SINTESI DE IL FUTURO DELLA NATURA UMANA (2001) DI JÜRGEN HABERMAS

 

 

A cura di Giovanni Polimeni

 

 

1 – Astensione giustificata. Esistono risposte postmetafisiche alla domanda sulla “via giusta”?

 

1.

- La filosofia metafisica e la religione rispondevano al problema della vita giusta ponendo modelli (alcuni non proponibili alla massa, ma solo ad un’elite) che dovevano essere imitati sia dai singoli individui sia dalla comunità politica. Il fallimento di tali modelli di vita determinanti e vincolanti, ha oggi posto nuove domande sulla vita giusta e sulla società giusta, domande che esigono una risposta non più legata alla tradizione religiosa e metafisica.

- Oggi la “società giusta” è quella che lascia libere le persone libere di decidere “che uso fare” del tempo della loro vita, e garantisce loro pari libertà di sviluppare un’autocomprensione etica, al fine di realizzare una personale concezione di “vita buona”. Inoltre oggi le teorie della giustizia e della morale hanno preso una strada diversa da quella dell’etica classica, il punto di vista morale ci chiede di astrarre da quelle immagini di vita riuscita tramandate dalla religione e metafisica.

- La filosofia stessa si ritira in una sorta di metalivello, compie un’astensione giustificata verso i contenuti dei processi di autocomprensione, limitandosi ad indagarne le caratteristiche formali.

 

2.

- Kierkegaard fu il primo a rispondere con il concetto postmetafisico del “poter-essere-sé-stessi” alla domanda sulla “vita giusta”. Egli in “aut-aut” contrappone un modello di “vita etica” da contrapporsi alla “vita estetica”. La vita etica: l’individuo deve assumere con decisione la coscienza della propria individualità e libertà, sul piano sociale diventerà capace di rispondere delle proprie azioni stringere obblighi nei confronti degli altri. La persona diventa un compito a sé stessa, un compito che le è imposto solo in quanto è stata lei a sceglierlo liberamente.

- Ma K. pensa in una maniera postmetafisica, non postreligiosa; anzi, è convinto che la forma di vita etica possa realizzarsi pienamente solo nel rapporto tra il credente e Dio. Difatti la “disperazione” che nasce dal modello di vita estetica, non viene del tutto eliminata nella vita etica: l’individuo, nel suo disperato tentativo di voler essere sé stesso, prende coscienza della sua finitezza e vuole trascendersi e riconoscere la sua dipendenza da un Altro. Solo così il Sé potrà esistere nella sua autenticità, solo così supererà gli stadi della disperazione, rapportandosi ad un assoluto Altro di cui è debitore di tutto.

- Ma è anche vero che, come ogni idea, anche quella del “totalmente Altro” ha un suo senso solo all’interno del linguaggio che la ha creata: ogni autocomprensione etica non ci è mai rivelata o semplicemente data, non gode di nessuna garanzia ontologica, bensì è il frutto di uno sforzo collettivo, di una potenza trans-soggettiva e non assoluta.

- Habermas collega Kierkegaard a Kant, la morale del poter-essere-sé-stessi alla morale dell’autolegislazione universale. Da entrambi egli desume una teoria morale come realizzazione reciproca di individualizzazione e universalizzazione. Per un verso l’uomo è autore unico e indiviso del proprio progetto di vita, totalmente responsabile della sua realizzazione etica. Per l’altro verso egli deve legare la sua volontà a massime universali, accettando un’illimitata reciprocità di diritti e doveri e una pregiudiziale reversibilità di tutti i ruoli sociali.

 

3.

- Oggi però l’etica postmetafisica incontra grosse difficoltà: essa è buona nel momento in cui si astiene dal giudicare la direzione dei progetti di vita individuali e collettivi, ma nel momento in cui si affrontano questioni dell’ etica di genere, nel momento in cui è messa in pericolo la stessa autocomprensione etica dei soggetti, la filosofia e l’etica postmetafisica devono prendere posizione su questioni di contenuto.

