LA GUERRA

Di Francesco Cardone



 

 

L’idea che la guerra sia un elemento estraneo alla cultura occidentale, è di per sé una palese contraddizione. Innanzitutto, la nostra cultura per quanto apparentemente pacifica ha sempre avuto a che fare con la guerra. Quest’ultima è anzi stato il motore propulsivo di ogni cambiamento culturale dell’Occidente. Per millenni ogni forma di contatto con altre culture si è avuto in primo luogo sul piano bellico; che poi questi incontri-scontri abbiano portato frutti positivi sia per la cultura egemone sia per la cultura sottomessa non è qui in questione. Ciò che semmai qui è interessante è una fenomenologia ermeneutica della guerra che mostri la radice che spinge gli uomini, le culture o semplicemente il pensiero alla belligeranza.

 

Concordi con Emanuele Severino che evidenzia come il detto eracliteo “il polemos è il padre di tutte le cose” sia da collocare in un ambito del pensiero in cui è l’essenza delle “cose” ad essere di per sé polemos, giustificando quindi il polemos come unico diktat del reale; possiamo ipotizzare che la guerra è la matrice della nostra storia, perché essa si radica su una “visione” che giudica ogni cosa come polemos. Insomma, se la “natura” è in se stessa polemos perché gli uomini dovrebbero infrangere questa legge non scritta? La Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno ha mostrato come la ratio sia in se stessa dominio, strumento di dominio dell’uomo nei confronti della natura e nei confronti di se stesso. Da questo punto di vista una fenomenologia della guerra è un problema eminentemente ermeneutico, perché il fenomeno della guerra si radica su una pre-comprensione del tutto in termini di polemos, producendo un circolo ermeneutico. Se infatti noi nell’osservazione della natura affermiamo che essa si articola come bellum omnium contra omnes, è poi implicito considerare il proprio agire in accordo con essa, che è poi la critica più evidente al cosiddetto “diritto naturale”. Ed infatti l’ipotesi di uscir fuori da tale dimensione costruendo Lo Stato, come recinto che ci separa dalla violenza propria della natura, è un operazione artificiosa. Ma il punto importante è che proprio questa artificiosità non ci allontana da questa dimensione, semmai la “regola”, la razionalizza. Dà per così dire un “senso” alla violenza, al polemos, ma non oltre questo. Infatti, l’Occidente chiama quel non-luogo dove la violenza non è più di casa u-topia, ed è appunto un non luogo perché supera ciò che comunemente è insuperabile. Questa insuperabilità non è tale perché non si riesce a debellare il fenomeno del polemos, semmai perché la nostra struttura della comprensione è in se stessa polemos, si radica come polemos.

La ratio che si erge quale unico strumento per proteggerci dalla violenza della natura – che viene interpretata come violenza – è strumento di dominio, è la razionalizzazione del polemos. In effetti, da quando la ratio ha assunto il carattere onnicomprensivo, l’uomo ha continuato a belligerare, anzi in nome della ratio o per mezzo di essa nella modernità si sono compiute le violenze più efferate (il comunismo sovietico, il nazismo…). Questo crea una empasse estrema: da una parte il pensiero vede nella natura la sorgente della guerra; dall’altra, la ragione, che dovrebbe proteggerci da essa, viene adoprata per compiere violenze ancora più agghiaccianti, o semplicemente per regolare la violenza (Foucault), non certamente per debellarla. Proprio riguardo a quest’ultimo punto possiamo dire che la ratio ha “senso” solo se la violenza è presente: che senso avrebbero le leggi se non si “presupponesse” la loro violazione, e il loro ripristino mediante una violenza legittimata?

