In dialogo con Fromm

Amore, civiltà e futuro[1]

di Emanuele Baiolini

 

 

 

Carlo bussa alla porta dello studio del suo medico

 

Dottore: “Signor Carlo, qual buon vento! Come sta?”.

Carlo: “Male, dottore. Anzi, malissimo!”.

Dottore: “Si sieda e mi racconti tutto. Che cosa, esattamente, la turba?”.

Carlo: “Un dubbio, dottore, un terribile dubbio; anzi, ormai non è più un dubbio, è una certezza”.

Dottore: “Sia più preciso, per cortesia, altrimenti non capisco cosa la fa stare in pensiero. È piuttosto agitato. Vuole un bicchiere d’acqua?”.

 

Fa cenno di sì con la testa

 

Dottore: “Tenga!”

Beve l’acqua d’un fiato

 

Carlo: “Dottore, mia moglie non mi ama più!”.

Dottore: “Che cosa glielo fa pensare?”.

Carlo: “Non lo so esattamente, ma lo intuisco… è una sensazione spiacevole”.

Dottore: “Mio caro Carlo, questo è il solito discorso. Non potrebbe essere esattamente il contrario di quello che lei dice?”.

Carlo: “In che senso, scusi?”.

Dottore: “Oh, perbacco!”.

 

Guarda con aria di stupore l’orologio al polso e si alza di scatto dalla poltrona

 

Dottore: “Non credevo fosse così tardi. Mi dispiace, signor Carlo, ma non posso proprio rimanere qui ad ascoltarla…”.

Carlo: “E mi lascia così?”.

Dottore: “Stavo dicendo, se mi avesse lasciato finire la frase, che non posso rimanere ad ascoltarla perché ho un impegno molto urgente. Tuttavia, non me ne andrei così serenamente se lei non avesse tra poco, anziché il sottoscritto, un interlocutore molto più preparato con cui colloquiare”.

Carlo: “Davvero? E chi sarebbe?”.

Dottore: “Il Dottor Fromm”.

Carlo: “Il nome non mi è nuovo”.

Dottore: “Beh, è molto famoso e deve fidarsi se le dico che sull’amore non potrebbe avere miglior interlocutore”.

Carlo: “Di lei mi fido sicuramente. Ma quando arriverà questo Dottor Fromm?”.

Dottore: “Questo lo deciderà lei. Se lo desidera immediatamente, allora non deve fare altro che ingerire questa piccola pillola blu”.

 

Dal cassetto della sua scrivania estrae un flaconcino di plastica trasparente e incolore, contenente piccole capsule blu oltremare

 

Carlo: “Credo proprio di non aver capito”.

Dottore: “Ora le spiegherò. Fondamentalmente, non c’è niente da capire: lei ingerisce questa capsulina colorata, dopodiché potrà parlare con il suo nuovo interlocutore. È solo necessario che io le applichi alla testa questi elettrodi collegati a quel macchinario sopra alla mia scrivania, e il gioco è fatto. Sarà tutto assolutamente indolore”.

Carlo: “Lei sta cercando di farmi credere che, in realtà, non parlerò con nessuno, o, detto altrimenti, che parlerò con il Dottor Fromm grazie a questi fili e questa pillola blu?”.

Dottore: “Proprio così”.

Carlo: “Ma è sicuro che funzionerà?”.

Dottore: “Ha sempre funzionato”.

Carlo: “Va bene, ma… solo una domanda: chi deciderà quando il colloquio potrà considerarsi terminato?”.

Dottore: “Ovviamente, voi due – sempre che lei non vorrà interromperlo prematuramente”.

Carlo: “Ho capito”.

 

Il Dottore applica gli elettrodi alla testa di Carlo

 

Dottore: “Allora, signor Carlo, a più tardi”.

Carlo: “Speriamo che tutto vada bene”.

Dottore: “Non si preoccupi e si rilassi. Quando si sentirà pronto mandi giù la pillola. Ora devo proprio scappare, arrivederci”.

 

Il Dottore esce dallo studio. Carlo rimane in silenzio per qualche minuto, dopodiché ingerisce la pillola… trascorrono altri minuti…

 

Carlo (a bassa voce): “Non mi sembra stia accadendo nulla di nuovo”.

Fromm: “È proprio qui che si sbaglia, signor Carlo”.

