IL BUDDHISMO

A cura di Diego Fusaro

Le origini

Il termine Buddha in lingua pali significa "chi conosce o raggiunge l'illuminazione". Il fondatore del Buddhismo si chiamava in realtà Siddharta, ed aveva come patronimico quello di Gautama o Gotama. Nacque in una famiglia principesca, del clan dei Sakya, che viveva a Kapilavastu, in una regione che oggi fa parte del Nepal, a 170 chilometri circa dall'odierna Benares. Nacque verso la metà del 6° secolo a.C. Suo padre si chiamava Suddhodana e la madre Mahamaya. Il giovane principe venne allevato in mezzo al lusso, avendo a disposizione tutte le comodità ed i piaceri. A 19 anni sposò una donna bellissima, Yasodhara. Per molti anni condusse una vita fatta di lusso e felicità domestica. Ma un giorno il giovane incontrò un vecchio, un malato, un morto ed un monaco. Quelle quattro realtà lo colpirono profondamente. Dopo essersi reso conto che la vecchiaia, la malattia e la morte sono la sorte dell'umanità e che vi sono delle persone che aspirano ad una vita diversa, decise di dedicarsi anche lui alla ricerca della verità. Aveva 29 anni quando decise di lasciare tutto e di ritirarsi in luoghi solitari per meditare. Si addentrò nella foresta, si rase il capo, indossò l'abito giallo di un eremita e per sei lunghi anni cercò una soluzione. Interrogò famosi sapienti, si diede all'ascetismo più rigido ma non riuscì a trovare la Risposta. Una notte, infine, si sedette sotto un albero e promise che non si sarebbe mosso da lì finché non avesse trovato la Risposta. Sotto quell'albero combatté l'ultima battaglia, quella contro le inclinazioni e i desideri del cuore umano, la battaglia contro l'amore per il mondo, l'illusione, l'aspirazione ad esistere e a gioire, contro il desiderio dell'onore, della felicità, della vita familiare, del benessere, del potere ecc. Fu assalito dal demone Mara, ma Siddharta superò le tentazioni. Dopo quarantanove giorni di meditazione, in una notte di luna piena del mese di maggio, in un luogo noto come Buddhagaya, egli raggiunse l'illuminazione. Da allora fu noto come "il Buddha". Aveva circa trentacinque anni. Da quel giorno percorse per altri quarantacinque anni il nord dell'India insegnando e predicando il suo messaggio di speranza e di felicità. Buddha morì all'età di 80 anni a Kusinara, in una notte di luna piena nel mese di karttika (ottobre-novembre).

Alla sua comunità, Buddha aveva lasciato solo la dottrina (Dhamma o Dharma), che è conosciuta come le Quattro Nobili Verità. Esse sono: 1)c'è il dolore; 2)il dolore ha una causa; 3)il dolore può essere superato; 4)il modo per eliminare il dolore è pratica l'Ottuplice Sentiero. Vediamo in breve i vari punti.

Il dolore o la sofferenza (dukkha) è un fatto universale. "E questa, o monaci, è la santa verità circa il dolore: la nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore; l'unione con quel che dispiace è dolore; la separazione da ciò che piace è dolore; non ottenere ciò che si desidera è dolore; in una parola, dolore sono i cinque elementi dell'esistenza individuale".
La causa del dolore è il desiderio ovvero brama ovvero sete (tauha). "Questa, o monaci, è la santa verità circa l'origine del dolore: essa è quella sete che è causa di rinascita, che è congiunta con la gioia e col desiderio, che trova godimento ora qui ora là; sete di piacere, sete di esistenza, sete di estinzione".
Come può cessare il dolore? "Questa, o monaci, è la santa verità circa la soppressione del dolore: è la soppressione di questa sete, annientando completamente il desiderio, è il bandirla, il reprimerla, il liberarsi da essa, il distaccarsi". Esiste dunque uno stato in cui c'è libertà completa dalla sofferenza e da ogni schiavitù, uno stato in cui si gode della pace assoluta, che è il Nirvana (o Nibbana).
La via che conduce alla soppressione del dolore è l'Ottuplice Sentiero: "Questa, o monaci, è la santa verità circa il sentiero che conduce alla soppressione del dolore: è l'augusto ottuplice sentiero, e cioè: retta fede, retta decisione, retta parola, retta azione, retta vita, retto sforzo, retto ricordo, retta concentrazione". Questo Ottuplice Sentiero porta a prendere coscienza di sé, del proprio intimo, porta alla sapienza e fuga l'ignoranza; il suo frutto consiste nella serenità, nella conoscenza e nella illuminazione, che è il Nirvana, lo stato di pace perfetta e di perfetta felicità.