 

La validità della legge non sta tanto nel comunicare in modo universale la “verità” del suo asserto dogmatico, ma nel carattere coercitivo che “legittimamente” si dà. Senza la coercizione legittima della legge essa non avrebbe nessuna efficacia. E dunque si arriva alla constatazione che gli uomini rispettano le leggi, lo jus della ratio, “solo” perché temono la risposta coercitiva della sua infrazione. In più, l’assunzione e il rispetto della legge posta sul piano dei “valori” è effetto della “secolarizzazione” della ratio, non della sua giustizia in sé. L’origine del rispetto della giustizia non è nella comune conoscenza universale di essa, ma nel carattere coercitivo della sua potenza. È la forza della giustizia ad essere la sua verità. Da questo punto di vista la volontà di verità è originariamente volontà di potenza. Ciò che quindi garantisce la pace all’interno della polis è ciò che solo può legalmente applicare la violenza del polemos. Solo lo Stato è autorizzato a far guerra alla criminalità, ad assoggettarla alla sua universale volontà regolatrice. In più, la nascita di uno stato non è mai determinata da una “libera” decisione del popolo, ma il primo atto è quello del dominio, dell’assoggettamento. Solo in seguito il potere chiede al popolo la sua legittimazione. Ma l’atto fondativo di una polis è sempre un atto di forza, di dominio.

 

Si può certamente affermare che la forza legittima dello stato è benefica per il suo popolo, ma questa forza non è la negazione del bellum omnium contra omnes come tale, ma solo una sua regolamentazione interna. La violenza all’interno della polis non cessa, e questo perché la coscienza originaria dell’uomo occidentale è radicata ed articolata nel polemos, ciò che invece si interrompe è la caoticità del bellum omnium contra omnes, la mancanza di una regola, di una ratio. Il sacrificio mitico delle civiltà antiche il cui scopo era quello di purgare “temporaneamente” la violenza della comunità, viene sostituito dalla ratio della legge, la quale anch’essa ha lo scopo di purgare temporaneamente la violenza illegittima non conforme alla legge. Ma è appunto “temporanea” perché il senso della sua stessa esistenza è l’esercizio del suo potere in conseguenza di una violazione. Insomma, la legge esiste principalmente perché mediante la sua violazione, può esercitare il suo legittimo potere coercitivo. Avrebbe senso l’esistenza di una legge se il reato che essa regolamenta fosse debellato del tutto? Che senso ha una legge che non verrà mai applicata?

 

Vorrei però subito chiarire che ciò che qui viene contestato non è la funzionalità della legge, la quale fino ad oggi rappresenta il modo forse meno doloroso di abitare il polemos, ma è la ratio della legge come “antitesi” del polemos, poiché è proprio a partire da quest’ultimo che la legge trova la sua forza e conseguentemente la sua verità: la legge non nega il polemos, ma lo razionalizza. Essa non può eliminare il polemos, perché questo porterebbe inevitabilmente alla eliminazione di se stessa, del suo esercizio. Privata del suo esercizio la legge perde vigore ed autorità. Essa è una positività che necessita del suo negativo, della dimensione di illegalità che la mette in atto. La legge presuppone il dualismo proprio del polemos, di un avversario che le dà forza ed autorità.

 

Date queste premesse possiamo dire che la dimensione della polis razionalmente governata non è l’abbandono della guerra, ma una sua interpretazione. La polis può essere intesa come un’ermeneutica del polemos secondo un orizzonte razionale, appunto la razionalizzazione della guerra. Il paradosso estremo che comporta questo tipo di analisi del polemos mostra che per uscir fuori da esso non è sufficiente l’uso razionale della legge, in quanto proprio quest’uso si fonda sulla malattia che vuole debellare. Se infatti la legge dello stato è l’antidoto più efficace per combattere la malattia del polemos, proprio quest’antidoto nasce nel seno della malattia stessa, eliminare del tutto la malattia significa eliminare l’antidoto.

 

E allora cosa fare? È possibile andare al di là del polemos e del suo antidoto? È cioè possibile andare al di là della dialettica tra malattia e antidoto?