 

Carlo si gira di scatto e all’improvviso si è materializzato un uomo anziano. Ha uno sguardo vivace e porta degli occhiali da vista, molto semplici, attraverso i quali osserva compiaciuto il suo stupore. Osservandolo l’attenzione cade subito sulla sua fronte, ampia e generosa, quasi a preannunciare un’intelligenza viva e sempre pronta, e sul naso aquilino, che gli conferisce un’espressione vagamente aristocratica.

 

Carlo: “Ah! Suppongo sia lei il Dottor Fromm?”

Fromm: “Esattamente. Lei invece deve essere il signor Carlo”.

Carlo: “Sì, sono io… ma come diavolo ha fatto… (viene interrotto)”.

Fromm: “Oh, non iniziamo con le solite domande. Io so benissimo chi è lei e qual è il suo problema”.

Carlo: “Questa situazione mi confonde ancora di più”.

Fromm: “Non si preoccupi di questa faccenda. Quello che è importante è la nostra conversazione. Non mi chieda – come fanno quasi tutti – se esisto veramente, se stanno conversando veramente con qualcuno, se sono vivo oppure morto. Che io sia in carne ed ossa qui seduto davanti a lei o solo nella sua mente, è assolutamente secondario”.

Carlo: “Credo abbia ragione. Se iniziassi a farle domande di questo tipo, poi non penserei più ad altro”.

Fromm: “Bravissimo. Infatti io sono qui per aiutarla a capire”.

Carlo: “Capire cosa, esattamente?”.

Fromm: “Che cos’è l’amore. Non è qui per questo?”.

Carlo: “In un certo senso”.

Fromm: “Vede, qualunque siano le particolari sfumature che hanno assunto i suoi problemi con sua moglie, la cosa più importante è cercare di comprendere cosa veramente è l’amore. La maggior parte della gente pensa che l’amore sia una questione di fortuna: essendo cieca, come si suol dire, dobbiamo solo pregare che ci baci”.

Carlo: “Credo che costoro non abbiano tutti i torti. Molte, moltissime volte investiamo sulle persone sbagliate”.

Fromm: “Vede, quello che lei ha appena detto riflette l’autentica concezione dell’amore nella società di oggi. Non è un caso che lei abbia usato il termine investire”.

Carlo: “Si spieghi meglio, per cortesia”.

Fromm.: “Tutti noi, oggi, pensiamo – e viviamo – l’amore come un affare, come un’operazione che vogliamo portare a termine positivamente e con la speranza che ci possa far fruttare qualcosa. Quando decidiamo di costruire una relazione con qualcuno il nostro obiettivo è quello dello scambio ideale. Io offro qualcosa di mio, della mia personalità, a quella determinata persona e nella mia offerta è già compresa la speranza di ottenere in cambio qualcosa che sia, almeno, di ugual valore. Se questo non dovesse avvenire – se cioè avvertiamo che, in un qualche modo, ci abbiamo perso piuttosto che guadagnato – allora rimaniamo fortemente delusi. Questo modo di pensare è tipicamente capitalistico. L’amore così inteso è un amore economico, un amore – nel senso figurato del termine – che fa economia, ossia avaro. Un amore di questo genere non ha nulla a che vedere con ciò che l’amore vero è”.

Carlo: “Aspetti un momento… lei mi sta dicendo che è sbagliato pensare l’amore in questi termini, ma esso è fondamentalmente reciprocità. Dunque è inevitabile che faccia pensare ad un dare e ricevere, altrimenti si ridurrebbe a sacrificio”.

Fromm: “Signor Carlo, per un secondo ho veramente creduto che lei avesse imboccato la giusta strada, ma all’ultimo istante ha sterzato verso quella opposta. Nonostante tutto, ha sollevato la questione del dare e ricevere, ed è proprio da essa che secondo me è necessario iniziare a ragionare”.

Carlo: “Sono pronto ad ascoltarla”.

Fromm: “Innanzitutto voglio dirle questo: l’amore è la più autentica ed efficace risposta al problema dell’esistenza umana. L’uomo è dotato di ragione e grazie a essa è riuscito ad emergere dal mero regno dell’istinto. Per via di questa sua peculiarità egli è perfettamente conscio di se stesso”.

Carlo: “Cioè consapevole di esistere”.

Fromm: “Consapevole di esistere in quanto individualità e, in virtù di ciò, pure del suo passato, del suo presente e del suo futuro; ma quest’ultimo è un’incognita. In effetti noi uomini possiamo avere solo due certezze: il nostro passato e la morte. Questa è la condizione umana e la nostra vita, tutto sommato, è piuttosto breve. Rifletta poi su questo: siamo nati senza chiederlo e, molto probabilmente, la nostra morte non verrà quando la desidereremo, se mai la desidereremo”.

