L’ENCICLOPEDIA DI HEGEL

LA QUESTIONE DELL’OGGETTIVITA’

di Stefano Marengo

 

 

Scrive Hegel nei Preliminari alla Scienza della logica: “L’espressione: pensieri oggettivi designa la verità, la quale deve essere l’oggetto assoluto, e non solo lo scopo della filosofia. Ma quell’espressione scopre subito un’antitesi, e propriamente quella intorno alla cui determinazione e validità si aggirano l’interesse filosofico dei tempi nostri, e la questione intorno alla verità e alla conoscenza di essa. Se le determinazioni del pensiero si presentano come un’antitesi recisa, se cioè sono di natura soltanto finita, in questo caso, esse sono inadeguate alla verità, che è assolutamente in sé e per sé; in questo caso, la verità non può entrare nel pensiero. Il pensiero, che produce solo determinazioni finite e che si muove in esse, si chiama intelletto (nel senso più proprio della parola). Più particolarmente, la finità delle determinazioni del pensiero è da concepire in doppia guisa: l’una, che esse sono soltanto soggettive e stanno in contrasto permanente con l’oggettivo; l’altra, che esse, pel loro contenuto che è limitato, persistono nel contrasto così tra di loro, come, e ancor più, verso l’assoluto”[1].

In questo passo Hegel delinea il compito della filosofia: la verità, il pensiero oggettivo, che, inteso nel suo senso più alto, reale e concreto, è Dio[2]. L’obiettivo della scienza filosofica è quello di coglierlo nella sua oggettività e realtà, portandolo dentro il pensiero come concetto, senza ridurlo ad una mera rappresentazione intellettualistica, finita e formale, e per questo astratta, non vera. L’assoluto è infatti inaccessibile solo se ci si ferma all’unilateralità, all’arbitrio e all’astrazione dell’intelletto (e del senso comune), che mantiene e non risolve l’antitesi tra soggetto e oggetto e non giustifica il trapasso dal finito all’infinito, trapasso che è invece la necessità stessa del pensiero, è il pensiero nel suo andare oltre se stesso.

Il problema fondamentale cui si deve far fronte è quindi la questione dell’oggettività e del superamento dell’opposizione soggetto-oggetto.

Questo tema è il punto di partenza dell’Enciclopedia, in cui la filosofia diventa dialettica della totalità, scienza dell’assoluto, per giungere alla verità del pensiero oggettivo, all’Idea, attraverso lo sviluppo della logica speculativa.

Tuttavia, prima di entrare nel merito del sistema, Hegel passa in rassegna “le posizioni che sono state assegnate al pensiero rispetto all’oggettività, per chiarire e mettere in luce il significato e il punto di vista, che qui è stato attribuito alla Logica”[3]. Si tratta cioè di operare una ricognizione critica della tradizione, delineando la genesi del problema dell’oggettività e considerando gli strumenti e i criteri con cui è stato affrontato, onde meglio evidenziare il senso del pensiero enciclopedico.

 

 

Metafisica

 

La prima posizione è quella della metafisica[4]. Il suo è un “procedere ingenuo” che poggia sulla credenza che, grazie alla semplice riflessione (nachdenken), si possa conoscere e determinare la verità, ossia che il contenuto di sensazioni ed intuizioni sia anche il contenuto del pensiero: ciò che è, è conosciuto per il fatto che è pensato; l’assoluto è conoscibile mediante l’attribuzione di predicati. Ma ciò viene praticato del tutto arbitrariamente, senza interrogarsi se la forma del giudizio sia adatta a raggiungere la verità.

Tali predicati sono infatti di per sé qualcosa di limitato, e quindi inadeguati alla rappresentazione dell’assoluto. Vista la loro differenza di contenuto, sono inoltre reciprocamente estrinseci e connessi solo da un semplice “anche” (i giudizi non mostrano cioè una concatenazione e uno svolgimento necessari).

Questa inadeguatezza emerge in tutta la sua portata in quella parte della metafisica, la teologia razionale, che considera il concetto di Dio, le prove della sua esistenza e i suoi attributi.

