ERMENEUTICA, TRADIZIONE E TRADUZIONE IN HEIDEGGER.
In una qualsiasi indagine che abbia per argomento qualcosa che “è”, è sempre presupposto una pre-comprensione di una delle parole che, dall’alba del pensiero greco, si è tra-mandata fino a noi – fondatori del più imponente progresso tecnico –, la parola in questione è: Essere, Sein, Être, Esse, ει̃ναι. Il nostro linguaggio, se pur così logicamente formalizzato, smussato dall’esigenza di questo “progresso” del pensiero, non avrebbe senso se come per incanto svanisse dalla sua struttura l’inappariscente parolina “è”. È singolare che l’importanza di questa parola sia direttamente proporzionale alla vacuità del suo senso (o meglio dei suoi molteplici sensi tramandati).
È una questione che deve far meditare molto: più una parola è essenziale per tutto ciò che concerne la nostra vita nella sua interezza, più il suo significato si lascia sempre velare, come qualcosa ad essa costitutiva.
Posta in questo modo, la ricerca del senso dell’essere non può pretendere di chiarire il suo significato in funzione dell’immagine strutturale del linguaggio. Senza questa parola l’intera struttura del linguaggio (almeno nella tradizione occidentale) cadrebbe a pezzi. Questo ci deve far capire che la parola essere denota molto di più di una semplice forma verbale. Questo “di più” è forse “ciò” che permette la stessa possibilità della significazione: ossia la struttura formale della mondità del mondo. Chiediamoci adesso: questo “ciò” che rende possibile la significazione è il fondamento di tutti i fondamenti? Esso può essere inteso come un ente al di là del quale non è possibile andare?
Se ci chiediamo “cosa è l’essere”, una domanda per molti aspetti ovvia, ci troviamo gettati in un “ambito” del pensiero oscuro. La metafisica chiede di ogni cosa ciò che essa è, ossia la sua essenza. Proprio Platone, a tal riguardo, chiama il “che cosa un ente è” la sua ι̉δέα. Essa è l’e-videnza della cosa compresa nel suo nocciolo essenziale, ossia nella sua generalità. Ciò che è generale di un ente, quale ad esempio di una casa, è ciò che “raccoglie” tutti i modi di mostratività dell’ente, ciò che fa di ogni singola casa l’esempio dell’idea di casa. Ma se adesso ci chiediamo qual è l’idea della parola essere, ecco che l’imbarazzo ci soprassale. Posto cioè che l’idea è il nocciolo essenziale su cui si dispiegano gli infiniti modi dell’essere, come possiamo denotarlo, e ancora, come si mostrano gli infiniti modi di tale idea?
Noi diciamo di ogni “cosa che è” è un ente, appunto qualcosa che è. Ma cosa significa per un ente essere?
Interrompiamo per un attimo la nostra ricerca e immaginiamo di essere un pesce dentro il suo elemento naturale. Se proviamo ad uscir fuori da quest’elemento, con l’intenzione di voler circoscrivere con lo sguardo i limiti di questa regione, cessiamo di vivere. Il pesce non potrà mai rap-presentare l’elemento in cui nasce, vive e muore. Ebbene, proprio questa è la condizione in cui il nostro pensiero svolge se stesso. Il pensiero non può oggettivare - porselo di fronte – il suo elemento, poiché ciò comporterebbe non pensare. Il pensiero, come il pesce, svolge tutte le sue possibilità nel suo elemento “naturale”, ma, come il pesce, non bada mai a quest’elemento per se stesso, e se lo pensa lo rappresenta come tutto ciò che è. Ma possiamo affermare con certezza che l’elemento del pensiero “è”?
Immaginiamo il nostro pensiero come un doppio occhio, uno interno e uno esterno, il quale vede tutto ciò che “è”. Ebbene dov’è l’Essere? Noi ad esempio diciamo che questo quadro è un ente, ossia qualcosa che “è”, ma dov’è che troviamo quest’”è”? Qui il punto difficile (l’imbarazzo del pensiero) è pretendere di vedere ciò che ci permette di vedere. È proprio in questi termini che si pone il rapporto tra pensiero ed essere, tra uomo ed essere. È indubbio che a differenza del pesce il pensiero può immaginarsi un occhio che, immerso nel suo elemento, “percepisce” quest’ultimo come qualcosa che “è”, ma questo non significa “vedere” questo elemento per se stesso. La trascendenza svolta in questo modo dal pensiero è resa possibile da questo elemento stesso. Quindi, con quest’operazione il pensiero non si è posto fuori dal suo elemento, ma lo ha ridotto ad un oggetto del rappresentare, ad una sorta di spazio contenitore. Si badi: non è che quest’occhio in origine era fuori da quest’elemento, come se, andando a ritroso, potessimo trovare il momento in cui i due estremi di questo rapporto s’incontrarono. Per ogni tentativo di rintracciare una possibile origine di questo rapporto (Bezug) - dalla religione alla scienza - noi siamo sempre risospinti in questo rapporto.