Carlo: “E tutto ciò è per noi causa di angoscia”.

Fromm: “Precisamente. Si immagini una persona qualunque. È nata senza volerlo e, magari, contro la sua volontà dovrà morire; ma non solo, perché essa è anche consapevole che potrà morire prima delle persone che ama – e si farà quindi carico delle loro sofferenze per la sua stessa morte – oppure che saranno loro a morire prima di lei”.

Carlo: “Sarà banale dirlo, ma la vita a volte è proprio crudele”.

Fromm: “E la crudeltà della vita – come la intende lei – è ciò che fa emergere nell’uomo un profondo senso di solitudine. Noi tutti ci sentiamo soli di fronte a questa ineluttabilità, persi e completamente impotenti nei confronti delle forze della natura e della società”.

Carlo: “Ma non ci può essere una via d’uscita?”.

Fromm: “Mio caro Carlo, certo che c’è una via d’uscita, ed è la volontà dell’uomo di unirsi con i suoi simili”.

Carlo: “Lei vuole dirmi, dunque, che la solitudine è da rifuggire nella maniera più assoluta”.

Fromm: “Assolutamente no”.

Carlo: “Come? Lei mi ha fatto intendere questo”.

Fromm: “È lei ad avere inteso e non io ad averle fatto intendere. Ma se fosse anche come dice lei, il mio discorso è ben lungi dall’essere terminato. Sulla solitudine torneremo più tardi e a momento debito cercheremo di fare maggiore chiarezza”.

Carlo: “Mi affido a lei”.

Fromm: “Grazie per la sua fiducia. Riprendendo il filo del discorso… se riflettiamo attentamente, ci accorgiamo che la storia dell’uomo è costellata da fenomeni di unione. Uno di questi è rappresentato per esempio dagli stati orgiastici delle tribù primitive. Se consideriamo il loro sistema sociale possiamo affermare che tali pratiche rituali sono giuste e virtuose, in quanto sono condivise dall’intera tribù e ogni volta che aumenta la tensione all’interno del gruppo vengono ripetute, giungendo ad una nuova mitigazione della tensione. Ma nella nostra civiltà questa non è una buona soluzione”.

Carlo: “Non rientra nelle nostre pratiche”.

Fromm: “E non rientrando nelle nostre pratiche – come è naturale in una società non-orgiastica – il medesimo ricorso alle droghe e all’alcool è caratterizzato da un senso di colpa e rimorso. Lo stato di ebbrezza che viene ricercato per sfuggire all’opprimente senso di solitudine porta con se l’ombra di quest’ultima. Da qui, la necessità di ricorrere ad un consumo sempre più massiccio”.

Carlo: “Da quanto mi sembra di aver capito, l’uomo ha sempre bisogno di unirsi con i suoi simili”.

Fromm: “Sì, ma anche qui dobbiamo fare delle precisazioni, altrimenti rischiamo di confonderci. Non tutte le forme di unione sono forme di amore e bisogna capire che se parliamo di amore, allora noi parliamo dell’amore inteso come matura soluzione del problema dell’esistenza; in alternativa, non ci resta che fare riferimento a forme di pseudo-amore, ossia a quelle che io chiamo unioni simbiotiche”.

Carlo: “Però il termine simbiosi, nella nostra società, ha generalmente un’accezione positiva. Quando due persone si amano intensamente diciamo che vivono in simbiosi, sottolineando la forza della loro sinergia”.

Fromm: “È vero, ma lei ha solo rilevato un fatto e io credo che il termine simbiosi non possa significare la vera forma di amore. Esso rimanda ad una fusione – symbìosis significa ‘con-vivere’, ‘vivere insieme’ – che nelle concretizzazioni più appropriate prende la forma di una vera e propria castrazione della singola individualità”.

Carlo: “Non riesco a immaginare un rapporto simbiotico di questo tipo. Ho assorbito troppo l’immagine comune che identifica quest’ultimo con l’idea di buon rapporto di coppia. Mio dio! Ora che rifletto non saprei neanche dare una definizione di buon rapporto”.

Fromm: “E questo le accadrebbe se pensasse ad altre mille cose su cui non hai mai veramente riflettuto. Parliamo molto, ma se poi riflettiamo attentamente su ciò che diciamo ci accorgiamo, il più delle volte, di non saper rendere conto dei concetti che usiamo”.