Non si può infatti dimostrare l’esistenza di Dio o pretendere di dire qualcosa di vero e concreto circa l’assoluto mediante determinazioni finite: così facendo si riduce l’infinito e qualcosa di limitato e mediato. Basandosi su questa logica formale ed intellettualistica, la metafisica diventa dogmatismo: muovendo da determinazioni finite, bisogna necessariamente ammettere che tra due affermazioni opposte circa uno stesso oggetto, una è vera e l’altra falsa. “L’antitesi di realtà e negazione si presenta qui come assoluta; perciò nel concetto, come lo concepisce l’intelletto, non resta infine se non la vuota astrazione dell’essenza indeterminata, della pura realtà o positività, il prodotto morto del moderno rischiaramento”[5].

L’errore consiste quindi nell’applicare il metodo di dimostrazione del conoscere finito al concetto di Dio (immediatamente infinito), riducendolo a qualcosa di condizionato. “Il modo di dimostrazione, che è proprio del conoscere finito, presenta, in generale, questa stortura, che si debba addurre un fondamento oggettivo dell’essere di Dio, il quale diventa perciò qualcosa di mediato da un altro”[6].

La contraddizione emerge poi negli stessi attributi riferiti a Dio, i quali, da una parte, devono essere finiti, in quanto relazioni dell’assoluto con il mondo, e, dall’altra, infiniti, in quanto relazione dell’assoluto con se stesso. “Tale contradizione non permette, da un siffatto punto di vista, altra soluzione che quella, nebulosa, di spingere gli attributi, mediante un potenziamento quantitativo, nell’indeterminato, nel sensum eminentiorem. Se non che, a questo modo, l’attributo affermato è in effetti ridotto a niente, e gli si lascia un mero nome”[7].

 

 

Empirismo e criticismo

 

Nell’analisi della seconda posizione di pensiero Hegel affianca empirismo e filosofia critica.

La necessità di far fronte all’astrazione intellettuale e alla “possibilità di dimostrare ogni e qualsiasi cosa sul terreno e col metodo delle determinazioni finite”[8], porta in un primo momento alla nascita dell’empirismo.

Questa filosofia non ricava la verità dal pensiero ma, in forza della percezione interna ed esterna, la ricerca nell’esperienza.

Ma se da una parte quello dell’esperienza sensibile è il terreno comune a empirismo e metafisica, dall’altra viene sottolineata la distinzione tra la singola percezione e l’esperienza stessa. Il metodo empirico consiste infatti nell’elevare il contenuto delle percezioni a rappresentazioni generali, proposizioni e leggi.

Questa posizione nega il soprasensibile, dal momento che non è possibile determinare ciò che non si trova nell’esperienza, e a cui non possono essere applicate le forme del conoscere finito.

Va poi sottolineata una caratteristica fondamentale del procedere empirico, rispetto a cui ha buon gioco lo scetticismo humiano. Nell’esperienza si ritrovano infatti due elementi: la materia, infinitamente varia, e la forma, che determina l’universalità e la necessità della conoscenza. Ora l’empirismo, limitandosi all’accumulo e alla generalizzazione di percezioni uguali, non raggiunge mai tale universalità, che è ben diversa dalla semplice moltitudine. Esso, inoltre, non è in grado di determinare alcun tipo di necessità: “l’empiria ci offre, sì, percezioni di cangiamenti successivi o di oggetti giustapposti; ma non già una [loro] connessione necessaria[9]. Da questo punto di vista universalità e necessità sono quindi qualcosa di ingiustificato, così come paiono pure accidentali e non oggettivi il contenuto della religione, le norme giuridiche e la morale.

È quindi evidente come anche la posizione empirista non sia in grado di raggiungere la verità e di coglierla nella sua realtà. La conoscenza, ristretta al campo della sola percezione sensibile finita, è determinata solo in base alla soggettività, e non ha quindi nessun tratto di scientificità.

 

Anche per la filosofia critica l’esperienza è l’unico campo in cui si può conseguire conoscenza, intesa però non come conoscenza della verità, ma come semplice conoscenza di fenomeni, ossia della realtà in quanto si dà al soggetto.

A differenza dell’empirismo, questa posizione di pensiero non individua però nella realtà sensibile i caratteri di universalità è necessità, ma li considera forme a priori, ossia appartenenti alla spontaneità dell’intelletto[10].

