I FILOSOFI E IL POTERE POLITICO

Denis Diderot interprete della vita di Seneca

 

di Andrea Edoardo Paron

 

 

            Il tema del rapporto tra la figura del filosofo e il potere politico ha rappresentato un aspetto fondamentale della storia della filosofia, dall’antichità ai giorni nostri, dalla condanna a morte di Socrate, fino all’adesione al nazismo di Heidegger, per arrivare ai nostri giorni dove il filosofo riveste, tra gli altri, il ruolo di interprete e, a volte, guida della società civile. Una tappa importante di questo percorso è rappresentata certamente da Lucio Anneo Seneca, il grande filosofo stoico, precettore e consigliere di Nerone, che andò incontro a morte prematura per non aver condiviso la folle politica dell’imperatore di Roma. Si tratta di un topos letterario e filosofico che ha avuto grandissima fortuna nei secoli. Menzione particolare riveste un saggio di Denis Diderot del 1778, che qui tentiamo di analizzare e approfondire, dove il filosofo francese, reduce dalla sua esperienza alla corte russa, fornisce una accurata biografia di Seneca, immedesimandosi con esso e dando al testo un sapore fortemente autobiografico.

 

1) Genesi e struttura del testo

            L’opera di Diderot Saggio sui regni di Claudio e Nerone e sui costumi e gli scritti di Seneca viene pubblicato per la prima volta nel 1778, presentandosi come una biografia del filosofo latino, cui si intreccia un approfondito quadro dei regni di Claudio e Nerone, gli imperatori coevi alla maggiore età del filosofo. L’idea di un saggio su Seneca era nata su invito di due collaboratori dell’Encyclopédie, d’Holbac e Naigeon. In particolare il barone d’Holbac aveva commissionato una traduzione delle opere del filosofo a La Grange, cui si rendeva necessario aggiungere un’ampia introduzione alla vita e alle opere di Seneca. Il testo partorito da Diderot in prima edizione si presentava però più complesso rispetto agli intendimenti iniziali. Si pensò dunque di correggere il titolo ed esplicitare il fine dell’opera (edizione del 1782): essa doveva essere una guida per la lettura del filosofo e in particolare un Essai sur les règnes de Claude et de Néron, et sur la vie et les écrits de Sénèque, pour servir d’introduction à la lecture de ce philosophe.

            Accanto a tale giustificazione formale, si possono rintracciare due motivazioni molto forti, tali da spingere Diderot a parlare di Seneca, autore sul quale non si era mai particolarmente appassionato. La prima ci viene fornita da Diderot stesso, che nella prefazione all’opera al signor Naigeon scrive: «avevo un obiettivo più degno: esaminare la vita e le opere di Seneca, per vendicare quel grand’uomo, se fosse stato calunniato, o per piangere le sue debolezze, se mi fosse sembrato colpevole, e trarre profitto dalle sue sagge e vigorose lezioni»[1]. Una professione sentimentale che trova riscontro alcune pagine più avanti, dove Diderot si rivolge direttamente a Seneca: «O Seneca, tu sei e sarai per sempre, insieme con Socrate, insieme con tutti gli uomini illustri ma sfortunati, insieme con tutti i grandi spiriti dell’antichità, uno dei più dolci legami tra i miei amici e me, e tra le persone colte di tutti i tempi e i loro amici. […] Avresti potuto essere la voce della giustizia attraverso i secoli, se io fossi stato al tuo posto e tu al mio. […] La mia consolazione sarà vendicarti di questo e di quelli»[2].

            La seconda motivazione è più velata, mai esplicitamente espressa, ma forse più importante delle altre, perché non solo fa riferimento alla biografia dell’autore, ma apre una riflessione sul rapporto antichi/moderni, sempre sottintesa nel corso del testo: Diderot era consapevole del fatto che l’opinione pubblica stava paragonando la sua relazione con Caterina II di Russia a quella tra Seneca e Nerone. Il raffronto è, per Diderot, più che mai problematico perché pone il problema morale del ruolo del philosophe di fronte al despota. Nonostante il nobile intento di omaggiare con un grande lavoro la memoria dell’amico La Grange, Diderot «non potè trattenersi dal rivelare il senso di colpa di un uomo amante della libertà che si è lasciato cogliere nei lacci di un obbligo morale nei confronti di un despota»[3].