Carlo: “Ci comportiamo come degli automi”.

Fromm: “Lei lo dice sorridendo, come se fosse una situazione surreale, ma temo proprio che questa sia la pura realtà. Prenda in esame la vita quotidiana degli uomini, per esempio la routine del lavoro e del divertimento. Il nostro sistema ha ingoiato l’uomo e lo ha reso una parte della forza del lavoro e persino il divertimento è organizzato; ogni svago è prestabilito dal competente di settore: i libri sono selezionati da biblioteche, i film dagli impresari e lo slogan pubblicitario è coniato da loro”.

Carlo: “Tutto quello che lei dice può essere vero, ma la gamma di scelte che ci è concessa è molto ampia. Alla fine lei può scegliere un libro e scartarne altri – tanto per rimanere sugli esempi che ha fatto – e così per le altre cose. Oggi, forse, abbiamo più libertà di scelta”.

 

Fromm rimane in silenzio qualche istante fissando negli occhi Carlo, poi sorride timidamente

 

Carlo: “Non mi sembra convinto”.

Fromm: “La sua libertà sembra essere quella del carcerato. Egli è libero di scegliere se rimanere sdraiato sulla sua branda o spostarsi all’angolo dove c’è la sedia, oppure libero di correre, di fare pesi o soltanto scambiare qualche parola con gli altri detenuti nelle ore d’aria che gli vengono concesse. Io, invece, voglio sottolineare l’impossibilità di trascendere ciò che è prestabilito. Ma non ho alcuna intenzione di lasciare spazio alla vaga idea di libertà assoluta, perché ci farebbe divagare impropriamente. Torniamo al problema di quelle che prima ho detto essere le unioni simbiotiche”.

Carlo: “Già, e per le quali io ho espresso non pochi dubbi. Sono un po’ confuso a riguardo”.

Fromm: “Benissimo, allora cercherò di essere il più chiaro possibile. Esistono fondamentalmente due forme di unione simbiotica: una forma attiva ed una passiva. Qualunque aspetto esse assumano rimangono comunque forme di pseudo-amore, e, solo apparentemente – proprio a causa della loro ingannevole superficialità – conducono ad un superamento del profondo senso di solitudine”.

Carlo: “Ciò che ha precisato poco fa”.

Fromm: “Esatto, ma non mi stanco mai di ripeterlo perché si può confondere l’attiva unione simbiotica con l’amore vero, in quanto anch’esso è, come vedremo, una forma attiva”.

Carlo: “Non credo di riuscire a seguirla completamente”.

Fromm: “Non si preoccupi, non ho ancora detto ciò che struttura, secondo me, l’amore vero. Quando questo sarà fatto, tra non molto, avremo uno schema con il quale poterlo confrontare con le due forme di unione simbiotica. Ma ora vediamo queste due forme di pseudo-amore”.

Carlo: “Credo sia proprio giunto il momento, e sono ansioso di capire”.

Fromm: “La forma passiva è il cosiddetto rapporto di sottomissione: il masochismo. L’individuo cerca di sfuggire all’angoscia della solitudine e al mortificante senso di separazione sottomettendosi ad un altro individuo che lo domina, lo guida e lo protegge. Il sottomesso è libero da ogni responsabilità e dunque non prende decisioni, né corre rischi. Tutta la sua persona è rimessa all’individuo dominatore e non è in alcun modo indipendente. La sottomissione è un tentativo di risolvere il problema dell’esistenza umana, ma purtroppo non può assolutamente essere la giusta soluzione”.

Carlo: “Potrebbe esserlo, invece, l’unione simbiotica nella sua forma attiva?”.

Fromm: “Vede, abbiamo in mano sempre la stessa medaglia, solo che ora guardiamo l’altra faccia. L’unione simbiotica nella sua forma attiva è sempre sottomissione, ma l’individuo che prendiamo ora in considerazione non cerca di scappare dalla solitudine mettendosi nelle mani di qualcun altro, ma, al contrario, cerca lui stesso di impossessarsi di un’altra persona. In questa faccia della medaglia riconosciamo i tratti del sadismo”.

Carlo: “Mi sembra che sia molto più deplorevole questa seconda simbiosi”.

Fromm: “Certamente nel primo caso il masochista non reca propriamente danno a nessuno, se non alla sua persona. Tuttavia la somiglianza tra i due è molto forte: il sadico è legato al succube così come quest’ultimo al primo. La loro povertà esistenziale è dello stesso tipo: ciascuno non riesce a vivere senza l’altro perché ne ha bisogno come l’aria”.