Questi concetti puri (le categorie kantiane) sono a fondamento dell’oggettività delle conoscenze sperimentali, che si formano coi giudizi sintetici a priori.

Anche in questo caso, la forma del giudizio è considerata l’unico strumento di indagine e di ricerca della verità.

Nella soggettività dell’io conoscente rientra la totalità dell’esperienza, e quindi anche l’oggettività nei suoi caratteri di universalità e necessità, nel suo a priori. A ciò rimane esterna solo la cosa in sé.

Il fondamento dell’oggettività delle categorie intellettuali è individuato da Kant nell’Io penso, l’identità dell’io nel pensiero (appercezione, autocoscienza trascendentale). Questo agisce da vero e proprio centro unificatore del molteplice sensibile, che viene così ridotto ad una connessione originaria: il fenomeno, dapprima “scomposto” nelle sue diverse determinazioni (quantità, qualità, relazione, modalità, secondo le categorie), viene “ricomposto” nella sua unità. Per questa sua funzione, dice Kant, “l’Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni”.

La filosofia critica tuttavia non mostra come da questo io formale possano derivare le categorie, ossia come da questa autocoscienza astratta possano essere ricavati gli elementi oggettivi della conoscenza. “Com’è noto la filosofia kantiana nella ricerca delle categorie se l’è cavata a buon mercato. L’io, l’unità dell’autocoscienza, è del tutto astratto e pienamente indeterminato: come si può dunque giungere alle determinazioni dell’io, alle categorie? Per buona fortuna, si trovano già nella logica comune, empiricamente indicate, le diverse forme del giudizio. Ora, giudicare è pensare un determinato oggetto. I diversi modi di giudizio, già belli e annoverati, porgono dunque le diverse determinazioni del pensiero[11]. Kant non ha derivato le categorie dall’Io originario, ma si è limitato ad operare una sorta di trascrizione dalla tavola dei giudizi della logica tradizionale. In questo modo la relazione tra l’Io penso e le categorie rimane meramente estrinseca, come ha notato Fichte, cui “spetta il profondo merito di aver fatto avvertire, che le determinazioni del pensiero son da mostrare nella loro necessità; che sono essenzialmente da dedurre[12]. Se non si compie questo passo l’oggettività rimane vuota, non vera.

La seconda critica che Hegel muove al kantismo ha di mira la conoscenza della cosa in sé, dell’incondizionato.

In forza dei concetti dell’intelletto e dell’azione dell’io penso, la percezione può essere elevata ad esperienza. Ma le categorie, per sé vuote, risentono della materia data, e possono quindi essere applicate soltanto alla conoscenza sensibile. Esse sono perciò incapaci di essere determinazioni dell’assoluto, del soprasensibile e della cosa in sé.

La Dialettica trascendentale, nella Critica della ragion pura, indaga appunto questo proposito della ragione di andare oltre se stessa, avventurandosi nella determinazione dei tre incondizionati di anima, mondo e Dio.

Nel tentativo di determinare la natura dell’anima la vecchia metafisica cade in paralogismi, scambia cioè determinazioni empiriche con determinazioni di pensiero, e qui vale la critica di Hume, secondo cui l’universalità e la necessità non si riscontrano nella percezione, ma sono piuttosto abitudini.

Nel voler conoscere il secondo incondizionato, il mondo, la ragione si imbatte in quattro antinomie, in contraddizioni che non riguardano l’oggetto in sé, ma la stessa facoltà conoscitiva.

Kant non si accorge però che tali contraddizioni non emergono solo nella cosmologia, ma nella considerazione di tutti gli oggetti, ed è proprio tale opposizione il motore della conoscenza filosofica. “Il punto principale da osservare è, che non solo nei quattro oggetti particolari presi dalla cosmologia si trova l’antinomia, ma piuttosto in tutti gli oggetti di tutti i generi, in tutte le rappresentazioni, i concetti e le idee. Saper questo, e conoscer questa proprietà degli oggetti appartiene all’essenziale della considerazione filosofica: questa proprietà costituisce ciò che più oltre si determina come il momento dialettico della logica”[13].