            Il testo si presenta suddiviso in due libri. Il primo inizia con un’accurata esposizione della vita di Seneca, dalla nascita fino al trasferimento a Roma e all’assunzione dei primi incarichi pubblici, ricchissima di particolari inerenti alla famiglia e al clima culturale e sentimentale nel quale il giovane Seneca si formava. Con grande capacità narrativa e senza interruzioni espositive, Diderot inserisce, nel momento in cui racconta i primi approcci di Seneca alla vita di corte, una lunghissima digressione sul principato di Claudio, sui suoi amori, sulle sue debolezze, sulle sue intemperanze. La triste vicenda della morte di Claudio offre a Diderot lo spunto per aprire la seconda e ultima parentesi storica, quella sul regno di Nerone, il quale, com’è noto, lega indissolubilmente la sua figura a quella del suo precettore tradito, cioè Seneca stesso. Con Nerone, il quadro storico che fornisce lo sfondo alla vita di Seneca, diventa parte attiva nella sua biografia, in un inedito gioco delle parti, dove il principe e il suo stimato precettore (prima) e consigliere (poi) determinano vicendevolmente il reciproco triste destino. Seneca, che sognava di forgiare con le sue teorie e con la sua eloquenza un grande imperatore, si troverà infine tradito nei comportamenti del principe, e infine da lui stesso ucciso; Nerone, che nei primi anni di regno non apriva bocca o scriveva lettera senza l’approvazione del maestro, si sentirà tradito da un Seneca stanco della vita di corte e dei suoi intrighi ma soprattutto dal rimorso di non aver saputo tenere fede a quei principi, su cui si era formato in gioventù.

            Il secondo libro è invece un’erudita quanto veloce rassegna delle opere di Seneca, trattate in modo sintetico nell’intento di dare spunti di riflessione e curiosità per la lettura dei testi originari.

 

2) Virtù degli antichi e virtù dei moderni: Seneca filosofo, magistrato e uomo di corte

All’interno della narrazione delle opere di Seneca è frequentemente sotteso un parallelismo tra il comportamento del filosofo nei confronti del potere, più volte comunque criticato o confutato, e l’atteggiamento assunto da importanti intellettuali moderni (gli esempi fanno riferimento anche a personaggi del ‘500) all’interno delle corti europee e delle amministrazioni statali. Il ragionamento di Diderot però non si ferma soltanto al rapporto intellettuale/potere, ma va a definire il ruolo del filosofo nella società: uno spettatore attento, spesso coinvolto nel governo per le sue qualità e per la sua fama, a volte coraggioso avversario di decisioni funeste, altre taciturno connivente di misfatti.

            Seneca, sin dall’adolescenza, era stato avviato dal padre allo studio dell’eloquenza, arte che negli anni successivi al regno di Tiberio andava via via deteriorandosi, a causa della deriva tirannica e dispotica in cui l’istituto del principato stava cadendo. Seneca comunque iniziò la sua attività nel foro, distinguendosi per la brillantezza dei discorsi e per la purezza del latino che parlava. Una nuova passione stava però per prendere forma nella mente del giovane oratore, che neppure la prudenza del padre, come ci indica Diderot, seppe fermare. Seneca voleva iniziare a occuparsi di filosofia. Seneca il Vecchio, infatti, conosceva bene gli uomini ma anche la politica e sapeva molto bene che una disciplina come la filosofia metteva in serio pericolo la reputazione del figlio. Così infatti scrive Diderot, abbozzando nel contempo una definizione del ruolo del filosofo in seno alla società moderna:

 

«Un padre tenero che teme per la sorte del figlio, cercherà sempre di distoglierlo da una disciplina che insegna a conoscere la verità e incoraggia a dirla, quando al vertice della società vi sono sacerdoti che vendono menzogna, magistrati che li proteggono e sovrani che hanno in odio la filosofia perché da chi difende i diritti dell’umanità non possono che udire cose sgradevoli. A quel tempo era sufficiente pronunciare il nome di un vizio per attirarsi il sospetto di alludere al ministro o al principe; pronunciare il nome di una virtù e tessere l’elogio dei costumi del passato per apparire intenzionati a screditare il secolo coevo, acquistando in questo modo la nomea di spirito sedizioso, incline alla satira; ricordare un delitto lontano per indicare un qualche personaggio vivente; menzionare un gesto eroico per dare una lezione o fare un rimprovero. In epoche più vicine a noi non avreste detto che ad un grande qualsiasi sarebbe mancato soltanto un Tiberio per essere un Seiano, che ad una donna qualsiasi sarebbe mancato soltanto un Nerone per essere una Poppea, senza per questo dare luogo alle insinuazioni più odiose? Rinunciare a pensare? No. Piuttosto rinunciare a parlare e a scrivere»[4].

