STEPHEN HAWKING



Baumgarten e Shaftesbury

 

A cura di Andrea Pesce


HAWKING “Potrei essere rinchuiso dentro un guscio di noce e tuttavia sentirmi re dell’infinito spazio”. Questa frase, tratta dall’Amleto di William Shakespeare (atto II, scena II), ben si addice alla difficile esistenza di Stephen Hawking. Nato a Oxford l’ 8 gennaio 1942 (come egli ama sottolineare, nel trecentesimo anniversario della morte di Galileo) dopo che la madre fu costretta a fuggire da Londra durante la gravidanza, a causa dei bombardamenti tedeschi, solo nel 1950 la famiglia Hawking trova dimora presso St. Albans dove Stephen frequenta la scuola locale, prima di andare a Oxford per studiare fisica. In questa autorevole sede universitaria si diploma nel 1962 per poi trasferirsi a Cambridge dove consegue il dottorato in fisica teorica; proprio in questa sede, dopo parecchi anni, diventerà il titolare della cattedra lucasiana di matematica. Il 1962 è anche l’anno in cui gli viene diagnosticata un’atrofia muscolare spinale progressiva (nota anche come ALS, sclerosi laterale amiotrofica), una patologia che comporta un deterioramento progressivo dei nervi che controllano l’azione muscolare volontaria e che lo porterà alla permanenza forzata su di una sedia a rotelle. Malgrado questo pesantissimo deficit motorio lo abbia reso non autosufficiente sul piano corporeo, bisognoso di continua assistenza medica, tutto questo non ha potuto fermare la smania di conoscenza tipica del grande filosofo. La sua passione sfrenata per il cosmo lo ha portato, sulla scia di Einstein, al tentativo di elaborare una teoria quantistica della gravità che fosse in grado di unificare le quattro forze della natura (interazioni nucleari forte e debole, l’elettromagnetismo e la gravità), sistema scientifico comunemente noto come “teoria del tutto”. Bisogna tuttavia precisare che il contributo più importante di Stephen Hawking alla ricerca scientifica è quello derivante dallo studio delle modificazioni dello spazio-tempo, in particolare il fenomeno dei cosiddetti “buchi neri”, ricerca dalla quale è nato il libro “Dal big bang ai buchi neri”, best-seller della divulgazione scientifica. Sappiamo, dalla Teoria della relatività generale di Einstein, che lo spazio-tempo è da considerarsi come un tappeto elastico il quale, in presenza di grandi masse come stelle o pianeti, si incurva, provocando delle distorsioni anche alla luce che viaggia nei pressi dei corpi celesti. Il nostro sistema solare, ad esempio, funziona proprio in questo modo: il sole incurva lo spazio-tempo e i pianeti non possono viaggiare seguendo una traiettoria in linea retta ma convergono verso il centro, in un delicato equlibrio tra forza centrifuga e centripeta. Questa scoperta fu la rivoluzione del paradigma scientifico newtoniano, secondo il quale l’attrazione fra due oggetti è proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza, principio conosciuto come “legge di gravitazione dell’inverso del quadrato”. Ora, sappiamo anche che le stelle hanno una nascita, un lungo periodo di vita e una morte. La fine di una stella può avvenire in modi spaventosamente potenti attraverso esplosioni (come nel caso della Supernova 1987/A, osservata dai telescopi di tutto il mondo il 23 aprile 1987, la quale determinò una pioggia di particelle subatomiche ad interazione debole dette “Neutrini”, che investirono anche il nostro pianeta) o collassamenti, eventi, questi ultimi, che possono addirittura bucare lo spazio-tempo dando vita ai buchi neri. Nel 1916 l’astronomo tedesco Karl Schwarzschild dimostrò matematicamente che se la massa di una stella si concentrava in una regione abbastanza piccola, il campo gravitazionale sulla superficie della stella diventava così intenso da non lasciare uscire nemmeno la luce, irrimediabilmente risucchiata nell’enigmatico interno dell’oggetto cosmico; per questo motivo fu conferito a tali fenomeni stellari il titolo di “mostri cosmici” e assegnato loro il macabro colore nero, in quanto inarrestabili divoratori di materia e incapaci