- Nel momento in cui anche l’organismo dell’uomo viene incluso nell’ambito di intervento, viene cancellato il confine tra la natura che “noi siamo” e la dotazione organica che “noi ci diamo”. Questa possibilità nuova di intervenire sul genoma umano, deve essere vista come una crescita di libertà da disciplinarsi sul piano normativo, oppure come l’autorizzazione a produrre trasformazioni senza alcuna autolimitazione?

- Inoltre ciò che oggi è manipolabile è qualcosa che è sempre stata una contingenza indisponibile all’uomo: il processo di fecondazione, per cui possiamo prevedere il combinarsi di due serie cromosomiche.

 

 

2 – I rischi di una genetica liberale. La discussione sull’autocomprensione etica del genere.

 

1.

- La questione principale per Habermas, riguardo ai rischi dell’ingegneria genetica, è questa: se la diagnosi preimpianto e la sperimentazione sugli embrioni oltrepassano i limiti di una genetica passiva (cioè terapeutica) e clinica (cioè legata all’ipotetico consenso del futuro interessato), esse vanno senz’altro vietate. Ogni forma di intervento genetico migliorativo disturba infatti l’autoriferimento morale della persona alla propria (indisponibile) dotazione genetica. Chi si scopre programmato sa di non essere più l’autore indiviso della sua storia di vita. Anche quando la programmazione genetica non disturbi direttamente il gioco linguistico della morale, essa altera tuttavia l’accesso ad essa della persona futura.

- I problemi sollevati dalla diagnosi di preimpianto e dalla sperimentazione sulle staminali sono diversi: è compatibile con la dignità della vita umana il generare con riserva un individuo, giudicare e selezionare chi è degno di vita in base ad un test genetico? E’ giusto “usare” degli embrioni nella vaga speranza di poter coltivare e applicare tessuti senza rigetto? Quale è il rapporto tra la inviolabilità moralmente vincolante e giuridicamente tutelata della persona e la indisponibilità delle modalità naturali con cui questa si incarna nel corpo?

- Ad Habermas interessa soprattutto far vedere come l’indebolirsi della vecchia distinzione tra ciò che è spontaneamente “cresciuto” e ciò che è tecnicamente “prodotto”, tra il soggettivo e l’oggettivo, modifichi la nostra tradizionale autocomprensione etica del genere.

 

2. Dignità dell’uomo “versus” dignità della vita umana.

- Le idee riguardo allo statuto morale dell’embrione sono principalmente due: l’embrione visto come mucchietto di cellule, contrapposta alla figura del neonato a cui compete dignità umana; oppure l’embrione, esemplare biologicamente determinabile, visto come una persona potenziale, titolare dei diritti fondamentali.

- E’ convinzione di Habermas che la dignità umana ha natura strettamente relazionale, difatti solo in una comunità di uomini ci si può obbligare a vicenda sul piano morale e attendersi l’uno dall’altro il rispetto delle norme. Solo la relazionalità dei diritti e doveri morali può fornire il giusto valore di inviolabilità (non indisponibilità) alla dignità umana. Il Sé dell’individuo può nascere soltanto lungo la via sociale dell’alienazione e può stabilizzarsi soltanto in un reticolo di rapporti di riconoscimento. Questa dipendenza che ci lega agli altri giustifica la nostra dignità e spiega anche la nostra reciproca vulnerabilità.

- Ma, se ciò che trasforma l’organismo in una vera e propria persona è l’atto, socialmente individualizzante, della sua accettazione in un mondo-di-vita intersoggettivamente condiviso, il corpo geneticamente individuato nel corpo materno non può essere considerato “da sempre” una persona. Bisogna quindi chiarire che il bambino che sta crescendo in utero non gode di diritti e doveri in quanto soggetto morale, bensì sono i genitori che, per amore e per dovere morale verso di lui, lo tutelano e salvaguardano. 