 

La considerazione storica di Diderot non è altro che una considerazione politica sul suo presente e sul suo ruolo alla corte di Caterina II ed è anzi applicabile a qualsiasi epoca storica. Traspare, infatti, dalle parole di Diderot l’idea che l’esercizio della filosofia non si presta a una storicizzazione riguardo al suo rapporto col potere, ma che essa, per la sua stessa essenza di ricerca della verità, non può sussistere in un clima dove la menzogna, la prevaricazione, la tirannia dominano il governo di una società e, quindi, la società stessa. La censura, però, come ci insegna Diderot, non raggiunge il pensiero ma la parola e la scrittura, cui si può comunque rinunciare. In effetti Diderot, anche in altri passi relativi alla vita di Seneca, non pronuncia parole di condanna nei confronti del filosofo romano, quando, per compiacere all’autorità o per salvaguardare i propri affetti, rinuncia a dire o a fare certe cose, anche perché condannare Seneca significherebbe condannare se stesso. Compito del filosofo è piuttosto far sì che ciò non avvenga più e, come Seneca, istruire e consigliare saggiamente i governanti alla mitezza, alla virtù, alla liberalità delle arti, al dominio delle passioni, all’indipendenza del giudizio.

            Seneca, dunque, contrariamente ai consigli del padre, decise di dedicarsi alla filosofia e strinse rapporti con illustri personalità, celebri per «profondità di cultura e austerità nei costumi»[5]: lo stoico Attalo, il pitagorico Socione, l’eclettico Fabiano Papirio e il cinico Demetrio. Seneca stimava moltissimo gli stoici intransigenti, anche se seguiva uno stoicismo moderato. Della setta stoica «Seneca abbracciò soltanto quelli che inducono al distacco dalla vita, dalle ricchezze, dalla gloria […] e quelli che danno rassegnazione e forza, virtù necessarie ad accettare e a sopportare le avversità»[6]. Diderot la considera quasi una scelta obbligata: quando si vive sotto regimi tirannici, «dove regna la voluttà»[7], occorre stare attenti a non cadere in essa, osservarla, ma non seguirla. Il filosofo francese si spinge così in un elogio della solitudine. Quando infatti il filosofo si rende conto di non poter agire per il bene comune, decide di ritirarsi, per concentrarsi sui conflitti della ragione e il raggiungimento della virtù. A Roma, come oggi. Dall’esilio dorato della solitudine, lontano dalle intemperanze del volgo, il filosofo osserva senza invidia l’ammirazione del popolo verso un sovrano che li seduce e li diverte.

            Le insistenze del padre riguardo alla sua attività portarono Seneca ad abbandonare la filosofia per l’avvocatura ed in seguito l’avvocatura per gli affari politici. Prima di diventare questore, Seneca era stato protagonista di un esilio ingiustificato in Corsica, durato otto anni sotto il principato di Claudio. Artefice della delazione e della successiva condanna fu Messalina, la famigerata prima moglie dell’imperatore Claudio. Seneca in quegli anni era diventato un uomo molto conosciuto e molto frequentato da personaggi di corte, in particolare da Giulia, la nipote del principe. Seneca dispensava consigli e massime che, come ci ha brillantemente dimostrato Diderot, erano il più delle volte fraintese e interpretate come offese personali ai membri della famiglia imperiale. Scagionato da tali accuse, Messalina ne inventò una nuova, quella per cui era uno dei corruttori dell’integrità della principessa Giulia, la quale veniva ormai tacciata di adulterio, con la complicità, tra gli altri, di Seneca. Il filosofo, contrariamente alla nobildonna, sfuggì la morte, ma dovette trasferirsi per lungo tempo nell’esilio forzoso della Corsica. Seneca aveva appena lambito il potere, ma neppure la sua condotta stoica potè salvarlo dalla voluttà della corte e dalla menzogna che faceva da sovrana.