Se non c’è dato di trascendere questo rapporto - poiché la stessa trascendenza è una possibilità di esso –, allora l’unico modo per cogliere questo “elemento” (l’Essere), è quello di meditare questo rapporto senza pretendere di poterne uscire. In tal modo il pensiero diventa pensiero ermeneutico. Esso è tale perché in primo luogo medita sul rapporto col suo elemento, alla sua Sache. Il pensiero ermeneutico è il pensiero che pensa il rapporto di pensiero e essere. Questo rapporto, però, non è oggettivabile; esso semplicemente at-trae pensiero e essere, non certo come il semplice approssimarsi di questi due termini, bensì come lo schiudersi di pensiero ed essere nell’unità differenziata del loro rapporto. Ciò significa che ogni ricerca sull’essere parte e termina solo nel rapporto che raccoglie pensiero ed essere. Meditare un tale rapporto è perciò il primo e l’ultimo passo dell’indagine non solo del senso dell’essere, ma anche del pensiero, ossia dell’essenza dell’uomo. Ciò comporta che ogni indagine sul senso dell’essere deve includere un continuo chiarimento dell’essenza dell’uomo, e ogni indagine sull’uomo presuppone una comprensione dell’essere – da qui la necessità del circolo ermeneutico. Proprio in questo continuo rispecchiarsi, in questo gioco riflettente, in cui ciascun termine rimanda all’altro, si svolge ciò che Heidegger chiama la kehre del pensiero, ossia lo stesso svolgersi del pensiero rispetto alla sua Sache. Da ciò Heidegger differenzia il suo pensiero da quello dialettico. Egli definisce questo pensiero tautologico[1], ed è in questo pensiero che secondo il filosofo si svolge il senso originario della fenomenologia. Questo genere di pensiero sta ancora al di qua di qualsiasi distinzione fra teoria e prassi. Per comprenderlo bisogna distinguere fra via (odos) e metodo (methodos). Nel pensiero propriamente detto ci sono solo vie, nelle scienze invece ci sono metodi, vale dire modi di procedere.
È significativo che Heidegger abbia iniziato la sua ricerca del senso dell’essere mettendo in questione il modo d’essere dell’uomo, ossia l’uomo in rapporto alla sua originaria com-prensione dell’essere: nel rapporto uomo essere il primo si mostra come esser-Ci (Da-sein). Bisogna però subito precisare che, nel pensiero heideggeriano, non esiste una mera equivalenza tra uomo ed esserci, bensì l’uomo è ciò che è (west) poiché si apre (in-siste e-sistendo) da sempre all’ascolto dell’essere. Il che ci porta a dire che “esser-Ci” indica l’esistenza dell’uomo dalla prospettiva dell’apertura (il Ci) dell’essere. L’esserci è lo svolgimento del rapporto uomo essere dalla prospettiva dell’ascolto dell’essere. Questo è però solo uno dei tempi di questa composizione. Il secondo è il chiarimento dell’essere partendo dal modo d’essere dell’esserci. Per cui l’esserci è pensato in base al carattere aprente dell’essere, che inerisce in modo essenziale all’essenza dell’uomo. Ogni determinazione dell’essere com-porta una determinazione dell’essenza dell’uomo. Non a caso quando dell’essere rimane solo una vuota parola anche nell’indeterminato permane l’essenza dell’uomo. In ciò forse si chiarisce il senso attuale del Nichilismo.
Nella kehre del pensiero la ricerca dell’essere parte dal modo d’essere dell’esserci e poi rivolge le strutture dell’esserci verso l’essere. In pratica da un lato l’esserci dell’uomo è elaborato tenendo presente il costitutivo rapporto dell’uomo all’essere, ossia il suo essere ontologico, dall’altra l’elaborazione della ricerca dell’essere si svolge grazie ai risultati dell’ontologia dell’esserci. Il chiarimento di un estremo del rapporto presuppone il chiarimento dell’altro estremo. Il che comporta che non si è mai completamente dentro un estremo, come se fosse oggettivato per se stesso, bensì si è sempre nel rapporto di entrambi. È in questi termini che la kehre del pensiero è possibile, ed è questo il senso della parola Er-eignis (evento tras-propriante).
In tal senso parlare della storia dell’esserci significa ad un tempo parlare della storia dell’essere, ossia dei suoi invii destinali. Questi invii destinali si presentano ad un primo sguardo come le molteplici configurazioni dell’essente nella sua totalità. Un esempio evidente di queste diverse configurazioni dell’essente è quello mostrato nei diversi significati della parola “natura”: φύσις, ι̉δέα, εντελέχεια, ens creatum, oggettità, sapere assoluto, volontà di potenza, la natura come riserva di energia disponibile per l’uomo. Tutte queste configurazioni dell’essente inviate nelle diverse epoche storiche, non sono un prodotto dell’uomo, ma il semplice schiudersi del rapporto uomo essere: perché la natura diventi disponibile per l’operato umano, essa stessa deve mostrarsi all’uomo, appunto come riserva di energia. La natura contiene tutte queste possibilità, ma perché siano attuate vi deve essere una misura, ossia si deve trasformare la υβρις in τέχνη.
Ma chi è che scorge queste possibilità? Chi le annuncia? Sono forse i poeti? O i pensatori? O ancora meglio il colloquio (Gespräch) che s’instaura tra poetare e pensare?