 

3. L’inserimento della morale dentro l’etica di genere.

- Le questioni concernenti la vita umana (questioni etiche, non normative) non riguardano questa o quella differenza nella varietà delle forme culturali di vita, bensì quelle autodescrizioni intuitive per cui ci identifichiamo nel nostro essere uomini e ci differenziamo dagli alti esseri viventi. Riguardano insomma la nostra autocomprensione come esseri-di-genere. Ciò che sta al centro del problema è l’immagine che le diverse culture si fanno dell’uomo: di quell’uomo che è in ogni luogo identico a sé sul piano della universalità antropologica.

- Il ricorso all’etica del genere, cioè ad un’autocomprensione esistenziale dell’uomo su cui tutti i cittadini possano ragionevolmente convenire, diventa allora un modo elegante per conciliare esigenze diverse. Quindi per Habermas i cittadini devono decidere insieme che valore dare alla vita prepersonale sul piano di una generale concezione antropologica.

- Un’ autolimitazione normativa non condanna ogni intervento genetico in quanto tale, infatti non è l’ingegneria genetica ad essere il problema, ma le sue applicazioni e modalità che implicano uno spostamento dell’onere normativo. Negli interventi di tipo terapeutico anche nei confronti dell’embrione si applica continuamente una anticipazione del consenso elaborata per via controfattuale, si cerca cioè di agire secondo la presupposta volontà della persona futura. La domanda allora sarà: fino a che punto noi siamo autorizzati ad anticipare un consenso non verificabile nell’immediato?

 

4. Lo spontaneo e l’artificiale

- Ciò che oggi, con l’avvento della genetica, si è andato perdendo è quella fondamentale differenza tra ciò che è tecnicamente prodotto e ciò che è naturalmente divenuto. Si è perso quel fondamentale rispetto di fronte ad un’intrinseca dinamica autoregolativa della natura, la scienza è diventata potere di disposizione tecnica su una natura oggettivata. Se al rapporto clinico si sostituisce l’intervento biotecnico, l’intuitiva “corrispondenza” con gli altri esseri viventi che si fonda sulla nostra sensibilità corporea verso tutti i livelli di soggettività, s’interrompe.

- I fautori della genetica liberale pongono degli argomenti a favore della modificazione genetica del tutto discutibili. Stabiliscono delle analogie tra la modificazione genetica dei caratteri ereditari e la modificazione pedagogica degli atteggiamenti ed aspettative. Essi intendono dimostrare che, da un punto di vista morale, non esistono differenze significative tra la genetica e l’educazione, facendosi forti del fatto che le disposizioni genetiche interagiscono con l’ambiente senza mai tradursi in qualità del fenotipo. Quindi questo argomento vorrebbe giustificare una estensione del potere educativo dei genitori nella libertà di migliorare anche la dotazione genetica dei loro figli.

- Il problema è che questa libertà eugenetica dei genitori non deve collidere con la libertà etica dei figli. Il giovane che sia stato geneticamente manipolato scoprirà il proprio corpo come qualcosa di tecnicamente prodotto, la prospettiva del partecipante che caratterizza la “vita vissuta” entra in collisione con la prospettiva oggettivante di produttori e sperimentatori. Inoltre le intenzioni pianificatrici dei genitori hanno il peculiare statuto di un’aspettativa unilaterale ed incontestabile.

- Nel momento in cui il giovane viene a sapere del “design” con cui qualcun altro ha progettato la modifica delle sue caratteristiche genetiche, allora la prospettiva dell’essere-prodotto può effettivamente sovrapporsi (e sostituirsi) alla prospettiva dello spontaneo essere-organismo. La mancata distinzione tra lo spontaneo e l’artificiale verrebbe ad incidere sulla sua modalità esistenziale.

- L’unica anticipazione del consenso lecita ed autorizzata, per Habermas, è il caso in cui l’intervento medico si lasci guidare dall’obiettivo clinico della guarigione e della prevenzione. Questa è l’eugenetica negativa, che si trasforma in eugenetica positiva quando si oltrepassano i confini della logica terapeutica per giungere ad una logica migliorativa.