            Tornato dall’esilio Seneca si dedicò all’attività politica, divenendo questore. Smessi anche i panni della politica Seneca decise di ritornare alla filosofia, reputando di essere più utile ai cittadini nell’insegnare loro il disprezzo per le ricchezze e per gli incarichi politici. E’ in questo clima di riconoscenza pubblica che Seneca ottenne l’incarico di precettore di Nerone. Secondo Diderot, si possono distinguere tre fasi nell’insegnamento di Seneca: «nella prima il filosofo concepisce le più alte speranze; nella seconda vede corrompersi i costumi di Nerone; nella terza vuole ritirasi a vita privata di fronte all’esplodere dei vizi, della crudeltà, delle depravazioni, dei furori dell’allievo»[8].

            La morte violenta di Claudio portò all’improvviso al timone del mondo il diciassettenne Nerone, spinto dalla voglia di potere della madre Agrippina e sommessamente consigliato dal fedele e saggio Seneca. Nella visione di Diderot, Seneca non era un semplice servitore, leale e fedele, ma svolgeva a corte la missione di una vita, di un’idea, di un progetto, di un sogno: mettere in pratica i tanti anni di riflessione e «portare Nerone al rango di grande sovrano»[9]. Diderot sembra infilarsi in una prospettiva difficile da sostenere: l’esaltazione del pensatore latino portata avanti fino a questo punto della sua vita sembrava contraddirsi con il fallimento totale nell’educazione e nella consultazione del giovane sovrano. In realtà Diderot non dà spazio a nessun tipo di critica:

 

«Com’è facile, per coloro che dalla riva del mare contemplano oziosamente il comandante di una nave mentre combatte contro la furia dei venti e dei flutti, dire che quell’uomo dovrebbe condurre in un altro modo l’imbarcazione! Se avessero loro il timone tra le mani, si troverebbero in ben altre difficoltà o addirittura andrebbero incontro ad un triste naufragio. Così capita a molti di pensare che Seneca fu filosofo solo per i libri che scrisse. A mio avviso è da stimarsi più come filosofo di fatto che di nome…»[10].

 

Secondo Diderot, Seneca non ha nulla da rimproverarsi, perché i sentimenti di un precettore virtuoso nei confronti dell’allievo sono gli stessi del buon padre, che attende ansioso il rinsavimento del figlio perduto. Ciò è confermato alcune pagine dopo, quando Diderot afferma che «Seneca avrebbe commesso un grave errore se avesse  abbandonato troppo presto Nerone alla sua perversità, nessun errore, invece, se lo avesse abbandonato troppo tardi e se, dopo essere arrivato al punto estremo, gli avesse detto: “mi sono stancato di compiere sforzi inutili. Sii pure malvagio, dal momento che è questo che vuoi, non mi opporrò più”»[11].

            I primi cinque anni di governo furono giudicati ottimi anche dai postumi, come Tacito, il quale indica tale prodigio (viste le intemperanze del principe sin dalla giovane età) alla saggezza di Burro (istruttore militare e poi consigliere) e di Seneca. Quest’ultimo infatti preparava i discorsi, gli editti, nominava i governatori, manteneva l’ordine e il decoro nel palazzo. Seneca, in sostanza, da filosofo solitario e precettore raffinato, si era dimostrato in grado di amministrare un impero e di comportarsi da statista. Il compito però, si rivelava sempre più difficile: «nell’impossibilità di convertire il principe dissoluto a quell’austerità che professavano, i precettori tentarono di sostituire alla smania per i piaceri voluttuosi, illeciti e grossolani, il gusto per i piaceri delicati e consentiti»[12].

            Il testo di Diderot prosegue con una dettagliatissima rassegna di episodi riguardo a Nerone e al suo modo di vivere a corte, dagli amori adulterini al ripudio della moglie, dal rogo di Roma ai suoi vezzi teatrali, dall’amore incestuoso per la madre fino alla sua uccisione. In questo quadro Seneca si muove con circospezione, ben conscio della deriva che nel tempo si aggrava sempre più, ma con quella tranquillità tipicamente stoica che lo aiuta a andare oltre le delazioni, le congiure, gli attentati frequentissimi. Seneca, che godeva di un invidiato favore presso l’imperatore, decise a un certo momento di ritirarsi dagli incarichi governativi,per dedicarsi allo studio. L’ammirazione di cui comunque godeva divenne in un baleno calunnia pesante: «contro di lui si montarono diverse accuse: di essersi dedicato senza sosta ad accrescere un patrimonio già immenso e superiore a quanto era opportuno che un privato possedesse; di essersi accattivato il favore dei cittadini; di aver quasi superato Nerone con i deliziosi ornamenti dei suoi giardini e con la magnificenza delle sue ville di campagna; di aver riconosciuto il talento dell’eloquenza solo a se stesso […]»[13].