Per chiarire meglio in che cosa consiste il Nirvana, dobbiamo ricordare che il Buddhismo ha ereditato dall'Induismo il concetto del karma. Il karma è la nostra azione o, meglio, in senso morale, è il frutto della nostra azione, il nostro merito o demerito. Fintanto che vi sarà karma, un essere nascerà e rinascerà. Questa però non vuole essere una dottrina deterministica poiché si è sempre liberi di agire per il meglio o per il peggio. È la volontà e non tanto la sola azione che riveste importanza nel produrre nuovo karma. Questa situazione è forse destinata a continuare per sempre? No, per il Buddhismo non sarà sempre così. C'è infatti la possibilità di arrivare al Nirvana per porre fine alle sofferenze, per essere liberati dalla ruota delle nascite e delle rinascite. Si tratta di uno stato di beatitudine suprema, di pace e di tranquillità interiore, accompagnato dalla certezza di aver ottenuto la liberazione; è uno stato non descrivibile a parole; solo chi lo ha sperimentato può sapere che cos'è. Infatti può essere raggiunto in questa vita e non in uno stato futuro. Né è una condizione che solo pochi possono fare propria. Tutti sono in grado di raggiungerlo, anche se sono molto pochi coloro che vi giungono in maniera perfetta durante questa vita. La beatitudine dei perfetti (Arahat) dopo la morte è chiamata Parinirvana, e costituisce ovviamente l'ultimo stadio del nirvana.Tale è il traguardo a cui l'Ottuplice Sentiero può condurre il fedele.

La teoria della anatta. Il Buddhismo respinge la nozione di anima intesa come la sostanza individuale, personale, autonoma e immortale nei confronti del corpo. Esso sostiene al contrario che non c'è nessuna anima, dunque c'è una non-anima, che chiama anatta. In altre parole, l'anima o l'io o il sé non esistono. Quel che è detto "io" è una combinazione continuamente mutevole di forze ed energie mentali e fisiche, che sono di per sé vuote, irreali. Noi siamo abituati a dire che il corpo o le abitudini o i pensieri di una persona appartengono ad un sé, ed in questo modo suggeriamo che, oltre a ciò che è posseduto, vi sia anche un possessore - l'io - di tali processi. In realtà, secondo il Buddhismo, questo è soltanto un modo di dire: la dottrina della anatta nega insomma che il cosiddetto sé sia una sostanza indipendente dai processi che formano una persona. Si tenga inoltre presente che per il Buddhismo la credenza in un sé sostanziale è proprio alla base della sofferenza, perché tale credenza rende possibile l'attaccamento dei vari processi appunto ad un sé che soffrirebbe: io soffro, io gioisco, io agisco… Questo errore fondamentale, questo ignorare quale sia la verità (per il Buddhismo) permette l'attaccamento e rende perciò reale la sofferenza ed impossibile a superarsi.