Il fatto che qui sia messo in evidenza la partecipazione dell’uomo nella determinazione del significato dell’essere e dei suoi invii destinali non è secondario per la nostra ricerca. Rispondere alla domanda “chi sia l’uomo” necessita, in primo luogo, del chiarimento del suo rapporto con l’essente che gli sta di contro. Infatti proprio in questo rapporto l’uomo tenta di volta in volta di recare l’essente nel suo essere, pro-getta l’essente in vista del suo essere. Ma questo significa poetizzare l’essente. La ποίησις è qui da intendere come un pro-durre, un istituire, un far-avvenire alla presenza, e ancora, un condurre-fuori, ossia uno schiudersi. Ma allora ποίησις è φύσις: il movimento (κίνησις) iniziale della pro-duzione dell’ente nel suo essere. In tal senso la ποίησις e la φύσις dicono il Medesimo (Selbe): il disvelamento, das Entbergen, il movimento intimo dell’αλήθεια.
Il rapporto che s’instaura tra ποίησις e φύσις diventa fondamentale per ciò che riguarda la ricerca del senso dell’essere. L’essere è lo stesso svolgersi di questo rapporto, e, non a caso, i primi pensatori greci non erano ancora filosofi, bensì pensatori che avevano poeticamente scandagliato la φύσις, l’essere. Allo stesso modo questo rapporto non è al di fuori del tempo, anzi si può affermare che il significato originale del tempo sta proprio nello svolgersi del rapporto di uomo ed essere. Non a caso Heidegger ha iniziato la sua ricerca del senso dell’essere col porre in stretto rapporto essere e tempo; un rapporto che inerisce la stessa essenza storica dell’uomo. Tutto questo ci porta a dire che il senso dell’essere sta nel tra-mandamento dell’essere dell’essente da epoca a epoca. L’essere è Ge-schick, destino che s’invia (schickt) all’esser-Ci dell’uomo, il quale lo riceve perché lo poetizza, lo istituisce, lo pro-duce nell’aperto di un’apertura.
Si può allora dire che la filosofia heideggeriana può essere pensata come una teoria della tra-duzione, ossia una teoria che pensi fino in fondo il tra-mandamento da un punto di vista prettamente filosofico. Basta in tal senso riflettere sullo stesso metodo di indagine utilizzato da Heidegger: 1) la ripresa di un termine greco, che viene ritradotto “più grecamente”, dopo aver percorso il cammino dei suoi travisamenti successivi, a partire dalla prima traduzione latina; 2) oppure il cammino inverso, quello etimologico, che partendo da un termine tedesco, cerca di risalire verso un suo originario significato. Non è dunque azzardato dire che questo duplice procedimento, lungi dal configurarsi come un mero espediente tecnico, si mostra in realtà espediente non meramente filologico, bensì filosofico: il tradursi, lo sviarsi, il costruirsi-decostruirsi della parola, descrive la vicenda, l’avvicendarsi, il cammino (Weg) dell’Essere. Perciò, non vi può essere altra via (odos) di incontrarlo, se non quella di porsi all’ascolto del movimento che attraversa il linguaggio: il linguaggio è essenzialmente linguaggio tramandato. L’essere è allora la storia (Geschichte) dell’essere, ma questa storia si svolge solo come storia del linguaggio, che, a sua volta, si concretizza nel pro-getto poetico dell’essente nella sua totalità.
In tal modo non possiamo più intendere il linguaggio come una struttura sintattico-semantica, e la parola come l’insieme di significato e significante. E questo semplicemente perché tale struttura è il risultato di un’impronta storica dell’essere, un invio d’essere. Ma allora anche la classica teoria della traduzione non può essere più accettata. Tale teoria intende la traduzione come il “trasferimento” di un significato da una lingua ad un’altra; ciò che nel passaggio si trasforma è il solo significante, ossia il semplice lato fonico e grafico della parola. In tal senso quanto più una traduzione sarà letterale, tradurrà cioè un testo parola per parola, tanto più essa assolverà il suo compito: quello di restituire “intatto” il significato, pur nel modificarsi della forma linguistica.
