbe accresciuto la stima ed il timore dei barbari nei confronti dei greci. A questo punto uno della folla, un anonimo saccente, volle appuntare a Gorgia una annotazione sulla sua situazione familiare.

"Noi siamo in tanti, Gorgia", disse l'uomo, "e ci suggerisci di andare d'accordo e in armonia; tutti sanno però che a casa tua siete in tre, tu tua moglie ed il servo, e litigate da mane a sera. Non credi che avrebbero più effetto i tuoi discorsi se si sapesse che voi tre non recate molestia ai vicini?"

IL PENSIERO

Anche Gorgia si colloca (come Protagora) nel contesto della Sofistica: anche per lui il problema del linguaggio è centrale. Gorgia nacque a Lentini (nei pressi di Siracusa) verso il 480 a.C., viaggiò parecchio per le città greche - un po’ come il collega Protagora- ottenendo gran successo col suo insegnamento. La sua fama portò la sua città ad inviarlo in più occasioni come ambasciatore presso altre città (ad Atene, per esempio, dove lasciò a bocca aperta gli Ateniesi per la sua eloquenza). Morì in età molto avanzata (verso il 380, in Tessaglia), dove soggiornava presso il tiranno Giasone di Fere. Come Protagora, anche Gorgia scrisse molto e i suoi scritti erano per lo più orientati verso l'orazione, come il discorso Olimpico, proferito ad Olimpia per invitare i Greci a superare le loro discordie e affrontare uniti i barbari e l'Epitafio, finalizzato ad onorare gli Ateniesi caduti in guerra. Tra i suoi scritti va poi ricordato quello Sul non essere o Sulla natura, il cui titolo capovolge intenzionalmente quello dell'opera di Melisso; molto interessanti risultano anche essere L'encomio di Elena e La difesa di Palamede. Nel Non essere o Sulla natura troviamo le tre tesi fondamentali delle filosofia di Gorgia: 1) l'essere non è; 2) se anche fosse, non sarebbe conoscibile; 3) se anche fosse conoscibile, tale conoscenza non sarebbe comunicabile. Quindi per Gorgia, a differenza di Protagora, tutto è falso. Egli arriva a trarre queste conclusioni esaminando profondamente la filosofia ed in particolare quella eleatica: come gli eleatici, anche Gorgia si serve del ragionamento per assurdo: se l'essere ci fosse, sostiene Gorgia, non dovrebbe avere caratteristiche contraddittorie, come invece gli hanno attribuito gli eleatici. Gorgia ha notato che ci sono troppi contrasti tra i filosofi per quel che riguarda la questione dell'essere, cosicché egli addiviene alla conclusione che l'essere è troppo contraddittorio per esistere. Egli conclude che "l'essere non è" partendo dalle dimostrazioni che l'essere non è nè uno nè molti, nè generato nè ingenerato: sono affermazioni davvero contraddittorie. Ma la conseguenza più interessante e radicale che egli trae è probabilmente quella secondo cui non è possibile comunicare tramite il linguaggio ciò che è. Il linguaggio non ha nulla a che fare con la verità, non è possibile dire ad altri come realmente stiano le cose. Supponiamo che l'essere ci sia; prendiamo un quaderno blu: io voglio comunicare ad un altro il colore del quaderno e quindi gli dico "è blu "; ma non è che nella testa dell'altro c'è lo stesso colore, magari è un blu più tendente al verde; fatto sta che non potrà mai avere in mente la stessa cosa che ho io: l'essere, oltre a non esistere, non è pensabile e non è dicibile. Queste tre tesi di Gorgia sono l'anticipazione di quello che sarà il "nichilismo". Gorgia sosteneva che nulla è, se anche fosse non sarebbe conoscibile, se anche fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. La verità, dunque, resta per Gorgia inaccessibile: ne consegue che tutto è falso, e non "tutto è vero", come invece credeva Protagora. Tutte le proposizioni possono, ad avviso di Gorgia, essere ribaltate attraverso l’arma del logoV (la parola), equiparato dal pensatore di Lentini ad una forza irresistibile alla pari del destino dei tragici o della divinità: la parola può tutto. Anche con Gorgia Platone, a cui stava particolarmente a cuore la possibilità di distinguere il vero dal falso, compie un’operazione