Il Sangha. Un altro concetto molto importante nel Buddhismo è la "comunità" o sangha. Il sangha è l'ordine dei monaci buddhisti (bhikku). Oggi il Buddhismo è diviso, grosso modo, nella scuola meridionale o Theravada ( diffuso in Birmania, Sri Lanka, Thailandia, Cambogia), chiamata anche Piccolo Veicolo, e nella scuola settentrionale, forse più conosciuta ai profani, del Mahayana (diffuso in Tibet, Mongolia meridionale, Cina, Giappone, Corea, Vietnam), chiamata Grande Veicolo. Queste due scuole sono due aspetti complementari di un tutto. Il Buddhismo, pur sorto in India, ha saputo adattarsi ai popoli e alle culture in cui si è diffuso. Il primo Buddhismo era contrario ai riti e alle cerimonie, alle preghiere e alle osservanze. Buddha stesso non designò alcun successore né diede direttive riguardo una forma particolare di organizzazione. Col passare del tempo fu però necessario ricorrere a qualche forma di organizzazione per tenere insieme la comunità (sangha). Essa è stata così costretta a stabilire vari gradi all'interno della comunità. Vi è dunque il novizio; quindi il monaco vero e proprio; poi l'anziano e in ultimo il grande anziano. Tra i monaci non esistono comunque segni di distinzione. La disciplina è regolata da un codice, Patimokkha, che contiene 227 precetti. È cosa relativamente semplice farsi buddhista: buddhista è chi venera il Buddha come la guida o il maestro spirituale più alto, e che si sforza di vivere in conformità ai suoi insegnamenti. Chiunque vuole diventare seguace di Buddha dichiara la propria intenzione usando la formula seguente, detta Tirasana (i tre rifugi), recitata abitualmente in lingua pali, che si può tradurre così: "Al Buddha come rifugio io vado; al Dharma come rifugio io vado; al Sangha come rifugio io vado".

Le feste buddhiste. Il giorno di riposo è il sabato. Le tre feste più importanti sono il Capodanno, il Giorno del Buddha e la Quaresima. Il Capodanno cade in genere nel mese di aprile. La celebrazione dei primi due giorni del nuovo anno comprende la Festa dell'acqua. La gente offre recipienti di acqua fresca ai suoi anziani e regala loro dei doni utili in segno di rispetto e per chiedere la loro benedizione; a loro volta gli anziani rispondono elargendo quattro grazie, e cioè lunga vita, bell'aspetto, tranquillità ed energia. Inoltre si getta per divertimento dell'acqua addosso ai passanti. Le due pratiche sono interpretate come un lavaggio dalla "sporcizia" accumulata nel corso dell'anno. L'acqua viene gettata addosso agli altri anche allo scopo di ottenere pioggia più abbondante nella imminente stagione della semina del riso. Infine la festa serve anche a farsi dei meriti andando a visitare i propri defunti. La gente, dopo aver offerto del cibo ai monaci nei monasteri, affolla le pagode dove sono sepolte le ceneri e le ossa cremate degli antenati.

Nel Giorno del Buddha si commemorano la nascita, l'illuminazione e la morte di Buddha. Infatti in un giorno di luna piena del mese di maggio venne alla luce Siddharta Gautama; in un giorno di luna piena di maggio egli ebbe l'illuminazione, e in un giorno di maggio morì o, per meglio dire, entrò nel Parinirvana.

La Quaresima buddhista dura tre mesi, dalla luna piena di luglio alla luna piena di ottobre. In questo periodo, i monaci non possono viaggiare e non possono passare la notte fuori dal monastero se non in caso di gravi necessità. In tale epoca non si possono celebrare matrimoni, non si possono svolgere giochi e altre forme di divertimento pubblico, ed i devoti cercano di osservare il sabato più spesso che possono.