 

5. Divieto di strumentalizzazione, natalità, poter-essere-sé-stessi

- Il divieto di strumentalizzazione: la formulazione di fine dell’imperativo categorico kantiano afferma la pretesa di considerare ciascuna persona “sempre anche come un fine” e giammai “semplicemente come un mezzo”. Il limite che, quindi, ci separa dalla strumentalizzazione è ciò con cui e attraverso cui una persona è sé stessa nell’agire, nel parlare, nel rispondere alle critiche. Il Sé di quel “fine in sé” che si deve sempre rispettare nell’altro si esprime nella possibilità di essere considerato l’autore di una condotta di vita orientata su pretese proprie. L’imperativo categorico chiede a ciascuno di abbandonare la prospettiva della prima persona per privilegiare la prospettiva-del-noi che consente orientamenti suscettibili di generalizzazione. In Kant già la formula di fine dell’imperativo categorico contiene in sé il suo passaggio alla formula di legge.

- La natalità: per la persona è necessario ricondurre la propria origine (e l’origine delle proprie azioni) ad un cominciamento indisponibile, ossia un cominciamento che non pregiudica la sua libertà solo in quanto sottratto al potere di disposizione di altre persone. Hanna Arendt ha introdotto in questo senso il concetto di natalità come cominciamento indisponibile che si fa riconoscere nel mondo perché il nuovo venuto possiede la capacità di dar luogo a qualcosa di nuovo, cioè di agire.

- E’ sulla linea di partenza della natalità che tutti gli uomini devono riconoscersi eguali. In quel punto, dove la casualità della natura incontra la libertà dello spirito, nessuno deve trovarsi anticipatamente programmato, o migliorato, da intenzioni estranee cui non può rispondere. Habermas contrappone al destino-di-socializzazione, come realizzazione storica della libertà, un destino-di-natura inteso come cominciamento assoluto, contingente, non strumentalizzabile. Alla paternità unica e indivisibile della nostra vita, alla idealità del kantiano “regno dei fini”, fa così da sfondo l’innocente e pregiudiziale coincidenza con il proprio corpo assunto come base naturale della nostra eguaglianza.

6. Limiti morali della genetica

- La manipolazione genetica, un design precostituito, è una dipendenza a cui l’individuo non può ribellarsi, fissa l’interessato ad un determinato piano di vita che non può riscattare o modificare. Il programma genetica è un dato di fatto “muto”, al quale non possono darsi risposte. Habermas ritiene che i principi di uguaglianza e di reciproco riconoscimento discendono da una ideale ed a priori reversibilità delle relazioni interumane; nessuno deve quindi dipendere da un altro in maniera pregiudizialmente irreversibile.


7.

Stiamo scivolando nella strumentalizzazione del genere?

- I problemi che Habermas pone per l’analisi di preimpianto e dell’uso sperimentale degli embrioni non sono condivise da Siep. Difatti quest’ultimo vede tali tecniche sempre e solo come eugenetica negativa e clinica, mentre Habermas le teme come quella pericolosa “rottura dell’argine” che ci condurrà al liberalismo genetico.

- Habermas afferma che, per quanto riguarda l’analisi di preimpianto, la situazione cambierà solo nel momento in cui alla diagnosi di una grave malattia ereditaria potrà seguire non la “selezione” tra quel che è degno di vita e quel che non lo è, bensì potrà seguire un intervento di terapia genetica. Una modificazione di questo tipo potrà essere paragonabile alla lotta contro le malattie infettive o locali.

- Per quanto riguarda l’utilizzo degli embrioni a scopo di ricerca, l’obiezione classica è la seguente: un embrione, anche se generato in vitro, può soltanto essere visto come il bambino futuro di genitori futuri e nient’altro; dunque non sta a disposizione di altri scopi. Se da un lato questa obiezione è valida, dall’altro non lo è: infatti l’uso sperimentale degli embrioni non mira a produrre una nascita, non vi è (al contrario dell’analisi di preimpianto) il problema dell’anticipazione del consenso, perché non vi sarà alcun essere futuro.