Ora, proprio questa idea di traduzione sembra ad Heidegger illusoria e ingenua: se ad esempio traduciamo la parola ει̃ναι con essere, la traduzione è senz’altro letterale, ma tuttavia noi sostituiamo una parola con un’altra diversa. Questa traduzione non è dunque un’operazione innocua e innocente come potrebbe sembrare. Specifica Heidegger: «ci siamo limitati a sostituire alle parole greche ens ed esse o Sein [essere] e Seindes [essente]. Con questa semplice sostituzione non arriviamo a nulla […] Non basta sostituire le parole greche con altre di altre lingue, anche se queste hanno una vasta notorietà»[2]. L’idea di questa innocua sostituzione è per Heidegger assolutamente illusoria: la traduzione letterale inganna, essa non consente quella fedeltà all’originale che pure sembra massimamente promettere: «il fatto che una traduzione sia semplicemente letterale non significa per ciò stesso che sia anche più fedele a ciò che è detto. Un traduzione è fedele solo se le parole parlano il linguaggio della cosa in causa»[3]. In tal modo si inizia a intravedere il compito che deve assolvere una corretta traduzione: più che un’ottusa fedeltà, le è richiesta una capacità di tradursi nel tra-durre, una capacità, cioè, non solo di trasportare, ma anche di lasciarsi trasportare nel suo rapporto col testo. Questo significa che il movimento tra le due lingue deve essere reciproco: un andare-e-venire dall’una all’altra, e quindi mai in senso unico. Solo in questo modo è possibile ascoltare ciò che davvero parla in una lingua: «dobbiamo piuttosto lasciare che le stesse parole greche ci dicano ciò che esse nominano. Dobbiamo trasferire la nostra capacità di ascoltare nell’ambito del Dire poetico [Sagebereich] della lingua»[4]. In questo movimento reciproco, la tra-duzione porta alla parola dell’Essere proprio un’altra trasposizione, e precisamente anche qui una che avviene a partire dal velamento (λήθη) dell’Essere, la trasposizione di un’altra umanità nel tutto dell’ente. La traduzione allora fa riferimento a un’altra trasposizione; è quest’ultima quella che per Heidegger è la traduzione che è da pensare, quella cioè che sempre, anche all’interno della stessa lingua, trascina la parola fuori di sé, dai suoi contesti e significati abituali, per portarla altrove, a costituire linguaggi per diverse umanità storiche, con ciò stesso dischiudendo all’Essere una nuova apertura.
Il tradurre non è semplicemente il trasporto di un significato da un significante ad un altro; il fatto che il significato cambi la veste che lo ricopre, non lo lascia inalterato. Ma allora il cambiar-luogo della verità dell’Essere indica il movimento stesso di questo passaggio che conduce da una parola all’altra.
Il luogo (Ort), in cui la traduzione fa pervenire la parola, richiede sempre una Erörterung, la quale non è mai semplice dislocazione, ma è apertura di un nuovo spazio, darsi di un luogo, nuova collocazione. Ma perché questa complessa operazione riesca, non è solo necessaria una competenza filologica, ma è richiesta anche la capacità di tradursi, di dislocare e ri-collocare ogni volta il pensiero stesso. Puntualizza Heidegger nello scritto Il detto di Anassimandro: «Ciò che noi ci proponiamo è di tradurre il detto di Anassimandro. Il che richiede, da parte nostra, il trasferimento di ciò che è stato detto in greco nella nostra lingua tedesca. Al qual fine richiede che il nostro pensiero, prima di tradurre, traduca se stesso in ciò che è detto in greco. Il trasferimento pensante in ciò che nel detto accede alla propria lingua, è un salto oltre il fossato. Fossato che non è costituito soltanto dalla distanza storiografico-cronologica di due millenni e mezzo. Il fossato è più largo e più profondo. Esso è così arduo da scavalcare, prima di tutto perché ci troviamo sul suo orlo. Siamo così vicini al fossato da non poter prendere la rincorsa per compiere un salto così lungo e arduo; perciò, di solito, saltiamo troppo corto, ammesso almeno, che la mancanza d’una sponda sufficientemente sicura renda possibile il salto»[5].
Tradurre è: andare-oltre e tornare-indietro da una lingua all’altra. In questo continuo rimando da un estremo all’altro iniziamo ad intravedere il movimento che dallo straniero porta al proprio. Ora però lo straniero non è la lingua arcaica, quale ad esempio il greco, bensì è proprio il tedesco ad assumere, per Heidegger, il significato di straniero; in tal senso, la lingua madre, la lingua madre dell’occidente, è la lingua greca. Il tradurre inteso come tradursi significa portare lo straniero nel proprio[6]. Tale traduzione non accade però con fluidità, senza ostacoli: essa si configura come l’oltrepassamento di una frattura larga e profonda. La traduzione è un trans-porre, indica un passaggio ad un’altra sponda. Il punto è che i bordi su i quali le due lingue si affacciano non sono come le labbra di una medesima bocca: essi sono separati da un profondo fossato; nessun ponte può congiungerli e collegarli. La tra-duzione da una lingua ad un’altra richiede un salto (Sprung), il quale porta con sé il rischio continuo di sprofondare o di non trovare lo slancio adeguato per oltrepassare la distanza che separa le due sponde. Ora, proprio la difficoltà di questo passaggio mostra il darsi di una frattura, di una cesura: il darsi di una opacità irrimediabile, di una non-trasparenza che rende incomunicabili le due lingue; il permanere, in ciascuna di esse, di un fondo “intrattabile” di silenzio, di oscurità che non si lascia né ascoltare, né vedere. Heidegger lo chiama oblio dell’Essere, mostrandolo all’opera fin dalla prima parola con cui l’Occidente ha pensato la verità: α-λήθεια. Ed è proprio quest’oblio il fossato che ogni traduzione deve attraversare, senza cadere in esso; ma allora è dall’oblio di quest’oblio, dalla dimenticanza stessa che esiste un fossato e che nessun ponte lo può attraversare, che ogni traduzione deve partire. Essere consapevoli di questa frattura è già il primo fondamentale da-tradurre del pensiero.