Il terzo incondizionato (Dio) diventa per l’intelletto un semplice astratto, essendo ogni determinazione solo un limite, una negazione dell’infinito, che in quanto tale va rimossa.

La ragione intraprende due strade distinte per la conoscenza di Dio.

La prima muove dall’essere all’astratto del pensiero. Qui l’essere è il molteplice accidentale della sensibilità: pensarlo significa togliere quanto in esso è di meramente possibile ed elevarlo a necessità e universalità. Questa per Kant è un’inferenza ingiustificata. Egli stesso però non si accorge che questo inferire, questo trapasso dall’accidentalità alla necessità, dal finito all’infinito, questo elevarsi del pensiero sopra il sensibile, costituisce la necessità del pensiero stesso. Negare questa evidenza equivale a negare il pensiero. Del resto, sostiene Hegel, pensare la forma empirica significa già cambiarla in qualcosa di universale.

La seconda via per la conoscenza di Dio procede dall’astratto del pensiero all’essere. Qui Kant si occupa della confutazione della prova ontologica dell’esistenza di Dio, insistendo sulla antitesi di pensiero e essere, poiché, in base alla logica formale dell’intelletto, ciò che è pensato non è necessariamente. A dimostrazione di ciò viene proposto l’esempio dei cento talleri.

È ovvio, obietta Hegel, che il concetto è diverso dall’essere, “ma Dio deve espressamente essere ciò che può essere pensato solo come esistente, in cui il concetto involge l’esistenza. Questa unità del concetto e dell’essere costituisce appunto il concetto di Dio”[14]

Passando dalla dimensione gnoseologica a quella pratica, nel criticismo il comando morale è descritto come il volere che si determina da sé in leggi imperative e oggettive della libertà, fondate sul dover essere. Qui il pensiero è inteso come attività oggettivamente determinante, giustificata dal fatto che la libertà “può essere provata per mezzo di esperienza, nell’apparizione dell’autocoscienza”[15].

A tale pretesa della ragion pratica di dare un fondamento oggettivo e universale al dover essere ben si applica l’induzione scettica. Il diritto e il dovere sono infatti tutt’altro che principi oggettivi ed empiricamente ricavabili; essi dipendono piuttosto dalla soggettività individuale. La necessità di rendere oggettivo il bene, di provare la sua esistenza nella realtà, è un’esigenza che non può essere soddisfatta.

La filosofia critica viene inoltre a trovarsi dinanzi a una netta separazione, un “immensurabile abisso” (Kant), tra gli assunti della ragion pura, che propone una visione della realtà in termini meccanicistici, e i postulati della ragion pratica della libertà umana e dell’esistenza di Dio, che descrivono invece il mondo in un ottica finalistica. Per far fronte a ciò Kant introduce il principio di un intelletto intuitivo, attraverso cui il particolare accidentale viene determinato dall’universale. È il sentimento, mediante cui l’uomo fa esperienza della finalità intrinseca del reale, che la ragion pura esclude dal piano fenomenico ed è solo postulata dalla ragion pratica in ambito noumenico.

È qui, afferma Hegel, che la filosofia critica ha espresso il pensiero dell’Idea, con la rappresentazione dell’universale concreto in se stesso, ed è solo qui che essa può dirsi speculativa. Tuttavia, nella Critica del giudizio, Kant stesso descrive il sentimento della finalità interna come una semplice esigenza umana, un bisogno che non ha valore conoscitivo e teoretico, e si pone non come sintesi, ma come mero punto di incontro tra ragion pura e pratica.

Il fine viene quindi spiegato non come qualcosa di oggettivo, ma come una rappresentazione solamente soggettiva, la cui determinazione è un giudizio appartenente al nostro intelletto. Questa finalità è il bene che viene realizzato nel mondo per mezzo di un terzo principio, Dio, l’assoluta verità, in cui si risolve ogni antitesi (particolare e universale, soggettività e oggettività). Ma questo bene è già inteso, dalla ragion pratica, come nostro bene e nostra legge morale; appartiene alla sola dimensione soggettiva e si rivela completamente privo di determinazioni, astratto, come qualcosa che deve essere senza avere realtà.