simile a quella operata nei confronti di Protagora: se tutto è falso, cosa ci vieta di pensare che anche ciò che dice Gorgia lo sia? Ci si è spesso interrogati se Gorgia fosse un nichilista ante litteram o se, piuttosto, volesse esercitarsi con argomentazioni dialettiche al limite del pensabile. E’ tuttavia certo che l’obiettivo polemico del suo argomentare fosse l’eleatismo: egli si serve, nelle sue argomentazioni, della dimostrazione per assurdo; in altri termini, per dimostrare la verità di A, assume per assurdo che sia vero il contrario (non-A) e, a partire da tale assunzione, si mettono in luce tutte le contraddizioni che ne derivano, a tal punto che si è costretti a riconoscere la falsità di tale assunto (non-A) e ad ammettere la veridicità della tesi di partenza ad essa opposta (A). Le tre proposizioni poc’anzi elencate con cui nega la possibilità della conoscenza non è un caso che ci vengano riportate da uno scettico, Sesto Empirico, nell’opera Contro i dogmatici. Stando a quanto da lui riportato, Gorgia avrebbe sostenuto che se le cose pensate non sono esistenti, allora le cose esistenti non sono pensate: in altri termini, il pensiero non avrebbe un contenuto proprio (poiché ciò che è pensato non esiste) e, per converso, se ne ricaverebbe che ciò che esiste non è pensato. Alla base di quest’argomentazione sta una relazione che Gorgia pone: se A è in relazione con B, allora anche B è in relazione con A; se viceversa A non è in relazione con B, allora anche B non è in relazione con A. Dunque, dato che penso cose che non esistono (dragoni o uomini volanti), allora ciò significa che il pensato non è in relazione con l’essere e, per converso, che l’essere non è in relazione col pensato. Ammettendo, infatti, per assurdo l’esistenza delle cose pensate, ne conseguirebbe che l’uomo che vola o il carro che procede sul mare (tutti oggetti del mio pensiero) dovrebbero esistere, ma l’esperienza confuta ciò. Se poi dico che il pensiero rispecchia l’esistente, non si spiega perché nel pensiero trovino cittadinanza anche l’uomo che vola o il carro che procede sul mare. Il terzo argomento addotto da Gorgia poggia sull’analogia con l’esperienza: giacchè i sensi non interferiscono tra loro né si smentiscono a vicenda, si può essere spinti a credere che ciò valga anche per il pensato, cosicchè le cose che né vedo né sento né tocco, ciononostante il pensiero mi attesta che esistono. Ma in questo modo mi troverei costretto, ancora una volta, ad ammettere l’esistenza dell’uomo che vola e del carro che procede sul mare. Con Gorgia, quindi, viene per la prima volta messa in discussione la possibilità di conoscere alcunché. Sembra essere una filosofia negativa e pessimista, ma in realtà non è così: il ragionamento conduttore è in sostanza che in assenza dell'essere l'uomo è onnipotente, non ha limitazioni. Spieghiamoci meglio: se l'essere esiste, l'uomo trova lì un limite alle sue azioni; ma se l'essere non c'è (non è conoscibile) l'uomo non ha limiti. E' su questo presupposto che si basa l'onnipotenza della retorica di Gorgia: se l'essere è ed è conoscibile non si può far conoscere alla gente ciò che si vuole (perchè ci si deve attenere all'essere), ma se non c'è l'essere non si hanno limiti e si può convincere la gente di ogni cosa: chi può dire che una cosa sia falsa se non c'è un qualcosa a cui attenersi (l'essere)? La verità per Gorgia non conta niente perchè non esiste: ciò che conta è la capacità di argomentare. Gorgia era fratello di un medico e diceva che pur non sapendo nulla di medicina, riusciva più lui del fratello a convincere i pazienti ad assumere i farmaci. Il linguaggio è totalmente distaccato dalla verità: esso non consiste nell'enunciazione di conoscenze , bensì nella persuasione (nell'encomio di Elena Gorgia prende le difese di Elena, colei per la quale aveva avuto inizio la guerra di Troia: il discorso è in realtà un puro sfoggio di virtuosità oratorie; Gorgia, con l'arte persuasoria, dimostra le cose più assurde). Per Gorgia la