L'etica buddhistica

Fin dagli inizi il buddhismo distinse certi valori umani assoluti, universali, validi per tutti, e dei precetti più rigidi la cui osservanza è propria dei monaci. Le cinque regole raccomandate ai laici sono (Panca sila): rispetto della vita, astenersi dal furto, castità, non mentire, non bere bevande alcoliche. Le cinque regole obbligatorie per i monaci, oltre alle cinque precedenti, sono: disciplina nell'ora dei pasti (cioè mangiare nel momento prescritto), non ricercare i piaceri mondani, evitare unguenti ed ornamenti; non usare letti ampi e comodi, non ricevere denaro. In queste prescrizioni il buddhismo non fu originale: un catalogo simile si ritrova ad es. nello Yoga. L'originalità del buddhismo è altrove. I precetti morali non hanno di mira l'individuo singolo, isolato, che ha di mira la propria salvezza; piuttosto considerano l'uomo come vivente in mezzo agli altri: non basta non fare del male, non basta non uccidere o non offendere, bisogna altresì partecipare amorosi alla vita altrui, avere simpatia per i propri simili, rallegrarsi delle loro gioie e commiserare e alleviare i loro dolori. In altre parole, simpatia e pietà introducono un elemento positivo nella morale; la quale non è più l'eliminazione o cessazione del male ma diventa un comandamento positivo: qualche cosa che bisogna fare, e a fare non per sé ma per gli altri. La morale buddhistica immette cioè nella morale indiana il senso del collettivo. L'uomo è sì artefice del proprio destino, deve evitare il male e superare le passioni e l'egoismo, ma questa purificazione non è un rigido ed austero estraniarsi dal mondo; essa trova il proprio esercizio e il terreno fecondo nella vita consociata. La morale del laico si differenzia per questo dalla morale dell'asceta: il quale necessariamente deve sottostare ad altri obblighi e limitazioni. Il contrasto tra le due morali non è stato forse per nessuna scuola così palese come nel Buddhismo: accanto a quei comandamenti universalmente validi, abbiamo la tecnica sottile, ingiunta ai monaci, per detergere tutte le macchie, distrazioni ed egoismi dal più profondo della mente, e rendere questa cristallina e pura, onde le passioni e il karma conseguente non abbiano più presa sull'uomo. Su questa prassi si innesta il processo della meditazione, dell'ottenimento della perfetta quieta, della soppressione intera della passione, della restituzione della mente alla sua assoluta, immobile serenità. Ma sulla morale laica, riscaldata dai principi della simpatia e della pietà, fiorì lo spirito di rinuncia e di sacrificio che rappresenta il centro del Grande Veicolo. Nel Mahayana infatti l'amore trionfa nella figura del Bodhisattva, che è tutto abnegazione e sacrificio. Le sei o dieci perfezioni che deve praticare il Bodhsattva per tramutarsi in Buddha muovono dalla perfezione della Legge, dalla pazienza, dalla rinuncia di se medesimi, dalla costanza: virtù che l'agiografia tradizionale celebra di continuo ad edificazione dei fedeli, ripetendo le gesta del Buddha. Tale spirito di sacrificio è assoluto, nel senso che non basta sacrificare i propri beni o la propria vita. Il Bodhsattva rinuncia al risultato karmico del bene che compie, e fa voto di assumere su di sé i peccati altrui e trasferire la propria gioia e i propri meriti agli altri. Questo supremo sacrificio si chiama parinamana, trasferimento del karma altrui sul Bodhisattva; esso diventa uno dei fattori necessari della elevazione spirituale e sta a significare l'assoluta abnegazione che deve animare il Bodhisattva.

Nagarjuna

Visse verso la fine del 2° secolo d.C. Secondo una biografia mitica cinese, era nato nell'India meridionale. Di casta brahmanica, studiò i Veda e apprese tutte le scienze, compresa la magia, grazie alla quale sapeva rendersi invisibile. Approfittando di quest'arte, penetrò nell'harem del re; scoperto, riuscì a fuggire e si fece monaco buddhista, e diffuso il buddhismo nell'India meridionale. È considerato il fondatore di una importante scuola del buddhismo, quella dei Sunya-vadin,ed è l'autore di un celebre testo, i Madhyamikakarika, oltre a numerose altre opere.