Ma allora come superare il fossato senza cadere nell’arbitrio e nella presunzione di una totale trasparenza e trasferibilità delle due lingue? Chiarisce Heidegger in un passo del Il detto di Anassimandro: «Siamo vincolati alla lingua del detto, siamo vincolati alla nostra madrelingua e, per l’uno e per l’altra, siamo vincolati essenzialmente al linguaggio e alla comprensione della sua essenza. Questo vincolo è più esteso e rigoroso, anche se meno appariscente, di tutti i criteri derivanti dai fatti filologici e storiografici, che, in effetti, sono debitori della loro natura di fatti al vicolo suddetto. Fin che non ci renderemo conto di questo vincolo, ogni traduzione del detto di Anassimandro apparirà come un semplice arbitrio»[7].
C’è un vincolo profondo, che tiene insieme, al di là d’ogni frattura ed estraneità, le lingue, che consente il salto oltre il fossato, il passaggio dall’una all’altra. Questo vincolo è più nascosto, ma non per questo meno importante, anzi esso è il più essenziale, in quanto rende più co-appartenenti due lingue diverse, e questo grazie all’essenziale rapporto al linguaggio. Se una profonda frattura divide due lingue, tuttavia è possibile tra-dursi dall’una all’altra, poiché un medesimo vincolo ci lega, ci fa appartenere al linguaggio, dal momento che in ognuna parla il vincolo che ci lega al darsi dell’Essere in parola. Questo però non elimina l’arbitrio e il rischio della traduzione. Anzi, quanto più si tratterà di un pensiero che si traduce, tanto più arrischiato e violento sarà il risultato: la traduzione resta sempre un presumere.
Questi caratteri, per così dire, negativi della traduzione, però, non impediscono lo svolgersi di essa, anzi solo così essa può davvero tradurre, rimettere in comunicazione lingue diventate assolutamente straniere. Ma è solo in virtù del più profondo vincolo che ci lega all’essenza del linguaggio, che la lingua di Anassimandro, Eraclito e Parmenide può essere ancora ascoltata da noi occidentali, abitatori di quella terra-della-sera (Abend-land), le cui parole sono giunte fino al loro estremo annichilirsi nella filosofia di Nietzsche. Il pensiero di Nietzsche giunge al linguaggio, mostrando ciò che ora è essente (la volontà di potenza), giunge però ad un linguaggio in cui parla la bimillenaria tradizione della metafisica occidentale, ad un linguaggio che l’Europa parla, sia pure attraverso una lunga serie di traduzioni, sia pure logorato, appiattito, stravolto e privato delle sue ragioni.
La storia del pensiero occidentale, da Anassimandro a Nietzsche, si presenta come una serie successiva di traduzioni. Grazie ad esse la lingua in cui Nietzsche parla, la nostra lingua, è ormai una lingua divenuta straniera, completamente logorata e stravolta; tuttavia la comune appartenenza all’essenza del linguaggio, il permanere di questo vincolo fondamentale, consente ancora di poter risalire da essa al luogo della sua provenienza, affinché nell’ultima parola possa ancora risuonare la prima[8]. In questo modo la traduzione deve collocarsi in un orizzonte escatologico, per poter tradurre nella fine il compimento dell’inizio e far risuonare nell’ultima la prima. Di questo carattere escatologico dell’essere parlano alcuni versi di una lirica dello stesso Heidegger: «essere è evento / evento è inizio / inizio è conclusione che diverge / divergenza è congedo / congedo è essere»[9].
È da notare che in questo processo di incessante traduzione, il più largo fossato che si apre nella lingua si consuma, per Heidegger, nella traduzione dal greco al latino. Se infatti già con Platone inizia il primo tradursi / tradirsi della verità dell’Essere intesa non più come aletheia, dis-velatezza, ma come idea, visione, e dunque come orthotes, giustezza, esattezza del vedere, se già all’interno della stessa lingua greca inizia un lento ma inesorabile processo di traduzione-travisamento delle prime parole originarie del pensiero, è tuttavia proprio con il passaggio a un’altra lingua, con la vera e propria traduzione del pensiero greco in quello latino, che questo sotterraneo erramento raggiunge la sua massima evidenza. Di più ancora: la traduzione delle categorie greche in quelle latine è anche un tra-passo, poiché chiude definitivamente per noi qualsiasi possibilità di ritorno all’esperienza greca del pensiero, facendo del greco una lingua morta. Infatti qualsiasi tentativo di resuscitarla non può prescindere dall’orizzonte latino, nel cui vocabolario la nostra lingua è ormai fissata. L’Occidente nasce veramente solo in quel punto di non ritorno in cui il mondo greco tramonta nella sua traduzione latina. Qualsiasi riproposizione di esso si scontra con l’inadeguatezza del linguaggio che, proprio a partire dalla romanità, è giunto sino a noi.
Con la traduzione latina, si apre, secondo Heidegger, un continuo travisamento e impoverimento del senso originario delle parole greche. Il compito del traduttore è allora un compito estremamente arduo: «per noi si tratta, invece, di saltare tutto questo processo di deformazione, di degradazione, per cercare di riconquistare l’indistruttibile forza evocativa della lingua e delle parole»[10]. Compito certamente disperato dato che lo Sprung (salto) che ci separa dalla nostra lingua madre ci costringe a poter ripensare ad essa solo a partire dal nostro bordo, da quell’estrema sponda straniera che è ormai diventata la “nostra” lingua, l’unica che davvero parliamo e conosciamo. Eppure questo compito impossibile, assolutamente disperato, è l’unico che davvero spetti al pensiero, che meriti di essere pensato. Poiché nella traduzione non sono in gioco solo le parole, ma ogni volta il destino dell’Essere, e, come si è visto, il pensare grecamente è un modo dell’Essere molto diverso da quello latino.