persuasione è indipendente dal valore di verità di ciò che viene detto, dal momento che la parola pronunciata esercita la sua influenza sull'apparato emotivo degli ascoltatori, non sulle loro eventuali capacità intellettive. La potenza della parola è equiparata da Gorgia alla potenza dei farmaci e degli incantesimi magici. Come detto, Gorgia diceva di essere più capace a far prendere le medicine ai pazienti di quanto non lo fosse il fratello medico: questo risultato può essere ottenuto sulla base di due presupposti . Il primo consiste nel rendersi conto della particolare condizione psicologica in cui si trovano di volta in volta i propri ascoltatori e di valutare il momento opportuno (in Greco o kairoV) per parlare e dire determinate cose. Il secondo presupposto consiste nella capacità di usare diversi tipi di discorso appropriati alle circostanze. Il nucleo dell'insegnamento di Gorgia è proprio dato dallo studio delle differenti forme del discorso e della molteplicità delle figure stilistiche da usare. Per ottenere gli effetti persuasivi desiderati. Gorgia elabora anche un'interessante teoria a riguardo dell'arte (fortemente positiva); prima di lui nessuno se ne era occupato: perchè? L'età presofistica era un'età dove la filosofia era prettamente cosmologica: si cercava cioè di spiegare da dove fosse saltato fuori il mondo; con i sofisti la filosofia assume istanze a carattere antropologico: l'oggetto della ricerca diventa l'uomo e tutto ciò che lo riguarda. In seguito, anche Platone elaborerà una teoria sull'arte (fortemente negativa: per lui è meglio attenersi al vero e non lasciarsi trasportare dall'arte che stimola passioni e non è copia di ciò che è veramente) e pure Aristotele (la sua è una visione più positiva); Gorgia parte dal presupposto che noi non possiamo conoscere l'essere: se l'essere esistesse, l'arte sarebbe solo una sua imitazione imperfetta; ma dato che non esiste, da una parte non ho limiti e dall'altra l'arte diventa una mia creazione. Dato che non c'è un vero mondo (l'essere non c'è) , l'artista è un creatore di mondi: per Gorgia il buon artista è quello che riesce ad ingannare gli spettatori, e il buon spettatore è quello che si lascia ingannare dall'artista: tutto questo perchè l'essere non c'è. Una domanda che ci si è sempre posti analizzando Gorgia e tutti i sofisti, è se essi fossero politicamente conservatori o rivoluzionari. Politicamente Gorgia ha idee tipicamente conservatrici: alla domanda "che cos'è la virtù?", egli rispondeva nel più tradizionale dei modi: "i giovani devono fare questo, i vecchi quello, le donne quell'altro....". Come mai un tipo innovativo come Gorgia seguiva la tradizione? Egli segue la tradizione perchè se non si ha un criterio per stabilire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato (dato che l'essere non c'è), la cosa migliore da fare è seguire la tradizione, ciò che ci è stato tramandato dagli avi. Nonostante questo, i sofisti (ed in particolare Gorgia) rimangono rivoluzionari perchè seguono la tradizione solo perchè fa loro comodo. Nell'ambito sofistico emersero poi due diverse interpretazioni sul binomio nomoV/fusiV (convenzione - natura): esistono due tipi particolari tipi di leggi, quella decretata dalla natura e quella decretata dall'uomo. Facciamo un esempio: per legge della natura, il più forte tende ad avere la meglio sul più debole; ma per la legge artificiale creata dall'uomo, questo non può accadere perchè si è tutti uguali ed è la legge stessa che protegge il più debole dal più forte. Ma quale è quella giusta, quella naturale o quella convenzionale? I sofisti rispondono in maniera differenziata gli uni dagli altri. Dal canto suo, Platone stesso affronta questo problema nel primo libro della Repubblica, in cui un sofista afferma che la legge artificiale è un'ingiustizia perpetrata dai più deboli ai danni dei più forti, giacchè essi cercano di limitare coloro che sono più forti e che per diritto naturale hanno diritto a prevalere introducendo le leggi artificiali.