Nagarjuna dimostra che le cose, essendo reciprocamente condizionate, non hanno realtà in sé. Non c'è un soggetto e un oggetto. Nessuna cosa è esistente in sé: esiste in quanto in relazione con le altre. La sua individualità e singolarità è una supposizione erronea. Del mondo dell'esperienza non si può, in verità, predicare nulla: esso è contraddittorio e nessun concetto è valido per spiegarlo. Nagarjuna cerca di ridurre all'assurdo ogni possibile teoria. È un criticismo estremo che afferma la relatività di ogni pensiero e di ogni essere: come ogni cosa non ha un'esistenza reale e il suo essere è puramente apparente, così nessun concetto è indipendente. Pensare è supporre sempre una relazione; quando il processo dialettico ha dimostrato l'insostenibilità logica di tutto il pensato, quella cessazione o arresto è il vuoto, la vacuità, l'inesprimibile, al di là di ogni designazione. Nagarjuna fa l'esempio di un malato agli occhi che immagina di vedere macchie o punti. Chi non sappia di essere malato prende quelle macchie per vere e reali; chi sa di essere malato, pur non potendo eliminare quel difetto, sa che la persona sana ne è priva e per lei quelle macchie non esistono. Così la vera vista è quella che scopre l'identità estrema oltre tutti gli opposti e tutti i concetti, identità nella quale appunto samsara e buddhità si equivalgono: il reale trascende ogni dualità. La vacuità (sunyata) è il fondamento di tutto. Essa non è il puro nulla ma la negazione, come già accennato, di ogni categoria mentale, anche la più generale e astratta, per cui della realtà in sé non si può dire né che esiste né che non esiste perché trascende il nostro pensiero. Anche il Buddha, il nirvana e le altre categorie buddhistiche sono in sé inesistenti, hanno soltanto un valore strumentale e servono come ideali a cui deve tendere la nostra azione. Chi crede nella realtà dei fenomeni si irretisce nel ciclo delle nascite e rinascite, chi invece si convince della loro illusorietà e crede nella vacuità, non si attacca al mondo e ottiene la liberazione.

Il Buddhismo tibetano

Il Buddhismo tibetano pratica la forma del "Veicolo di diamante"(vajrayana).Secondo la tradizione, la penetrazione del buddhismo nel Tibet è legata all'opera del re Sron-btsan-sgam-po (620-649 ca.) ma è probabile che una prima penetrazione di dottrine buddhiste di provenienza cinese e centro-asiatica si sia verifica ancora prima di quest'epoca. Il periodo che va dal X al XV secolo vide il consolidamento del Buddhismo in Tibet e la definitiva sistemazione del Canone, che risultò diviso in due grandi sezioni, una contene l'altra la letteratura esegetica. ente i sutra, il tantra, le regole di disciplina. La crescente mondanizzazione della setta Sa skya pa (così chiamata dal monastero di Sa Skya, fondato nel 1073), finì con l'accentrare il potere temporale nelle mani dei religiosi e consentì loro di esercitare per esecoli un forte dominio teocratico su tutto il paese. Tale potere venne legittimato politicamente dallo stesso Kubilai khan (capo dei tartari, nipote di Gengis Khan) nel XIII secolo, che concesse loro la sovranità (ereditaria di fatto, in quanto gli abati di questa setta, non vincolati al celibato, potevano contrarre matrimonio e quindi trasmettere il potere ai propri figli) su tutto il Tibet. Si stabilirono in questo modo quelle relazioni ufficiali tra i due popoli che porteranno al vassallaggio del Tibet sotto i Mongoli e poi sotto la Cina.

Il buddhismo tibetano è chiamato lamaismo dal termine lama, cioè maestro. Il potere teocratico del lamaismo si esercita attraverso una comunità fortemente gerarchizzata a capo della quale sono due Lama: il Dalai Lama (=maestro che è oceano di saggezza) e il Pan c'en-Lama. Il primo risiedeva nel convento Potala a Lhasa e deteneva il potere supremo sul Tibet; il secondo invece dimorava nel monastero di Ta-shi-lhum-po e deteneva il potere spirituale. In ordine di dignità ai due grandi Lama, seguono 180 Hutuktu, considerati incarnazioni di bodhisattva e di dèi. Ogni volta che un Lama muore, i dignitari religiosi si pongono alla ricerca di un bambino nel quale si può avere la certezza (in base ad eventi straordinari) che si è rifugiata l'anima del Lama defunto: ove le prescritte prove di accertamento confermino la validità delle scelte, il predestinato viene ad occupare di diritto il posto del Lama deceduto.

Tra i culti più notevoli praticati dai lamaisti vi è quello dei "Buddha viventi", ossia dei grandi monaci i quali, durante le funzioni liturgiche, sono fatti oggetto di venerazione come esseri divini. Il Lamaismo è oggi presente, oltre che in Tibet, in Mongolia, nella Cina del Nord e dell'Ovest, in Turkestan, Nepal, Bhutan e Sikkim.