L’impostazione della filosofia critica mette capo alla semplice certezza soggettiva senza pervenire alla verità oggettiva. L’errore in cui essa cade sta nel considerare la conoscenza fenomenica come un limite naturale e invalicabile del sapere umano. Ma un limite è riconosciuto come tale solo nel momento in cui viene oltrepassato e negato, poiché le cose sono limitate non in sé, ma per noi, soggetti conoscenti. Inoltre un limite è determinato “solo mediante il paragone con l’idea in quanto esistente dell’universale, di alcunché d’intero e perfetto. È perciò semplice irriflessione il non vedere che appunto la  designazione di qualcosa come finito o limitato contiene la prova della presenza effettiva dell’infinito, dell’illimitato; che del limite si può aver notizia solo in quanto c’è di qua, nella coscienza, l’illimitato”[16].

La filosofia kantiana ha comunque il merito, rispetto all’empirismo più radicale, di ammettere, accanto alla percezione sensibile su cui si fonda il sapere fenomenico, il principio della libertà e il soprasensibile, pur non risolvendone la contrapposizione.

 

 

 

 

Il sapere immediato

 

Nella disamina della terza posizione di pensiero rispetto all’oggettività, Hegel considera il sapere immediato.

Il criticismo, restringendosi alla soggettività, mette capo a un’universalità astratta, che in quanto tale è opposta alla verità concreta e oggettiva. Il pensiero è qui concepito come attività solo del particolare che, avendo come contenuto i semplici concetti dell’intelletto, non è in grado di cogliere l’infinito.

Diretta conseguenza di ciò è che di Dio e della sua verità si può avere solo un sapere immediato (la fede), che si identifica con la ragione, intesa come facoltà dell’incondizionato in opposizione alla finitezza dell’intelletto.

Il  cardine teorico di questa filosofia consiste nell’ammettere la realtà di Dio, dell’infinito, a partire dalla rappresentazione che ognuno ne ha nella coscienza. L’oggettività dell’assoluto è così congiunta alla soggettività del pensiero.

Qui si presuppone che nella coscienza sia contenuta la verità, per raggiungere la quale è necessario abbandonare ogni forma di mediazione. Tale sapere però non si accorge, venendo assunto unilateralmente, di cadere in contraddizione con la mediazione stessa; si illude di oltrepassare la finitezza semplicemente accantonandola, e non considerandola decisiva nel percorso verso la verità.

La mediazione è invece un elemento necessario nello svolgimento logico attraverso cui si perviene all’assoluto; essa approda infatti all’immediatezza della verità solo in quanto supera se stessa e ogni forma finita e limitata, la quale non va per questo esclusa dalla conoscenza, ma piuttosto ricompresa nell’assoluto.

Del resto, nota Hegel, anche nell’esperienza quotidiana ogni verità o conoscenza immediata è frutto di mediazione e apprendimento: “l’immediatezza del sapere non solo non esclude la sua mediazione, ma l’una e l’altra sono così congiunte che il sapere immediato è perfino prodotto e risultato di quello mediato”[17]. Ciò è visibile soprattutto nella conoscenza di Dio, del diritto e della moralità che, per quanto possa essere considerata immediata, deve essere raggiunta attraverso una serie di mediazioni successive necessarie: presuppone cioè un’educazione[18].

Questa filosofia, in particolare nella sistemazione datale da Jacobi, si rivela quindi contraddittoria, aggrappandosi da una parte al sapere immediato come unica verità, e dovendo presupporre dall’altra un processo di mediazione.

Tornando all’assunto fondamentale del sapere immediato, la “connessione originaria e priva di mediazione” di idea soggettiva ed essere, si può vedere come già in ciò sia contenuta la mediazione “realizzante sé in se stessa”. Infatti né l’idea né l’essere presi isolatamente costituiscono verità, ma “l’idea solo per mezzo dell’essere, e per converso l’essere solo per mezzo dell’idea, è il vero[19]: l’unità di determinazioni distinte ha verità e concretezza solo se mediata. Solamente l’intelletto astratto, che considera mediazione e immediatezza determinazioni assolute, non riesce a risolverne il conflitto: ogni conoscenza, e questa è la tesi guida dello sviluppo logico, risulta solo dalla relatività di mediazione e immediatezza, che quindi non costituiscono determinazioni indipendenti e isolate.