FRAMMENTI

DEL NON ESSERE O DELLA NATURA

Fr 82 B 3 DK (Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 65-87)

1 Gorgia da Leontini fu anche lui del gruppo di coloro che escludono una norma assoluta di giudizio; non però per le stesse obbiezioni che muoveva Protagora e la sua scuola. Infatti nel suo libro intitolato Del Non essere o Della natura egli pone tre capisaldi, l’uno conseguente all’altro: 1) nulla esiste; 2) se anche alcunché esiste, non è comprensibile all’uomo; 3) se pure è comprensibile, è per certo incomunicabile e inspiegabile agli altri.

2 (66) Che nulla esiste, lo argomenta in questo modo: ammesso che qualcosa esista, esiste soltanto o ciò che è o ciò che non è, ovvero esistono insieme e ciò che è e ciò che non è. Ma né esiste ciò che è, come dimostrerà, né ciò che non è, come ci confermerà; né infine, come anche ci spiegherà, l’essere e il non essere insieme. Dunque, nulla esiste. (67) E invero, il non essere non è; perché, supposto che il non essere sia, esso insieme sarà e non sarà; ché in quanto è concepito come non essere, non sarà, ma in quanto esiste come non esistente, a sua volta esisterà; ora, è assolutamente assurdo che una cosa insieme sia e non sia; e dunque, il non essere non è. E del resto, ammesso che il non essere sia, l’essere non esisterà piú; perché si tratta di cose contrarie tra loro; sicché se del non essere si predica l’essere, dell’essere si predicherà il non essere. E poiché l’essere in nessun modo può non essere, cosí neppure esisterà il non essere.

3 (68) Ma neppure esiste l’essere. Perché se l’essere esiste, è o eterno o generato, oppure è insieme eterno e generato; ma esso non è né eterno, né generato, né l’uno e l’altro insieme come dimostreremo; dunque l’essere non esiste. Perché se l’essere è eterno (cominciamo da questo punto), non ha alcun principio. (69) Poiché ha un principio tutto ciò che nasce; ma l’eterno, essendo per definizione ingenerato, non ha avuto principio. E non avendo principio, è illimitato. E se è illimitato, non è in alcun luogo. Perché se è in qualche luogo, ciò in cui esso è, è cosa distinta da esso; e cosí l’essere non sarà piú illimitato, ove sia contenuto in alcunché; perché il contenente è maggiore del contenuto, mentre nulla può esser maggiore dell’illimitato; dunque l’illimitato non è in alcun luogo. (70) E neppure è contenuto in se stesso. Perché allora sarebbero la stessa cosa il contenente e il contenuto, e l’essere diventerebbe duplice, cioè luogo e corpo; essendo il contenente, luogo, e il contenuto, corpo. Ma questo è assurdo. Dunque l’essere non è neppure in se stesso. Sicché se l’essere è eterno, è illimitato; se è illimitato, non è in alcun luogo; e se non è in alcun luogo, non esiste. Ammessa dunque l’eternità dell’essere, si conclude all’inesistenza assoluta.