I nostri linguaggi, le nostre lingue europee non sono che l’esito estremo di questo movimento di traduzione-travisamento, di alienazione del pensiero in una parola che non riesce più a ri-trovarlo ed esprimerlo. Quest’epoca dell’erramento, la metafisica, è dunque una “cattiva” traduzione delle parole fondamentali della grecità; poiché essa è la lingua nella quale il pensiero occidentale si è costituito. Ma allora come è possibile ritrovare una sia pur pallida eco del risuonare originario delle parole? «La difficoltà si trova nella lingua. Le nostre lingue occidentali sono, ognuna in modo diverso, lingue del pensiero metafisico. Se l’essenza delle lingue occidentali porti con sé soltanto l’impronta metafisica, un’impronta quindi definitiva, della onto-teo-logia, o se queste lingue conservino altre possibilità del dire, ossia in pari tempo del dicente non-dire, è un problema che deve restare aperto»[11].
L’incessante interrogare heideggeriano si muove proprio in questa apertura, nell’irresolubilità di questo problema, nell’impossibilità di dare una risposta univoca, che valga per sempre. Si può dire che questo spazio è la domanda che muove sotterraneamente tutto il suo pensiero. Infatti nell’oscillazione tra il negare e l’affermare la possibilità di una parola non metafisica si fonda la stessa modalità del darsi dell’Essere oltre l’orizzonte nichilistico della metafisica compiuta. Sulla possibilità di questo linguaggio si concentra del resto tutto lo sforzo di Heidegger. Per questa ragione, la prima e fondamentale domanda da porsi è la seguente: «Una semplice traduzione può aver causato tutto questo? Forse ora impareremo a meditare ciò che può accadere nel corso di una traduzione. L’incontro – autentico e conforme al destino dell’essere [geschickliche] – dei linguaggi storici [geschichtlichen] è un evento silenzioso. In esso parla il destino dell’essere [Geschick des Seins]. In quale lingua traduce la terra della sera, l’Occidente?»[12].
La risposta a quest’ultima domanda è per noi adesso abbastanza chiara: l’Occidente traduce “in metafisico”; questa è la lingua che gli è propria, ed è in questo linguaggio, a partire soprattutto dalle traduzioni latine, che pensano tutte le lingue europee. La storia dell’Occidente è perciò la storia delle successive traduzioni delle parole fondamentali; ciò significa che il linguaggio ha un carattere essenzialmente storico. Questa constatazione non è però la semplice affermazione del divenire delle lingue. Questo concetto di storicità è ancora più radicale: se il linguaggio è l’apertura fondamentale a partire da cui si istituisce di volta in volta l’essente nella sua totalità, ossia è la casa dell’essere, allora il parlare storico delle lingue è disposto ogni volta dall’invio dell’Essere. Proprio la varietà delle significazioni è sempre storica. Poiché essa proviene dal rapporto del dire dell’uomo con gli invii dell’essere: noi siamo ciò che siamo in quanto reclamati dagli invii dell’Essere nel dominio del linguaggio. Nella molteplicità di significati di una parola è raccolto il suo di volta in volta essersi data storicamente, il suo aver trasmesso, ogni volta in modo diverso il darsi dell’Essere. Possiamo allora dire che la storia è storia di parole nel senso che è eminentemente storia del loro tradursi, effetto di traduzione. Proprio in questo differimento la differenza (Unterschied) che allontana e separa una parola dall’altra, un significato dall’altro, è produttiva, anzi è la ricchezza stessa di un lessico, di una lingua. Ma la molteplicità di sensi di una parola, il fatto che essa possieda differenti significati, non è solo frutto di un differimento temporale. Infatti questa distanza, questa differenza temporale è rilevante proprio a partire da quella differenza che è il tradursi della parola. In altri termini: la storia è storia in quanto tra-duzione, in quanto passaggio, trasporto di parole non solo da un significato all’altro, ma anche in quanto processo di slittamento del significato. Ed è proprio questo slittamento, questa deriva, questo sviamento ed erramento che fa di una parola fondamentale (Grundwort) una parola guida (Leitwort). Perciò la tra-duzione non è solo processo di degradazione e di oblio del senso originario, ma è anche effetto produttivo di senso, che è un tutt’uno con la vitalità e la ricchezza di una lingua, l’unico modo che le assicuri una sopravvivenza.