Il Buddhismo Zen

Lo Zen è una forma particolare di Buddhismo. La parola zen è un termine giapponese derivato dal cinese ch'an o shan, a sua volta trascrizione del sanscrito dhyana, ossia meditazione. È infatti una corrente del buddhismo che ebbe origine in Cina al principio del 6° sec. d. C. Dalla Cina si diffuse in Giappone con il monaco Eisai verso il 1190. Qui lo Zen ebbe grande fioritura e diede vita a numerose correnti (Rinzai, Soto ecc.), molte delle quali ancora attive.

Lo Zen non conosce dèi, non ricerca l'immortalità e non ammette concetti come peccato o anima. Non è né una religione né una filosofia in senso occidentale; è semmai un sistema di vita. Che cosa fa una persona che segue lo Zen? Essa si educa gradualmente a cogliere la realtà senza mediazioni intellettuali ma vivendola nella pienezza del momento.

È la qualità dell'esperienza qui e ora, e non la precisione della ragione, che assume la massima importanza per il seguace dello Zen. La pratica fondamentale dello Zen è lo zazen, che viene intrapresa al fine di ottenere le condizioni ottimali per vedere direttamente in se stessi e scoprire nella purezza della propria esistenza la vera natura dell'essere. Lo Zen crede che la persona comune sia presa in un groviglio di idee, teorie, riflessioni, pregiudizi, sentimenti ed emozioni tali che non le permettono di cogliere la verità e la realtà ma solo frammenti di essa. Lo scopo dello zazen è dunque quello di liberare l'individuo e di consentirgli di entrare in modo pieno e diretto nella realtà. Vi sono tre mete che lo zazen si propone. La prima consiste nell'aumentare i poteri di concentrazione eliminando tutti i fattori di distrazione e tutti i dualismi (soggetto e oggetto, realtà e apparenza, bene e male ecc.). La seconda mira al conseguimento del satori, ossia di una sorta di illuminazione (essa presuppone un intenso allenamento: per ottenere il satori, vengono in aiuto i koan, stratagemmi usati dal maestro per far ottenere l'illuminazione al discepolo). La terza infine consiste nel vivere l'illuminazione nella vita di tutti i giorni. In questo modo qualsiasi azione e qualsiasi momento sono vissuti nella pienezza e nella profondità della verità.

Storie Zen

Nan-in, un Maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen. Nan-in servì il te. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare. Il professore guardò traboccare il te, poi non riuscì più a contenersi. "E’ ricolma. Non ce n’entra più!". "Come questa tazza" disse Nan-in "tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo zen, se prima non vuoti la tua tazza ?".

Gli insegnanti di Zen abituano i loro giovani allievi a esprimersi. Due templi Zen avevano ciascuno un bambino che era il prediletto tra tutti. Ogni mattina uno di questi bambini, andando a comprare le verdure, incontrava l’altro per la strada. "Dove vai?" domandò il primo. "Vado dove vanno i miei piedi" rispose l’altro. Questa risposta lasciò confuso il primo bambino, che andò a chiedere aiuto al suo maestro. "Quando domattina incontrerai quel bambino" gli disse l’insegnante "fagli la stessa domanda. Lui ti darà la stessa risposta, e allora tu domandagli: "Fa’ conto di non avere i piedi: dove vai, in quel caso?". Questo lo sistemerà. La mattina dopo i bambini si incontrarono di nuovo. "Dove vai?" domandò il primo bambino. "Vado dove soffia il vento" rispose l’altro. Anche stavolta il piccolo rimase sconcertato, e andò a raccontare al maestro la propria sconfitta. "E tu domandagli dove va se non c’è vento" gli consigliò il maestro. Il giorno dopo i ragazzi si incontrarono per la terza volta. "Dove vai ?" domandò il primo bambino. "Vado al mercato a comprare le verdure" rispose l’altro.