4 [Con ragionamenti analoghi Gorgia dimostra che l’Essere non può nemmeno essere generato (par. 71) e nemmeno "eterno e generato insieme" (par. 72). Se comunque l’Essere esistesse dovrebbe essere uno o molteplice, ma non è nessuna delle due cose (parr. 73-74)]. Resta cosí dimostrato che né l’essere, né il non essere esistono.

5 (75) Che poi neppure esistano ambedue [l’Essere e il Non-essere] insieme, è facile a dedursi. Perché ammesso che esista tanto l’essere che il non essere, il non essere s’identificherà con l’essere, per ciò che riguarda l’esistenza; e perciò, nessuno dei due è. Infatti, che il non essere non è, è già convenuto; ora si ammette che l’essere è sostanzialmente lo stesso che il non essere; dunque, anche l’essere non sarà. (76) E per vero, ammesso che l’essere sia lo stesso che il non essere, non è possibile che ambedue esistano; perché se sono due, non sono lo stesso; e se sono lo stesso, non sono due. Donde segue che nulla è. Perché se l’essere non è, né è il non essere, né sono ambedue insieme, né, oltre queste, si può concepire altra possibilità, si deve concludere che nulla è.

6 (77) Passiamo ora a dimostrare che, se anche alcunché sia, esso è, per l’uomo, inconoscibile e inconcepibile. Se infatti, come dice Gorgia, le cose pensate non sono esistenti, ciò che esiste non è pensato. Questo è logico; per esempio, se di cose pensate si può predicar la bianchezza, ne segue che di cose bianche si può predicare la pensabilità; e analogamente, se delle cose pensate si predica l’inesistenza, delle cose esistenti si deve necessariamente predicare l’impensabilità. (78) Per il che, è giusta e conseguente la deduzione, che "se il pensato non esiste, ciò che è non è pensato". E invero, le cose pensate (rifacciamoci di qui) non esistono, come dimostreremo; dunque, l’essere non è pensato. Che le cose pensate non esistano, è evidente: (79) infatti, se il pensato esiste, allora tutte le cose pensate esistono, comunque le si pensino; ciò che è contrario all’esperienza: perché non è vero che, se uno pensa un uomo che voli, o dei carri che corran sul mare, subito un uomo si mette a volare, o dei carri a correr sul mare. Pertanto il pensato non esiste. (80) Inoltre, se si ammette che il pensato esiste, si deve anche ammettere che l’inesistente non può esser pensato; perché i contrari hanno predicati contrari; e il contrario dell’essere è il non essere. E perciò in via assoluta, se dell’esistente si predica l’esser pensato, dell’inesistente si deve predicare il non esser pensato. Il che è assurdo, perché per esempio e Scilla e Chimera e molte altre cose inesistenti sono pensate. E dunque, ciò che esiste non è pensato. (81) E come, ciò che si vede, in tanto si dice visibile, in quanto si vede; e quel che si ode, in tanto si dice udibile, in quanto si ode; né noi respingiamo le cose visibili pel fatto che non si odano, né ripudiamo le udibili pel fatto che non si vedano (ché ciascuna dev’esser giudicata dal senso che le corrisponde, non da un altro), cosí anche le cose pensate, se pur non si vedano con la vista né si odano con l’udito, esisteranno, in quanto sono concepite dall’organo di giudizio che è proprio di esse. (82) Se dunque uno pensa dei carri che corran sul mare, anche se non li vede, deve credere che ci siano carri che corron sul mare. Ma questa è un’assurdità; dunque l’esistente né si pensa, né si comprende.