            Nonostante l’opposizione di Nerone, Seneca riuscì a farsi collocare a riposo, ma era certo di essere caduto in disgrazia. L’imperatore cercò in un primo momento di sbarazzarsi del filosofo col veleno, ma si trovò dinanzi un Seneca accorto, che ormai si cibava solo di frutta selvatica. Un fatto più grave però occorse: la congiura dei Pisoni. Nerone fece in modo che anche Seneca fosse annoverato tra i partecipanti, costruendo ad hoc prove fittizie. Scrive Diderot, che per Nerone «era necessario portare a termine con la spada ciò che si era tentato inutilmente col veleno»[14]. Seneca venne ucciso (o, meglio, costretto al suicidio) e insieme a lui la moglie. La decisione di Nerone è difficile da decifrare razionalmente e trova il suo fondamento nella depravazione nella quale era caduto e nell’influenza che Poppea e Tigellino esercitavano su di lui già da tempo. Seneca, appena saputa la notizia della sua condanna, disse candidamente agli amici che aveva a cena: «[…] Chi non conosce la ferocia di Nerone? Dopo l’assassinio della madre e del fratello, non gli restava altro che immergere le mani nel sangue di un uomo che si era adoprato per educare il suo cuore e la sua mente»[15].

            Seneca rimane agli occhi di Diderot un pensatore di grandissimo ingegno: «L’antichità non ci ha trasmesso corsi di morale così ampi come quello di Seneca. […] ce ne sono infiniti con i queli è importante familiarizzare, che bisogna trattenere nella memoria, far pesare sul cuore, come fossero altrettante inflessibili regole di comportamento»[16]. E ancora: «Precetti simili o ci vengono da una buona educazione o dobbiamo ricavarli da Seneca. Che il filosofo sia dunque senza posa il nostro manuale: spieghiamolo ai nostri figli, ma non permettiamo che lo leggano finchè non siano in età matura, allorché l’abituale frequentazione dei grandi autori, sia antichi che moderni, avrà messo al sicuro il loro gusto»[17].

            Riprendendo il parallelismo annunciato all’inizio di questo paragrafo, per cui esiste nella storia del pensiero umano una virtù non storicizzabile, che rimane negli antichi come nei moderni, scrive Diderot: «io riservo il titolo di filosofo solo a chi è costantemente impegnato nella ricerca della verità e nella pratica della virtù»[18]. Nell’antichità, come nella modernità, abbiamo a che fare con uomini virtuosi o meno, sempre a contatto con una realtà politica in cui le passioni e i vizi spesso prevalgono sulla moderazione e sulla ragionevolezza. Diderot sembra quasi consolarsi del fatto che anche un grande personaggio come Seneca abbia vissuto le stesse situazioni disdicevoli dei moderni e come per questo sia esempio di moralità e rettitudine per tutti. Salvare Seneca, significa, per Diderot, salvare se stesso.

 

3) Claudio e Nerone: dal governo della virtù al governo delle passioni

            Claudio e Nerone sono due principi molto diversi tra loro, anche se, in estrema sintesi, possiamo dire che furono accomunati dal medesimo destino. Claudio salì al trono di Cesare a cinquant’anni; Nerone a diciassette. Claudio era di spirito mite, anche se assai volubile; Nerone era un tipo passionale, lunatico, ma comunque intelligente. Sia Claudio che Nerone incominciarono il loro principato con grandi e sagge intenzioni e importanti riforme, ma sia per l’uno che par l’altro furono fatali le immense ricchezze e la malvagità di donne e liberti, che stavano a corte. Entrambi da principi si sposarono due volte e con donne di costumi assai discutibili: Claudio con Messalina e Agrippina (madre di Nerone); Nerone con Ottavia e Poppea. Entrambi infine morirono di morte violenta, Claudio assassinato dalla sua stessa corte, Nerone attraverso il suicidio. Diderot rimarca come già alla metà del primo secolo si viveva come un lontano ricordo la grandezza di Augusto, quando la corte imperiale era retta da severi costumi, grande moralità e poca violenza. A partire da Caligola il volto dell’impero cambiò inesorabilmente e solo una guerra civile (quella tra Vespasiano, Otone e Vitellio) seppe ripristinare l’antico splendore.