Inoltre questa terza posizione di pensiero, avendo come criterio di verità la coscienza soggettiva, di cui eleva il contenuto a “cosa che si trova nella coscienza di tutti[20], ricade nell’equivoco del consensus gentium; ma non si può provare la necessità e l’universalità di qualcosa, di un contenuto, basandosi semplicemente sul sentimento di una maggioranza. Muovendo dai principi del sapere immediato si rischia del resto di legittimare ogni superstizione, idolatria e azione immorale per il solo fatto che queste vengono ritrovate nella coscienza, la quale ne attesta la verità.

Se poi si tengon ferme e si applicano con rigore le tesi di questa filosofia, si giunge di necessità alla ben misera conclusione che nulla si può dire di Dio se non che egli è, poiché una determinazione ulteriore avrebbe come presupposto la mediazione, e metterebbe quindi capo ad un sapere non vero e finito. L’oggetto della religione è così ridotto ad una totale genericità, ad un minimum. L’immediatezza rende il contenuto di questo sapere unilaterale e astratto, in quanto Dio è ridotto ad essenza indeterminata.

L’errore sta qui nel considerare la verità (Dio) come qualcosa di semplicemente immediato; non ci si accorge che tale immediatezza è lo sviluppo di un processo di mediazione, intesa non come mediazione per mezzo di altro, di qualche cosa di estrinseco, ma mediazione della verità in se stessa: questa è la logica speculativa, l’idea (l’assoluto) che si svolge e realizza in sé e per sé. Solo questo metodo è in grado di determinare la concretezza, la razionalità e la realtà dell’incondizionato, pensato non come opposto e isolato rispetto al finito, ma come superamento dello stesso. Tale superamento si configura come conciliazione degli opposti, come Aufhebung, che toglie la tensione della contraddizione e ne conserva la verità, elevandola ad immediatezza.

In ultima analisi, il sapere immediato si presenta come un ritorno ai principi metafisici cartesiani, sia per quanto riguarda l’inseparabilità di pensiero e essere, espressa nell’immediatezza del “Cogito”, sia in merito all’inseparabilità della rappresentazione di Dio dalla sua esistenza, sia per quanto concerne la coscienza sensibile, ossia la coscienza immediata delle cose esterne, che realizza la più bassa e povera delle conoscenze, in quanto l’essere degli oggetti d’esperienza è un’illusione, un’apparenza, qualcosa di solamente accidentale.

Occorre tuttavia far rilevare che, se da una parte la filosofia cartesiana, muovendo da questi elementi, mette capo a uno sviluppo della scienza, dall’altra il sapere immediato si limita a denunciare come non vera la conoscenza mediata, aggrappandosi alla fede in un Dio generico e astratto.

 

 

Messa in luce l’unilateralità dell’intelletto che caratterizza le tre posizioni di pensiero rispetto all’oggettività, sia che procedano attraverso determinazioni finite (è il caso tanto della vecchia metafisica quanto dell’empirismo e del criticismo) sia che si affidino all’immediatezza esclusiva della ragione, si tratta ora di vedere come si possa arrivare ad una conoscenza piena e concreta dell’assoluto, ossia alla determinazione dell’oggettività: questo è il compito della logica e, più in generale, dell’intero sistema enciclopedico. Lo scopo della filosofia è allora quello di uscire dalle secche di un vuoto intellettualismo, riconoscendo nella mediazione dialettica degli opposti (la dialettica soggetto-oggetto) il motore e l’essenza del pensiero.

Questa è l’istanza che anima la prima sezione dell’Enciclopedia, La scienza della logica. Il punto di partenza, il cominciamento, non può essere, qui, né la certezza sensibile, che è mera considerazione del finito, né, tantomeno, l’immediatezza unilaterale dell’assoluto, che rimane astratto e quindi privo di verità. Si tratta invece di collocarsi nell’ottica della totalità, intesa non come aggregato estrinseco e accidentale di conoscenze e determinazioni, ma come sviluppo necessario e mediazione dell’assoluto in se stesso; mediazione in cui le opposizioni escono dal loro isolamento e divengono momenti della totalità stessa.