- Habermas opera una sorta di rovesciamento paradossale tra imperativi etici ed imperativi morali, mettendo in atto una circolarità (o implicazione reciproca) tra la prospettiva del particolarismo culturale e quella dell’universalismo morale. A chi gli chiede perché dobbiamo essere morali, egli risponde: perché di fatto noi lo vogliamo. A chi gli chiede perché vogliamo essere morali, egli risponde: perché è ciò che dobbiamo a noi stessi in quanto uomini. Così, mentre egli per un verso teme l’incontrollabilità democratica di ogni forma di programmazione genetica, dall’altro si affida al mantenimento etico-culturale di una certa idea di uomo.

Poscritto

1.

Sono state poste delle obiezioni contro il nesso causale tra manipolazioni genetiche migliorative e dipendenza della persona futura.

a) Perché un giovane non dovrebbe potersi confrontare allo stesso modo, col passare degli anni, sia con predisposizioni manipolate sia con predisposizioni innate?

La libera disposizione del patrimonio genetico di una persona futura implica che quella persona, sia stata programmata o meno, potrà considerare la composizione del suo genoma non come una predisposizione naturale, bensì come il risultato di un’azione rinfacciabile o di un’azione tralasciata. Cioè l’individuo futuro potrebbe non essere d’accordo anche col fatto che il genitore non ha sviluppato, avendone il potere, determinate doti e capacità. Non possiamo accollarci (almeno non fino a questo punto) la responsabilità di distribuire risorse naturali.

b) E’ possibile distinguere nettamente tra destino-di-natura e destino-di-socializzazione? Tra la modificazione pedagogica degli atteggiamenti e la modificazione genetica dei caratteri? Questi due strumenti di dipendenza non hanno forse in comune l’irreversibilità con cui certe decisioni condizionano la direzione della vita di un’altra persona?

Il fatto che queste due prassi (quella pedagogica e quella eugenetica) possano essere colpite dalle stesse obiezioni, non ci autorizza a servirci di una per scagionare l’altra. Se ai genitori possono già essere rinfacciate determinate strategie pedagogiche come cattive e nocive per il bambino che da uomo futuro potrà rifiutarle, sicuramente è sbagliato modificare caratteri genetici, accollandosi una responsabilità che deve restare riservata solo alla futura persona.

c) Altra (stupida) obiezione è quella che dice: è inverosimile che una certa persona possa retrospettivamente rifiutare un ampliamento delle sue risorse e una quantità maggiore di beni primari genetici.

Come possiamo sapere quando una certa dote allarga effettivamente i margini altrui nella progettazione della sua vita? Potrebbero nascere effetti collaterali per cui un “pregio” programmato potrebbe rivelarsi un terribile “difetto”.

2.

Dworkin ha notato come si potrebbero variare quattro condizioni dell’argomento di Habermas.

a) L’intervento genetico viene compiuto da una terza persona e non dallo stesso interessato.

Habermas risponde che l’argomento della dipendenza non è applicabile se si pensa che l’interessato possa successivamente ritrattare l’evento come se si trattasse di un intervento di chirurgia estetica.

L’argomento della dipendenza si applica invece solo a quei casi in cui il designer intraprende una pianificazione irreversibile della vita e dell’identità di una seconda persona senza presupporne il consenso nemmeno in maniera controfattuale.

b) L’interessato viene a sapere in maniera retrospettiva dell’avvenuto intervento prenatale.

Siamo sicuri che se non ci fosse l’informazione non ci sarebbe danno? Questa variante solleva la questione morale se sia lecito o meno nascondere a una persona la conoscenza di un dato di fatto importante (una manipolazione, l’identità dei genitori) e non è una soluzione accettabile il nascondere al giovane le cause del problema.

c) L’interessato si pensa come una persona che, modificata in alcune sue caratteristiche, è tuttavia rimasta identica a sé stessa.

Nella prospettiva dell’osservatore, un intervento genetico può essere criticabile anche quando l’interessato non è personalmente in grado di esercitare obiezioni (come nel caso della scelta del sesso). A maggior ragione sarà sbagliata una manipolazione tale che la persona che ne è oggetto possa percepirla e (inutilmente) rifiutarla.

 

 

 

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