7 [Gorgia passa quindi a "dimostrare" che se l’esistente potesse essere pensato e compreso non potrebbe comunque essere comunicato (parr. 83-84). Prosegue poi con una interessante definizione del linguaggio]. (85) [...] Perché la parola, dice Gorgia, è l’espressione dell’azione che su noi esercitano i fatti esterni, cioè a dire le cose sensibili; per esempio, dal contatto col sapore, ha origine in noi la parola conforme a questa qualità; e dall’incontro col colore, la parola conforme al colore. Posto questo, ne viene che non già la parola spiega il dato esterno, ma il dato esterno dà significato alla parola. (86) E neppure è possibile dire che, a quel modo che esistono oggettivamente le cose visibili e le udibili, cosí esista anche il linguaggio; sicché, esistendo anch’esso come oggetto, abbia la proprietà di significare la realtà oggettiva. Perché, ammesso pure che la parola sia oggetto, egli dice, tuttavia differisce dagli altri oggetti; e soprattutto differiscono, dalle parole, i corpi visibili; perché altro è l’organo, con cui si percepisce il visibile, ed altro quello, con cui si apprende la parola. Pertanto, la parola non può esprimere la massima parte degli oggetti, cosí come neppure questi possono rivelare l’uno la natura dell’altro. (87) Di fronte a tali quesiti insolubili, sollevati da Gorgia, sparisce, per quanto li concerne, il criterio della verità; perché dell’inesistente, dell’inconoscibile, dell’inesprimibile non c’è possibilità di giudizio.

ENCOMIO DI ELENA

Fr 82 B 11 DK

1 (1) È decoro allo stato una balda gioventú; al corpo, bellezza; all’animo, sapienza; all’azione, virtú; alla parola, verità. Il contrario di questo, disdoro. E uomo e donna, e parola ed opera, e città e azione conviene onorar di lode, chi di lode sia degno; ma sull’indegno, riversar onta; poiché è pari colpevolezza e stoltezza tanto biasimare le cose lodevoli, quanto lodar le riprovevoli. (2) È invece dovere dell’uomo, sia dire rettamente ciò che si addice, sia confutare <il contrario; e dunque è giusto confutare> i detrattori di Elena, donna sulla quale consona e concorde si afferma e la testimonianza di tutti i poeti, e la fama del nome, divenuto simbolo delle fortunose vicende. Pertanto io voglio, svolgendo il discorso secondo un certo metodo logico, lei cosí diffamata liberar dall’accusa, e dimostrati mentitori i suoi detrattori e svelata la verità, far cessare l’ignoranza.

2 (3) Che per nascita e stirpe fosse prima tra i primi – uomini e donne – la donna di cui ora parliamo, non c’è chi lo ignori. Noto è infatti come sua madre fu Leda, e padre autentico un dio, putativo un mortale: Tindaro e Zeus; di cui questi, pel fatto che era, fu ritenuto suo padre; quegli, pel fatto che appariva, fu messo in dubbio; l’uno il piú potente tra gli uomini, l’altro il supremo dominatore di tutti gli esseri. (4) Da tali generata, ebbe bellezza di dea, e, avutala, non nascose d’averla. Ché in moltissimi moltissime brame d’amore suscitò, e con una sola persona molte persone attirò di eroi superbi per superbi vanti: chi avea profusion di ricchezza, chi lustro d’antica nobiltà, chi pregio di innato valore, chi superiorità di sapienza acquisita; e tutti vennero, indotti da amore avido di vittoria e da invitta avidità di onore.

3 (5) Ma chi fu, e per qual motivo, e in che modo appagò l’amore colui che conquistò Elena, non lo dirò: ché il dire, a chi sa, ciò che sa, aggiunge fiducia, ma non porta diletto. E però, varcato ora, col discorso, il tempo d’allora, mi rifarò dal principio del discorso propostomi, ed esporrò le cause per le quali era naturale avvenisse la partenza di Elena verso Troia.

4 (6) Infatti, ella fece quel che fece o per cieca volontà del Caso, e meditata decisione di Dèi, e decreto di Necessità; oppure rapita per forza; o indotta con parole, <o presa da amore>. Se è per il primo motivo, è giusto che s’incolpi chi ha colpa; poiché la provvidenza divina non si può con previdenza umana impedire. Naturale è infatti non che il piú forte sia ostacolato dal piú debole, ma il piú debole sia dal piú forte comandato e condotto; e il piú forte guidi, il piú debole segua. E la Divinità supera l’uomo e in forza e in saggezza e nel resto. Che se dunque al Caso e alla Divinità va attribuita la colpa, Elena va dall’infamia liberata.