Il cominciamento è allora di necessità il puro essere, “perché esso è così pensiero puro, come è, insieme, l’elemento immediato semplice e indeterminato; e il primo cominciamento non può essere niente di mediato e di più particolarmente determinato”[21]. Proprio mediante l’articolazione dialettica di questo puro indeterminato l’oggettività trova la sua completa realizzazione (la sua formazione) nella soggettività dell’Idea, che va tuttavia ben distinta da una soggettività solo individuale, in quanto ricomprende in sé i due momenti oggettivi (l’essere e l’essenza) dello sviluppo del concetto.

 

 



[1] G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Laterza, Roma-Bari 2002, § 25, pp. 38-39

[2] Ivi, § 1, p. 3

[3] Ivi, § 25, p. 39

[4] Qui Hegel si riferisce alla metafisica nella forma datale da Christian Wolf, specie nell’opera Vernuenftige Gedanken von Gott, der Welt und der Seele des Menschen, auch allen Dinge ueberhaupt.

[5] Enciclopedia delle scienze filosofiche, cit., § 36, p. 46. È da notare, qui, la polemica hegeliana con l’Aufklaerung, l’illuminismo

[6] Ibid.

[7] Ivi, § 36, p. 47

[8] Ivi, § 37, p. 47

[9] Ivi, § 39, p. 49

[10] E’ il risultato della rivoluzione copernicana di Kant. Nella Critica della ragion pura giunge a maturazione e si compie il passaggio, iniziato con Cartesio, dalla ragione oggettiva alla ragione soggettiva. Questa rivoluzione è in effetti il cuore della modernità. Il riconoscimento della soggettività del soggetto come fondamento della conoscenza scalza il concetto antico e medievale di una ragione oggettiva, concetto per cui il fondamento (ratio essendi e ratio cognoscendi) non è l’individualità dell’io, ma il sommo ente, l’oggetto assolutamente altro dal soggetto (come le idee platoniche o il Dio della teologia cristiana) che complica in sé la verità di ciò che è. Questo spostamento dal concetto oggettivo al concetto soggettivo di ragione può essere meglio compreso se si considera la storia della sentenza per cui la verità è adaequatio intellectus et rei. Nell’ottica della ragione oggettiva, essa deve essere intesa nel senso che la verità è un esser conforme della cosa (o dello stato di cose) all’intelletto divino, ossia al contenuto della mente di Dio. Nell’accezione soggettiva (kantiana), essa significa che la verità è adeguazione della cosa (o dello stato di cose) all’intelletto soggettivo, ossia alla legalità a priori delle categorie e al giudizio che, sul fondamento della soggettività, viene formulato ed espresso.

Non è difficile notare come tutta quanta la filosofia di Hegel, e in particolare i passi dell’Enciclopedia che stiamo qui considerando, sia il tentativo di superare la tensione e la contrapposizione radicale di questi concetti di ragione.

[11] Enciclopedia delle scienze filosofiche, cit., § 42, pp. 52-53

[12] Ibid.

[13] Ivi, § 48, p. 59

[14] Ivi, § 51, p. 66

[15] Ivi, § 53, p. 67

[16] Ivi. § 60, p. 73

[17] Ivi, § 66, p. 84

[18] Educazione come paideia, Bildung. È il processo di formazione, lo svolgimento dello Spirito in cui mediazione e immediatezza, dialetticamente, fanno tutt’uno: l’immediatezza dell’in sé (tesi) trapassa nella mediazione del per sé (antitesi) e la loro verità viene quindi tolta, superata e conservata (è l’Aufhebung) nell’immediatezza dell’in sé e per sé (sintesi). Questo concetto è del resto ribadito dal titolo stesso dell’opera: enciclopedia, infatti, non significa altro che “educazione circolare”, dove l’aggettivo “circolare” designa la circolarità dialettica dello Spirito.

[19] Enciclopedia delle scienze filosofiche, cit., § 70, p. 87

[20] Ivi, § 71, p. 88

[21] Ivi, § 86, p. 101

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