Da questo punto di vista il processo di traduzione non può essere opera dell’uomo, ma dello stesso inviarsi dell’Essere nella parola. È per questo che Heidegger insiste molto sul fatto che il linguaggio non è un prodotto dell’uomo, uno strumento che egli adopera per esprimere il suo pensiero. In un certo modo è l’uomo ad essere usato dal linguaggio perché gli invii dell’Essere siano custoditi. La traduzione è lo svolgersi storico di questa continua custodia degli invii. Se poi, come abbiamo detto all’inizio di questo paragrafo, indagare il senso dell’essere significa portarci nel rapporto uomo essere, nel loro vicendevole rimando, allora la partecipazione del pensiero in questo rapporto non è secondario, il che comporta che il tradurre è sempre un interpretare. Quest’ultimo non è semplicemente il metodo del giusto comprendere, ma essenzialmente il modo stesso con cui l’Essere si dà (Es gibt) al pensiero. L’uomo si immette nella “de-cisione storica” che fonda un nuovo orizzonte per una diversa umanità, proprio nel processo di traduzione-interpretazione. Bisogna insistere sul fatto che l’interpretare non può essere semplicemente inteso come una decodifica, nel senso che non consiste nella ricostruzione, in maniera filologicamente esatta, di un contesto storico in cui un’opera, un pensiero si collocano. L’interpretare è storico, in quanto costituisce nel modo più intimo la tradizione (Überlieferung), ossia la storicità come trasmissione dell’Essere in messaggi linguistici.
Pensare la traduzione come interpretazione ogni volta a partire da una tradizione, significa, per Heidegger, porsi in ascolto della parola, volta per volta diversa, attraverso la quale l’Essere si invia. In tal senso, il passaggio cui la tra-duzione allude è lo stesso che muove la tra-dizione, fino a costituire un medesimo movimento. La tradizione non è nient’altro che lo slittamento di significati, il tradursi successivo delle parole fondamentali, l’accadere dei Leit-Worte. Potremmo dire che il tra-mandamento è la forma eminente attraverso la quale Heidegger pensa la traduzione: «Là dove il parlare delle parole fondamentali viene tradotto (übersetzt) da un linguaggio storico ad un altro, la traduzione diventa tradizione. Se si irrigidisce, una tradizione può degenerare, tramutandosi in peso e in ostacolo. Ciò può accadere poiché la tradizione, e cioè il «tramandare» (Überlieferung), come dice il nome stesso, è propriamente un «mandare» (liefern) nel senso latino del liberare, della liberazione. La tradizione, in quanto è un liberare, porta alla luce tesori nascosti del «già stato», anche se tale luce è ancora soltanto di un’aurora esitante»[13]. La tra-dizione è dunque tra-duzione, tras-missione, trasporto di senso. Grazie a questo movimento la tradizione-traduzione non solo ri-mette, fa circolare, ci consegna significati del passato, ma, proprio mettendoli in movimento, trasportandoli, essa li apre, li trasforma, producendo nuove significatività. Possiamo allora sostenere che la tradizione in quanto differimento e differenza, non è altro che il tramandarsi di questa stessa differenza (Unterschied). La molteplicità, la novità del significato dipende infatti dal suo tramandarsi in successive traduzione, in una dislocazione continua di senso.
Ora però, se la traduzione è pensata come differenza assoluta, cioè come trasporto non solo del significante, ma anche del significato di una parola, in altre parole se essa è pensata senza il rapporto alla tradizione, si può ancora davvero parlare di traduzione? Infatti, che rapporto potrebbe ancora intercorrere tra due parole assolutamente diverse, sciolte da qualsiasi legame (tradizione) che le unisca? Eppure in precedenza si è parlato di un vincolo che Heidegger intravede tra lingue diverse, cioè del vincolo che ci lega tutti all’essenza del linguaggio. Nelle sue innumerevoli sfaccettature il linguaggio nel suo parlare è (west) il nostro unico orizzonte, l’elemento del pensiero. Da qualsiasi parte ci volgiamo, ciò che torna a parlarci è il Medesimo vincolo di coappartenenza di uomo ed essere, il quale si svolge come essenza del linguaggio. Allora, la traduzione non è per Heidegger né semplice trasporto di un significato che permane identico nel mutare del significante, né, d’altro canto, imposizione di una parola assolutamente differente. In entrambi i casi, infatti, non si darebbe vera traduzione, poiché così nulla passerebbe. La traduzione è tra-duzione solo in quanto è capace di far passare nel differente il Medesimo. Ma il medesimo non è un significato che permane “identico”, è, semmai, il Permanere dell’inviarsi, del tradursi di volta in volta dell’Essere nella parola. Questo Medesimo è da pensarsi come la struttura fondamentale attraverso la quale l’Essere si dà, si trasmette nella parola. Si badi ,però, che questa “struttura” non è pensabile come un sistema storico perfettamente trasparente, essa è invece la Topologia dell’essere, ossia la disseminazione di luoghi di senso in cui, da una parte, l’ente di volta in volta è fondato, dall’altra, l’Essere dislocando luoghi vela se stesso. Ogni luogo è legato all’altro perché appartengono alla Medesima topologia dell’essere. È per questo che l’ultima parola di Nietzsche può colloquiare con la prima parola di Anassimandro: «Il primo detto del pensiero iniziale e l’ultimo detto del pensiero finale conducono a farsi parola il Medesimo [das Selbe], ma non dicono l’Eguale [das Gleiche]. Quando nel diseguale è possibile parlare del Medesimo è soddisfatta da se stessa la condizione fondamentale per un colloquio di pensiero fra inizio e fine»[14].