Diderot dipinge il regno di Claudio come una serie di luci e ombre nel volgere inesorabile verso il tramonto. Era diventato imperatore quasi per caso, in un momento di furore della società romana, che dopo la morte di Caligola, sperava in un ritorno della repubblica. Diderot si mostra piuttosto insensibile dinanzi ai fatti storici accaduti, preferendo di gran lunga analizzare minuziosamente la psiche del sovrano e le influenze che il malcostume, la malvagità, la stoltezza agivano su di essa. Diderot ammette senza riserve che la responsabilità del fallimento del principato di Claudio fu dovuto alla massiccia presenza di liberti senza scrupoli e donne temerarie nella sua corte; ma rintraccia elementi di fallibilità nell’animo dell’imperatore stesso. Scrive infatti Diderot: «alternava acutezza e stupidità, pazienza e collera, circospezione e stravaganza: io lo reputo più debole che malvagio»[19]. La dote migliore del principe, sembra dire Diderot, è la forza, sia quella che ci permette di superare le passioni, quella sulla quale tanto insisterà Seneca con Nerone, sia quella che legittima un potere politico in uno stato in cui l’autorità del principe è priva di legittimazione, ma frutto di un accordo di palazzo: «senza la forza, le altre qualità di un principe sono inutili; senza la dignità, un principe finisce col declassarsi e mescolarsi alla folla, mentre, al contrario, la sua testa incoronata deve sempre apparire al di sopra di essa»[20]. In un altro passo Diderot riprende il concetto riferito all’imperatore: «nei primi anni del regno di Claudio, caratterizzati dall’amore per la giustizia e per il lavoro, la clemenza, la liberalità, e altre rare doti l’avrebbero posto nel novero degli uomini superiori e dei sovrani benefattori, se la diffidenza, la debolezza e la paura non l’avessero consegnato nelle mani degli infami»[21].

Se l’imperatore era debole, a corte c’era qualcuno di molto forte. Messa a morte Messalina, Claudio prese in moglie Agrippina, una scelta che Diderot definisce sciagurata. Anziché atteggiarsi come una tradizionale moglie romana, la nuova consorte operò in modo spregiudicato, assetando la propria ambizione di potere e lo sconfinato amore per il figlio Nerone, natogli da un altro matrimonio ma presto fatto adottare dall’imperatore in modo da assicurarsi una successione indolore. Richiamò Seneca dall’esilio per farne un precettore, si sbarazzò senza troppe remore dei liberti più riottosi, si impadronì di un potere che un imperatore pauroso non sapeva tenere. Agrippina attese solo il momento più opportuno per eliminare anche Claudio, garantendo il titolo imperiale a Nerone e il potere a sé stessa.

Il giovane Nerone, seguito costantemente da Seneca, divenne così il padrone del mondo conosciuto. Nonostante la perfida influenza di Agrippina, unanime fu il giudizio sui primi anni del regno. Diderot a tal proposito cita il giudizio di uno dei più grandi imperatori: «Traiano era solito dire che pochi principi potevano vantarsi di aver eguagliato Nerone quale fu nei primi cinque anni del suo regno»[22]. Diderot non si capacita di come un giovane sovrano possa dissipare la qualità di governo e la stima acquisita nei primi anni: «ma non riesco a comprendere come coloro che hanno visto l’entusiasmo di una folla immensa che li adorava, che hanno udito le acclamazioni del popolo intorno al carro imperiale, che sono stati accompagnati da continue benedizioni dal momento in cui uscirono dalla soglia del loro palazzo fino al momento in cui vi fecero ritorno, possano diventare malvagi, farsi odiare, sfidare le imprecazioni»[23]. Se Claudio era buono ma pauroso, Nerone era malvagio per natura e, secondo Diderot, anche i migliori precettori non avrebbero potuto salvarlo. Non è l’unica occasione in cui il filosofo francese prende le difese di Seneca, respingendo le accuse di che vedeva nella dissolutezza e irrazionalità totale del sovrano, il segno del fallimento senechiano. Seneca, infatti, conosceva molto bene l’animo di Nerone e tentò in tutti i modi di sancire con editti e proclami le prime buone intenzioni del neo-imperatore. Viene spontanea una domanda: per quale motivo Seneca, pur sapendo che un giorno non lontano il suo allievo avrebbe dimenticato i suoi consigli, si ostinava a rimanere a corte con un incarico prestigioso e a stare al fianco del principe? Diderot stesso si pone la domanda, rispondendo in maniera semplice e concisa: «Erano (Seneca e Burro) veramente al loro posto? Ebbene, risposta è no, ma occorse loro tempo ed esperienza per comprendere che l’allievo, in cui avevano confidato non era degno del loro cuore»[24]. Qual è allora il motivo del loro impegno? Diderot offre una risposta che sottintende una sfida ai detrattori di Seneca: «Innanzi tutto osserverò che Nerone regnò per dodici anni e che nei primi cinque fu un eccellente imperatore. In secondo luogo vi chiederò se il filosofo non sia stato benemerito del popolo romano, risparmiandogli cinque anni di calamità, e se un prodigio così straordinario non fosse di per sé motivo sufficiente a tenere viva la sua speranza e a prolungare la sua pazienza»[25]. Secondo Diderot, in sostanza, come già si è visto in un’altra situazione, Seneca agiva come il padre che spera in una conversione del figlio e gli sta accanto con saggi consigli.