di irradiare luce. Prima di Hawking si credeva che qualsiasi cosa fosse disgraziatamente caduta in un buco nero non ne sarebbe più uscita per l’eternità. Il fisico inglese dimostrò che le cose andavano un po’ diversamente. Sulla scia della scoperta di Roger Penrose della morte di una stella che, collassando su se stessa si ridurrebbe ad una singolarità e a dimensioni nulle, Hawking giunse alla conclusione che i buchi neri potrebbero essere in numero assai superiore rispetto alle stelle visibili, che vengono stimate da 100 a 400 miliardi solo nella nostra galassia. Il contorno di un buco nero si chiama “orizzonte degli eventi”, limite oltre il quale sarebbe meglio non spingersi. Ma, ipotizzando che un astronauta abbia la sventura di oltrepassare tale soglia, che cosa gli accadrebbe? Egli non noterebbe niente di particolare, fin quando non subirebbe la cosiddetta “spaghettificazione”, ovvero un progressivo ed inarrestabile allungamento del proprio corpo, a causa dell’enorme forza di gravità, che lo condurrebbe verso una morte certa. Per gli osservatori esterni lo spettacolo consisterebbe nel vedere l’astronauta immobilizzato, pietrificato per l’eternità, col suo orologio che si fermerebbe in un istante eterno, poco prima dell’ingresso; questo fenomeno è causato dalla compressione che subisce il tempo nei pressi dell’orizzonte degli eventi. Hawking sostiene che l’energia o la massa ceduta dall’astronauta al buco nero, viene restituita a causa dell’entropia (grandezza che misura il grado di disordine in un sistema) rappresentata dall’orizzonte degli eventi. In altri termini, più il buco nero divora materia, più il suo contorno aumenta e, se esiste un’entropia, allora deve esserci anche una temperatura, riscaldamento che genera evaporazioni sotto forma di radiazioni. Ma non si era detto che nulla può sfuggire ad un buco nero? A questo punto il prof. Hawking fa intervenire la meccanica quantistica per spiegare tale fenomeno e giustificare la sua teoria. Mentre la teoria della relatività di Einstein è considerata una teoria “classica”, a causa del fatto che riconosce la possibilità di determinare la posizione e la velocità di particelle infinitesimali, escludendo aprioristicamente l’elemento della casualità (famosa la frase di Einstein riferita alla nascita dell’universo “Dio non gioca a dadi”), la meccanica quantistica di Eisenberg, Dirac e Schrödinger, si basa sul “principio di indeterminazione” elaborato dallo stesso Werner Eisenberg negli anni 1920. Secondo tale assunto le particelle infinitesimali non hanno una posizione e una velocità definite; perdipiù, maggiore è la precisione con cui si determina la loro posizione, minore è la precisione con cui si stabilisce la loro velocità. La meccanica quantistica prevede che lo spazio sia riempito di particelle virtuali e antiparticelle che si materializzano a coppie, che si separano, che si uniscono e infine che si annichilano a vicenda. In presenza di un buco nero una di queste particelle può cadervi dentro, lasciando il partner privo del compagno con cui annullarsi: questa particella appare come radiazione emessa dal buco nero. Per questo motivo Hawking sostiene che i buchi neri non sono eterni, ma evaporano e svaniscono in gigantesche eplosioni. Einstein, come si diceva, non accettò mai l’elemento della casualità previsto dalla meccanica quantistica all’interno dell’universo. A questo scetticismo Hawking ha risposto con l’affermazione: “Non solo Dio gioca a dadi, ma li getta dove non possono essere visti”. Un’altra domanda alla quale il cosmologo inglese ha tentato di dare una risposta è inerente al problema del tempo. Se l’universo è eterno, questo è un problema senza senso, visto che esso esiste da sempre e continuerà ad esistere per l’eternità. Ma se l’universo ha avuto un inizio, pricipio che la scienza fa coincidere col “big bang”, il tempo scorrerà sempre nella stessa direzione o invertirà il suo corso? La domanda è pertinente se si considerà il fatto che il nostro cosmo, essendo in espansione (dimostrato