Il grande santo buddhista Nagarjuna andava in giro tutto nudo, con solo il perizoma e, paradossalmente, una ciotola dorata per raccogliere l’elemosina, dono del re che era suo discepolo. Una sera stava per mettersi a dormire, fra le rovine di un antico monastero, quando si accorse che un ladro lo stava spiando da dietro una colonna. "Tieni, prendila", disse Nagarjuna, porgendogli la ciotola. "Così non mi verrai a disturbare quando sarò addormentato". Il ladro arraffò la ciotola e fuggì via, per ritornare però il mattino seguente con la ciotola e una richiesta: "Quando ieri sera mi hai regalato questa ciotola con tanta generosità, mi hai fatto sentire molto povero. Insegnami come fai a procurarti la ricchezza che ti permette di avere questo sereno distacco dalle cose".

Ikkyu, il maestro di Zen, era molto intelligente anche da bambino. Il suo insegnante aveva una preziosa tazza da tè, un oggetto antico e raro. Sfortunatamente Ikkyu ruppe questa tazza e ne fu molto imbarazzato. Sentendo i passi dell’insegnante, nascose i cocci della tazza dietro la schiena. Quando comparve il maestro, Ikkyu gli domandò: "Perché le gente deve morire?" "Questo è naturale" spiegò il vecchio. "Ogni cosa deve morire e deve vivere per il tempo che le è destinato." Ikkyu, mostrando la tazza rotta, disse: "Per la tua tazza era venuto il tempo di morire".

Un giovane andò da un maestro e gli chiese: "Quanto tempo potrò impiegare per raggiungere l’illuminazione?" Rispose il maestro: "Dieci anni". Il giovane era sbalordito. "Così tanto?" domandò incredulo. Replicò l’altro: "No, mi sono sbagliato, ci vorranno venti anni". Il giovane chiese: " Perché hai raddoppiato la cifra?" Allora il maestro spiegò: "Adesso che ci penso, nel tuo caso ce ne vorranno probabilmente trenta".

Ti sei svegliato prima dell'alba, ma il tuo nemico non l'hai trovato. Quando il sole era basso hai attraversato tutta la pianura, ma il tuo nemico non l'hai trovato. Mentre il sole era alto nel cielo hai cercato tra le piante di tutta la foresta, ma il tuo nemico non l'hai trovato. Il sole era rosso nel cielo mentre tu cercavi sulla cima di tutte le colline, ma il tuo nemico non l'hai trovato. Ora sei stanco e ti riposi sulla riva di un ruscello, guardi nell'acqua ed ecco il tuo nemico: l'hai trovato.

Un uomo perse il suo anello più prezioso; cercò ovunque per ritrovarlo, ma nonostante la sua fatica non ci riuscì. Si sedette su una pietra, disperato, cercando inutilmente di sopprimere la sua disperazione. Come al solito il suo cane gli si avvicinò cercando le carezze del padrone. Il vicino di casa lo salutò come ogni sera. Gli amici gli fecero vedere i pesci che avevano pescato e gliene regalarono alcuni. La moglie e i figli lo accolsero con affetto al suo arrivo a casa esattamente come accadeva sempre. La giornata si concluse nella pace familiare. Purtroppo il tormento per la perdita dell'anello perseguitava ancora l'uomo, il quale però pensò: "nessuno si è accorto che ho perso l'anello, tutti si sono comportati con me come sempre, perché proprio io devo comportarmi in modo diverso con me stesso?". Fu così che si addormentò sereno.

Il maestro Tanzan era in viaggio con il suo allievo Ekido lungo una strada fangosa. Ad un certo punto incontrarono una bella ragazza in kimono e sciarpa di seta, che non poteva attraversare quella melma, senza rovinare il suo bel vestito. Senza problemi, Tanzan la prese in braccio e la trasportò sull’altro lato della strada. Ekido rimase pensieroso per tutto il giorno. Alla sera, non resistendo più, chiese apertamente al maestro: "Noi monaci non avviciniamo le donne, è pericoloso. Perché l’hai fatto?" Tanzan rispose: "Io quella ragazza l’ho lasciata laggiù. Tu la stai ancora portando con te"

Non cercare di seguire le orme dei saggi. Cerca ciò che essi cercavano.


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