L’alterigia di Nerone, i suoi vizi, la sua malvagità continuarono anche dopo l’uccisione dell’invadente madre Agrippina. Il prestigio della corte imperiale era ormai compromesso, soprattutto dopo la morte del precettore Burro e il “pensionamento” del grande Seneca. La congiura dei Pisoni, così brutalmente repressa coinvolgendo anche personaggi innocenti come Seneca, aggravò ancora di più l’autorità politica del principe. Una rivolta militare nelle Gallie e in Spagna misero all’angolo Nerone, che in una notte drammatica trovò a stento il coraggio di uccidersi. Per Diderot si chiude un’epoca, che non è solo la fine della dinastia giulio-claudia, ma la fine di un malcostume generale, che compromise più volte la stabilità dell’impero. Governanti virtuosi sarebbero arrivati decenni dopo.

Claudio e Nerone sono trattati da Diderot, ufficialmente perché i loro regni coincisero con la parte migliore della vita di Seneca, in realtà essi rappresentano anche l’immagine di un’antichità costruita sull’antitesi vizi-virtù, una contrapposizione che certo, osserva Diderot, percorre tutta la storia dell’umanità. Le vicende imperiali ruotano però attorno alla figura di Seneca, che anziché apparire come protagonista di quelle vicende, come in effetti fu, è presentato come un attore occulto, un elemento anomalo in una società talmente arricchita da essersi corrotta. Seneca è la vera immagine dell’antichità, per lo meno quella mitica, dove la misura, la ragione, l’armonia, la pace, la virtù regnano sovrane. Anche la figura di Seneca è però inquadrata in tale antitesi vizio-virtù: il filosofo romano vive nel vizio più estremo ma pratica con grande coraggio la virtù. La sconfitta di Seneca, che non riesce a imprimere quelle riforme dei costumi tanto attese, e la sua inevitabile condanna morte, sembrano concedere il trionfo al vizio. In realtà, il parallelismo tra Claudio e Nerone, casuale quanto azzeccato, dimostra che entrambi, cadendo nel vizio, determinarono non solo la loro fine, ma soprattutto un ricordo spregevole del loro operato In fondo, sembra osservare Diderot, quel popolo romano, che si faceva adulare con feste e spettacoli barbari da imperatori che ritenevano viziosi ma benefattori, in realtà teneva in serbo gli antichi costumi e la gloriosa memoria dei patres.

 

4) L’immagine dell’antichità

            Dal saggio di Denis Diderot emerge un’immagine della modernità controversa e di non di non facile decifrazione, della quale sono tuttavia rintracciabili due elementi. Il primo, fortemente in risalto, è la figura dell’intellettuale a corte e nella società romana in generale. Si è visto come tendenzialmente la filosofia fosse tenuta ai margini della considerazione pubblica, che invece elogiava discipline come la retorica, il diritto, l’eloquenza, cioè quelle più importanti nella vita del foro, cuore pulsante della città eterna. Non è un caso, infatti, che la fama di Seneca derivasse innanzitutto dalle sue orazioni pubbliche, che gli valsero la stima e i primi approcci con personaggi dell’entourage imperiale. Seneca, però, ad avviso di Diderot, fu più accorto e più intelligente dei suoi concittadini. L’arte oratoria, è vero, era tenuta in grande considerazione, ma quale valenza potava avere in una realtà dove la libertà era repressa, dove le decisioni erano nelle mani di poche persone, dove il Senato non aveva nessun potere? «Tenendo pubbliche lezioni, egli si rese più utile alla patria nella sua scuola che non come magistrato. Che cosa avrebbe potuto fare di meglio sotto sovrani come un Caligola, un Claudio, un Nerone, se non infondere nei suoi concittadini il disprezzo per la ricchezza, per le cariche pubbliche e per tutti quei vantaggi gravidi di pericoli che li esponevano al rischio della vita?»[26]. L’ambiente culturale romano sotto l’impero, sotto questa prospettiva, ricorda il mutamento nell’indagine filosofica avvenuto l’indomani della fine dell’indipendenza delle poleis greche, con l’affermazione di filosofie maggiormente attente all’individuo e alle sue necessità. La scelta stoica di Seneca non fu casuale né determinata.