Ciò che rende possibile la traduzione, ciò che essa trasporta, è il Medesimo, che giunge a farsi parola nel differente. È per questo che si può parlare di traduzione e non di arbitraria sostituzione di una parola con un’altra. Il legame, che unisce le parole - dalla loro differenza -, è il rapporto a questo Medesimo che dall’una all’altra s’invia, si trasmette, si tramanda.
Tutto il problema della traduzione, appena visto, inerisce nel modo più intimo la questione dell’ermeneutica heideggeriana, che ha come intento fondamentale fare esperienza del rapporto uomo essere. Rapporto che, come si è visto, raccoglie nel medesimo tutte le diverse epoche storiche dell’occidente. L’ermeneutica è l’Erörterung di tutte le vie e luoghi che quel Medesimo campo ha lasciato-essere, essa è perciò l’ascolto di quella continua disseminazione di sensi, che il linguaggio ha da sempre custodito e svolto.
Diventa allora chiaro che il problema dell’opera d’arte necessita di essere collocato in quest’unico svolgimento del rapporto uomo essere. L’opera sarà intesa come un luogo in cui si raccoglie questo rapporto, e che le permetterà di essere tra-mandata da un epoca all’altra, non però come un “oggetto” conchiuso che si trova “dentro” il tempo, ma come uno dei luoghi in cui il tempo si temporalizza; l’opera può aprire il tempo perché si dà (Es gibt) come suo stesso svolgimento, il che comporta che il suo tra-dursi, il suo tra-mandarsi non è qualcosa di separato dalla sua essenza, come appunto un oggetto che subisce un mutamento esterno. Prima di qualsiasi determinazione estetica vi è lo svolgimento del rapporto di uomo essere, e questo svolgimento è l’orizzonte temporale del senso dell’essere, ossia del suo disvelante-velarsi.
Viene spontaneo pensare l’opera d’arte come la parola – in base al medesimo movimento (κίνησις) –, la quale permane nel suo mutare, essa è prima di tutto Leit-wort, Weg, nel suo tracciare-tracciarsi mostra il medesimo campo, e questo perché slitta, ossia tra-duce tra-ducendosi. La parola (l’opera) non è mai un contenitore statico – è questo perché la possibilità di denotare la parola come significante di un significato è essa stessa frutto di una traduzione -, essa, allora, è κίνησις, movimento di allocazione di senso. Non è, quindi, un oggetto che subisce il mutare del tempo, ma è ciò che permette al tempo di svolgersi nelle sue tre estasi: esser-stato, presentazione e ad-venire.
Comprendere l’opera d’arte significa, in primo luogo, chiarire il suo carattere tramandante, il suo tradursi per nuove epoche; non certo come qualcosa ad essa aggiunto, bensì come suo modo di essere. Non è forse proprio questo suo carattere a rendere possibile una continua e sempre nuova lettura di un’opera, come, ad esempio, la Divina commedia? Ma, come si è chiarito in precedenza, il suo tramandarsi è possibile solo per quell’essenza dell’essere, che si dispiega nel suo rapporto con l’esserci dell’uomo. Solo quindi se partiremo da questo rapporto, ci verrà indicata l’origine della sua essenza. E a sua volta, solo se mostreremo il carattere aprente dell’opera, si chiarirà la portata del rapporto uomo essere: il circolo ermeneutico si mostra, allora, come la sola vera via del pensiero propriamente detto.
[1] La parola tautologico fa riferimento al frammento 5 del poema didascalico di Parmenide: τὸ γὰρ αυ̉τὸ νοει̃ν ε̉στίν τε καὶ ει̃ναι, lo stesso è infatti pensare e essere.
[2] Heidegger, Che cosa significa pensare?, ed. SugarCo, Milano 1979, p. 151.
[3] Sentieri interrotti, ed. La nuova Italia, Firenze 1968, p. 300.
[4] Che cosa significa pensare?, cit., p. 151.
[5] Sentieri interrotti, cit., pp. 306-307.
[6] Il fatto che il proprio sia la lingua madre ormai perduta e lo straniero la lingua attuale, comporta la concreta impossibilità di portare lo straniero nel proprio, in tal senso il luogo (non luogo) dell’abitare dell’uomo è lo Zwischen, il frammezzo che raccoglie i due estremi.
[7] Ibidem, p. 305.
[8] Il che non significa che l’ultimo detto coincide col primo, ma entrambi si raccolgono nell’unità differenziata del Medesimo (Selbe).
[9] «Seyn ist Ereignis / Ereignis ist Anfang / Anfang ist Austrag / Austrag ist Abschied / Abschied ist Seyn»: Heidegger, Il pensiero poetante, ed. Mimesis, Milano 2000, pp. 72-73.
[10] Heidegger, Introduzione alla metafisica, ed. Mursia, Torino 1990, p. 25.
[11] Heidegger, Identità e differenza, in «Aut Aut», nn. 187-188, Torino 1982, p. 36.
[12] Sentieri interrotti, cit., p. 347.
[13] Heidegger, Il principio di ragione, ed. Adelphi, Milano 1991, p. 174.
[14] Sentieri interrotti, cit., p, 310.