dalla teoria della deriva delle galassie di Edwin Hubble alla fine degli anni venti), potrebbe arrivare ad un punto in cui, a causa della forza esercitata dalla gravità della materia in esso contenuta, inizierebbe a regredire per ritornare all’istante iniziale e, in concomitanza di tale fenomeno, anche la freccia del tempo invertirebbe il suo corso. Inizieremmo allora a vivere una vita piuttosto bizzarra in cui i piatti rotti tornerebbero a ricomporsi, i divorziati si ricongiungerebbero e moriremmo prima di nascere, tornando nel ventre delle nostre madri? A salvarci da questo scenario ci pensa il “Secondo principio della termodinamica” che, in termini molto banali, afferma che le cose si consumano nel tempo. Una casa lasciata alle intemperie dopo un certo periodo crollerà inevitabilmente: per salvaguardarla dovrò investire molta energia sotto forma di lavoro e una certa somma di denaro per pagare i muratori addetti alla manutenzione. Arthur Eddington un volta scrisse che tra tutti i principi di natura quello della termodinamica deteneva la posizione suprema. Hawking non aveva fatto i conti con questo principio e ammise di aver commesso un errore. Anche in caso di contrazione dell’universo, il tempo continuerà a scorrere nella medesima direzione; l’entropia dà una direzione agli eventi che va dal passato al futuro e non sarà concesso neppure al tempo di invalidare questa ferrea costante di natura. Una importante intuizione di Hawking, sempre riferita al tempo, riguarda il limite imposto alla fisica dall’istante zero, comunemente detto Big bang. Per aggirare tale ostacolo egli propone di utilizzare il “Tempo immaginario”, grandezza che viene misurata mediante numeri immaginari. La proposta di Hawking consente di concettualizzare un universo non più di forma conica col vertice a punta rappresentante il big bang, ma permette di immaginare un cono con il vertice arrotondato che non coincide più con alcun inizio. Grazie al tempo immaginario il Big bang non sarebbe altro che un punto di un universo curvo, analogamente al polo nord terrestre, ma con due dimensioni aggiuntive. Combinando la relatività generale e il principio di indeterminazione, lo spazio e il tempo possono essere considerati finiti ma illimitati. L’analogia con la superficie della terra è illuminante in quanto, avendo a che fare con il tempo immaginario, ovvero uno spazio-tempo euclideo in cui la direzione del tempo è posta sullo stesso piano di quella dello spazio, si può ipotizzare che lo spazio-tempo sia finito e che non abbia alcuna singolarità che ne determini un confine o un bordo. Tra le tante teorie sull’universo (stazionario, in espansione, in recessione, eterno ecc.) questa è senz’altro una tra le più stimolanti. Postulare che il cosmo non abbia un inizio, significa affermare che non esisterebbe alcun momento zero o, in termini religiosi, di creazione: l’universo non sarebbe mai stato creato e non verrebbe mai distrutto da alcuna mente superiore, entità capace di sottrarsi alle leggi della fisica. Hawking tuttavia coltiva un sogno che è quello di riuscire a dare una spiegazione dell’intero nostro universo tramite una teoria completa, comprensibile a tutti gli uomini nei suoi principi generali. Perché l’universo si dà tanta pena di esistere? Qual è la sua natura? Perché l’universo è così come lo vediamo? Qual è il nostro posto in esso? Esiste un creatore? Questa serie di domande, che da sole bastano a togliere il sonno a parecchie generazioni di filosofi e scienzati, ha anch’essa una funzione determinante all’interno del cosmo: se riusciremo a dare loro delle risposte soddisfacenti, in quel momento saremo entrati in stretto contatto con il pensiero di Dio.

Bibliografia

Tra le pubblicazioni a carattere divulgativo segnialiamo:

Dal Big Bang ai buchi neri, Rizzoli, 1988.
Inizio del tempo e fine della fisica, Mondadori, 1992.
Buchi neri e universi neonati, Rizzoli, 1993.
La natura dello spazio e del tempo, Rizzoli, 1997 con R. Penrose.

 

 

 


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