            Il secondo elemento è l’istituto imperiale, inaugurato da Augusto a partire dal 27 a.C.  e rafforzato dai suoi successori. L’imperatore di Roma era di fatto un re, forse anche un despota e in alcuni casi un tiranno, ma tutte e tre le parole erano bandite dal linguaggio comune. Sulla carta si trattava di principato, cioè un governo del primo, del migliore, del primus inter pares tra i senatori romani. Seneca era perfettamente consapevole di tale reciprocità, come lo è Diderot, che mentre racconta i meccanismi di potere all’interno della corte palatina, pensa agli intrighi osservati durante il suo lungo soggiorno russo. Non è un caso, infatti, che mai nel testo vi sia una considerazione, positiva o negativa, nel confrontare il principato con la repubblica, facendo addirittura sospettare che, sebbene imperatori e principi si siano macchiati delle più nefaste immoralità, l’istituto in sé, quello monarchico, s’intende, non sia poi così malvagio, anzi dimostra di essere politicamente valido, così come dimostrano i primi anni dei regni di Claudio e Nerone. Il governo di uno solo è però valido se il sovrano è permeato dalla virtù, che lo conduce verso il bene collettivo e non verso quello personale, anticamera del vizio e della depravazione.

            Il terzo elemento è quello del popolo romano, così grande e così abbrutito con il passare dei decenni e degli imperatori. Diderot, a questo proposito, narra un episodio, quando cioè  Nerone volle passare attraverso la folla su un carro vestito da auriga e suonando la cetra. Il fatto accadde poco tempo dopo l’uccisione della madre Agrippina. Seneca e Burro si aspettavano l’orrore e la riprovazione della folla, cosa che non accadde: «gli applausi tributati da una capitale in cui non esisteva più un solo sentimento di onore, una sola idea di dignità, irritarono ed accrebbero il male. Un popolo, quando non esprime una minacciosa opposizione, è il più seduttore dei cortigiani»[27]. Il popolo romano, in sostanza, non era neanche più in grado di giudicare il loro principe dal punto di vista della virtù, salvo poi ricredersi e, morto l’imperatore, decretarne la damnatio memoriae. Il popolo romano, pur soccombendo il più delle volte e corrompendosi con le donazioni degli imperatori serbava comunque valori e principi propri della Roma repubblicana.

           

           

 

 

 

 

 



[1] Denis Diderot, Essai sur les règnes de Claude et de Néron, et sur la vie et les écrits de Sénèque, pour servir d’introduction à la lecture de ce philosophe, 1782 (trad. it. di Secondo Carpanetto e Luciano Guerci, Saggio sui regni di Claudio e Nerone e sui costumi e gli scritti di Seneca, Palermo, Sellerio, 1987, p. 33).

[2] Ivi, p. 37.

[3] A. M. Wilson, Diderot: The Appeal to Posterity, Oxford University Press, 1957 (trad.it. di Libero Sosio, Diderot: l’appello ai posteri, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 342).

[4]Ivi, pp. 49-50.

[5] Ivi, p. 50.

[6] Ivi, p. 53.

[7] ibidem.

[8] Ivi, p. 82.

[9] Ivi, p. 87.

[10] Ivi, p. 88.

[11] Ivi, p. 89.

[12] Ivi, p. 93.

[13] Ivi, p. 150.

[14] Ivi,p. 157.

[15] Ivi, p. 159.

[16] Ivi, p. 204.

[17] Ivi, p. 205.

[18] Ivi, p. 230.

[19] Ivi, p. 77.

[20] ibidem.

[21] Ivi, p. 62.

[22] Ivi, p. 82.

[23] ibidem.

[24] Ivi, p. 87.

[25] ibidem.

[26] Ivi, p. 55.

[27] Ivi, p. 141.

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