 

Dalle considerazione fatte in precedenza ci si accorge che è estremamente difficile poter solamente scorgere un possibile orizzonte in cui questa dialettica non rappresenti la guida dell’Occidente, qualsiasi tentativo storico di individuare un’alternativa alla violenza si è rivelato fallace, ma appunto fallace perché ineluttabilmente si alimenta della malattia che vuole combattere. Prendiamo ad esempio il concetto di democrazia, esso ci dice che il popolo è sovrano, ossia che il potere proviene dal popolo e solo da esso. Ma storicamente possiamo dire che il potere dello stato è determinato e voluto liberamente dal popolo? Tutte le decisioni fondamentali e fondative dello stato provengono dal popolo? Certamente qualcuno potrebbe obbiettare che essendo il popolo estremamente caotico non potrebbe autogestirsi, dunque è necessario che vi siano dei rappresentanti del popolo che lo governino! Dunque, se facciamo riferimento al senso formale del concetto di democrazia lo stato è una struttura il cui scopo fondamentale è quello di preservare il benessere del suo popolo, ossia preservare i diritti inalienabili del popolo. Se andiamo però più in profondità riguardo agli elementi che determinano la politica di un governo ci troviamo di fronte a qualcosa di contraddittorio, spesso le politiche dello stato sono strutturate in modo da avvantaggiare un particolare ceto sociale, che per giunta non rappresenta neppure la maggioranza del popolo. Questo discorso vuole semplicemente evidenziare come sia fuorviante affermare che Lo Stato è al completo sevizio del popolo, della maggioranza del popolo. Vi sono certamente degli interessi sovra-popolari, che spesso sono a discapito del popolo. Pensiamo semplicemente alla politica energetica che continua a promuovere forme energetiche altamente inquinanti e dunque dannose per la maggior parte della popolazione. Cos’è più importante la salute della popolazione che dovrebbe essere sovrana in uno stato democratico, oppure l’egemonia di un numero limitato di individui che vogliono aumentare il loro potere economico e dunque politico? Certo si potrebbe obbiettare che grazie al capitalismo la popolazione ha migliorato il proprio tenore di vita, però bisognerebbe analizzare come questo tenore si distribuisce nella popolazione e poi capire che tipo di benessere ci viene propinato ogni giorno. Cosa si intende per benessere? In effetti, non è semplice rispondere a questa domanda, in quanto il senso della parola “benessere” in una cultura fortemente industrializzata assume differenti sfumature. La parola benessere significa certamente “stare bene”, esser circonfusi dal bene, ma poi cosa significa la parola “bene”? Su questa parola tutta la storia della filosofia si è lungamente interrogata. Con grande semplificazione possiamo affermare che per bene si può intendere la pienezza dell’essenza, nel senso che il bene è la destinazione più propria di un essente, è il suo compiersi. Questa constatazione porta con sé una domanda: qual è l’essenza dell’uomo? La nostra cultura industriale ci dice che l’uomo è un consumatore, un essente che produce e compra prodotti. Ora, qui sta il problema: se l’uomo viene ridotto a questa semplice funzione, allora il benessere è certamente la condizione più favorevole perché l’uomo amplifichi sempre di più questa struttura economica fatta di domanda ed offerta; se però appunto questa è una estrema riduzione di cosa sia l’uomo, allora non si può più parlare di benessere. Forse proprio riguardo a quest’ultima osservazione si avverte come il progetto moderno dello stato come eliminazione del bellum omnium contra omnes sia fallito, il bene della comunità non è il bene che regola la politica o l’economia dello stato, ma semmai proprio questi macrofenomeni dello stato sono l’effetto di dinamiche che si contrappongono, si equilibrano, senza mai trovare però un punto di vera armonia, in cui il tutto sia lo scopo dei vari particolarismi. Ebbene queste dinamiche sono a mio parere effetto del polemos. Questo lo si vede nell’economia e in particolare nella cosiddetta “competizione”, che, certamente, segue delle regole, quando vengono rispettate, ma fondamentalmente ha come fine il prevaricare di un particolarismo a discapito di un altro. Vincere la concorrenza “conquistando” una fetta di mercato spesso comporta la sconfitta di un particolarismo che non sa competere, non sa belligerare secondo strategie efficaci e quindi vincenti.

 

Dunque queste brevi osservazioni vogliono mostrare come l’intera vita dello stato moderno, in tutti i suoi interstizi, è condizionata dal bellum omnium contra omnes, da quella dimensione della natura che Hobbes voleva arginare attraverso l’istituzione dello Stato. Si tratta allora di capire se proprio il polemos sia l’unica dimensione in cui l’uomo possa vivere, se cioè l’esistenza dell’uomo sia inevitabilmente condizionata dalla guerra di tutti contro tutti.   

 

 

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