5 (7) E se per forza fu rapita, e contro legge violentata, e contro giustizia oltraggiata, è chiaro che del rapitore è la colpa, in quanto oltraggiò, e che la rapita, in quanto oltraggiata, subí una sventura. Merita dunque, colui che intraprese da barbaro una barbara impresa, d’esser colpito e verbalmente, e legalmente, e praticamente; verbalmente, gli spetta l’accusa; legalmente, l’infamia; praticamente, la pena. Ma colei che fu violata, e dalla patria privata, e dei suoi cari orbata, come non dovrebbe esser piuttosto compianta che diffamata? ché quello compí il male, questa lo patí; giusto è dunque che questa si compianga, quello si detesti. compianta che diffamata? ché quello compí il male, questa lo patí; dunque è giusto che questa si compianga, quello si detesti.

6 (8) Se poi fu la parola a persuaderla e a illuderle l’animo, neppur questo è difficile a scusarsi e a giustificarsi cosí: la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti e a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentar la pietà. E come ciò ha luogo, lo spiegherò. (9) Perché bisogna anche spiegarlo al giudizio degli uditori: la poesia nelle sue varie forme io la ritengo e la chiamo un discorso con metro, e chi l’ascolta è invaso da un brivido di spavento, da una compassione che strappa le lacrime, da una struggente brama di dolore, e l’anima patisce, per effetto delle parole, un suo proprio patimento, a sentir fortune e sfortune di fatti e di persone straniere. Ma via, torniamo al discorso di prima. (10) Dunque, gli ispirati incantesimi di parole sono apportatori di gioia, liberatori di pena. Aggiungendosi infatti, alla disposizione dell’anima, la potenza dell’incanto, questa la blandisce e persuade e trascina col suo fascino. Di fascinazione e magia si sono create due arti, consistenti in errori dell’animo e in inganni della mente. (11) E quanti, a quanti, quante cose fecero e fanno credere, foggiando un finto discorso! Che se tutti avessero, circa tutte le cose, delle passate ricordo, delle presenti coscienza, delle future previdenza, non di eguale efficacia sarebbe il medesimo discorso, qual è invece per quelli, che appunto non riescono né a ricordare il passato, né a meditare sul presente, né a divinare il futuro; sicché nel piú dei casi, i piú offrono consigliera all’anima l’impressione del momento. La quale impressione, per esser fallace ed incerta, in fallaci ed incerte fortune implica chi se ne serve. (12) Qual motivo ora impedisce di credere che Elena sia stata trascinata da lusinghe di parole, e cosí poco di sua volontà, come se fosse stata rapita con violenza? Cosí si constaterebbe l’imperio della persuasione, la quale, pur non avendo l’apparenza dell’ineluttabilità, ne ha tuttavia la potenza. Infatti un discorso che abbia persuaso una mente, costringe la mente che ha persuaso, e a credere nei detti, e a consentire nei fatti. Onde chi ha persuaso, in quanto ha esercitato una costrizione, è colpevole; mentre chi fu persuasa, in quanto costretta dalla forza della parola, a torto vien diffamata. (13) E poiché la persuasione, congiunta con la parola, riesce anche a dare all’anima l’impronta che vuole, bisogna apprendere anzitutto i ragionamenti dei meteorologi, i quali sostituendo ipotesi a ipotesi, distruggendone una, costruendone un’altra, fanno apparire agli occhi della mente l’incredibile e l’inconcepibile; in secondo luogo, i dibattiti oratorii di pubblica necessità [politici e giudiziari], nei quali un solo discorso non ispirato a verità, ma scritto con arte, suol dilettare e persuadere la folla; in terzo luogo, le schermaglie filosofiche, nelle quali si rivela anche con che rapidità l’intelligenza facilita il mutar di convinzioni dell’opinione. (14) C’è tra la potenza della parola e la disposizione dell’anima lo stesso rapporto che tra l’ufficio dei farmaci e la natura del corpo. Come infatti certi farmaci eliminano dal corpo certi umori, e altri, altri; e alcuni troncano la malattia, altri la vita; cosí anche dei discorsi, alcuni producon dolore, altri diletto, altri paura, altri ispiran coraggio agli uditori, altri infine, con qualche persuasione perversa, avvelenano l’anima e la stregano.

7 (15) Ecco cosí spiegato che se ella fu persuasa con la parola, non fu colpevole, ma sventurata. Ora la quarta causa spiegherò col quarto ragionamento. Che se fu l’amore a compiere il tutto, non sarà difficile a lei sfuggire all’accusa del fallo attribuitole. Infatti la natura delle cose che vediamo non è quale la vogliamo noi, ma quale è coessenziale a ciascuna; e per mezzo della vista, l’anima anche nei suoi atteggiamenti ne vien modellata. (16) Per esempio, se mai l’occhio scorge nemici armarsi contro nemici in nemica armatura di bronzo e di ferro, l’una a offesa, l’altra a difesa, subito si turba, e turba l’anima, sicché spesso avviene che si fugge atterriti, come fosse il pericolo imminente. Poiché la consuetudine della legge, per quanto sia salda, viene scossa dalla paura prodotta dalla vista, il cui intervento fa dimenticare e il bello che risulta dalla legge, e il buono che nasce dalla vittoria. (17) E non di rado alcuni, alla vista di cose paurose, smarriscono nell’attimo la ragione che ancora possiedono: tanto la paura scaccia e soffoca l’intelligenza. Molti poi cadono in vani affanni, e in gravi malattie, e in insanabili follie; a tal punto la vista ha impresso loro nella mente le immagini delle cose vedute. E di cose terribili molte ne tralascio; ché sono, le tralasciate, simili a quelle anzidette. (18) D’altro lato i pittori, quando da molti colori e corpi compongono in modo perfetto un sol corpo e una sola figura, dilettano la vista. E figure umane scolpite, figure divine cesellate sogliono offrire agli occhi un gradito spettacolo. Sicché certe cose per natura addolorano la vista, certe altre l’attirano. Ché molte cose, in molti, di molti oggetti e persone inspirano l’amore e il desiderio. (19) Che se dunque lo sguardo di Elena, dilettato dalla figura di Alessandro, inspirò all’anima fervore e zelo d’amore, qual meraviglia? il quale amore, se, in quanto dio, ha degli dèi la divina potenza, come un essere inferiore potrebbe respingerlo, o resistergli? e se poi è un’infermità umana e una cecità della mente, non è da condannarsi come colpa, ma da giudicarsi come sventura; venne infatti, come venne, per agguati del caso, non per premeditazioni della mente, e per ineluttabilità d’amore, non per artificiosi raggiri.

8 (20) Come dunque si può ritener giusto il disonore gettato su Elena, la quale, sia che abbia agito come ha agito perché innamorata, sia perché lusingata da parole, sia perché rapita con violenza, sia perché costretta da costrizione divina, in ogni caso è esente da colpa?

9 (21) Ho distrutto con la parola l’infamia d’una donna, ho tenuto fede al principio propostomi all’inizio del discorso, ho tentato di annientare l’ingiustizia di un’onta e l’infondatezza di un’opinione; ho voluto scrivere questo discorso, che fosse a Elena di encomio, a me di gioco dialettico.

da ORAZIONE OLIMPICA
Degni dell'ammirazione universale, o Greci (...). Ed alla nostra gara
sono necessarie due virtù: audacia e sapienza, per svelare l'enigma;
perché la parola come il bando dell'araldo in Olimpia chiama chi si
offre, ma incorona chi riesce.

 

 

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