Carlo: “In un senso più profondo, non esiste una sostanziale differenza tra questi due soggetti: entrambe ottengono una fusione senza integrità”.

Fromm: “E l’amore invece?”.

Carlo: Già… sicuramente dobbiamo allontanarci da tutto questo”.

Fromm: “È esattamente l’opposto di ciò che ha detto poco fa”.

Carlo: “Non c’è una vera e propria fusione tra gli amanti”.

Fromm: “No, anzi, l’amore maturo è fusione, ma a condizione di preservare la propria integrità. Ma, soprattutto, l’amore è attività”.

Carlo: “Indubbiamente”.

Fromm: “Sì, ma vorrei spendere qualche parola in più su questo concetto”.

Carlo: “Non è un concetto abbastanza chiaro?”.

Fromm: “È necessario ripulirlo dal senso comune. Con attività di solito si intende un’azione che conduce ad un cambiamento in una determinata situazione: un manager importante è considerato un uomo attivo, così come un noto avvocato o un pugile professionista. Ora, cosa hanno in comune tutte queste attività?”.

Carlo (sorridendo): “Beh, diciamo che sono attività tendenzialmente molto remunerative”.

Fromm: “Ha perfettamente ragione, ma c’è qualcos’altro”.

Carlo: …

Fromm: “Tutte sono svolte con il fine di conquistare qualcosa, ma quello che non si tiene mai nella dovuta considerazione è ciò che le causa. Provi a pensare, per esempio, ad un uomo avido di denaro… è la sua brama di ricchezza a condurlo all’azione e a renderlo schiavo. Dunque la sua attività in realtà è una vera e propria passività”.

Carlo: “Lei è contro il senso comune”.

Fromm: “Proprio così. Ma si potrebbero fare altri esempi: un uomo che se ne sta inerte a contemplare, con l’unico scopo di arricchire la propria esperienza, viene comunemente considerato passivo. Eppure questa è la forma di attività più alta che esista, ed è possibile esercitarla solo in condizioni di assoluta libertà e indipendenza”.

Carlo: “Libertà, esattamente, da che cosa?”.

Fromm: “Questo l’ha spiegato molto bene un fabbricante di lenti olandese, di origine portoghese [2], vissuto qualche secolo fa. Egli distingue gli affetti in ‘attivi’ (le azioni) e ‘passivi’ (le passioni); con i primi, l’uomo è padrone di se stesso, mentre dei secondi, pur senza accorgersene, ne è schiavo. Le passioni imprigionano l’uomo impedendogli di conservare la propria autonomia, e può quindi capire come la bramosia, l’invidia, la gelosia, l’ambizione, siano da considerare tutte passioni [3]”.

Carlo: “Dunque lei considera l’amore un’azione e non un passione”.

Fromm: “Comunemente parliamo dell’amore come di una passione, e credo che sbagliamo. L’amore, se vogliamo mantenere la terminologia del fabbricante di lenti, è un’azione nel suo significato più pieno. Credo che il modo migliore per rendere quest’idea di amore sia quello di considerarlo un dare e non un ricevere”.

Carlo: “Cosa significa, esattamente, dare?”.

Fromm: “La cosa più importante è non identificare il concetto di dare con il concetto di cedere. Se io cedo qualcosa a lei, vuol dire che me ne privo facendo un sacrificio. Le persone che vivono l’atto del dare unicamente come una cessione dolorosa e mal sopportata sono – se lei ricorda – quelle di cui abbiamo accennato all’inizio del nostro incontro: il loro traguardo è lo scambio ideale e molto difficilmente sono disposte a dare senza ricevere, credendo che se ciò dovesse accadere si ritroverebbero ingannate. Nel novero di queste persone ci sono poi quegli individui che potrebbero essere chiamati, diciamo così, gli ‘eroi del sacrificio’. Essi, per il solo fatto che sentono quanto sia penoso e straziante il dare, ritengono che si dovrebbe dare. Il loro è l’eroismo dell’accettazione del sacrificio, nel quale risiede la vera virtù”.

Carlo: “Ho capito, ma mi spieghi allora quale senso assume il dare per la persona attiva”.

Fromm: “Io, in quanto persona attiva, quando compio l’atto di dare sancisco il mio potere, provo la mia forza, la mia ricchezza e, soprattutto, la soddisfazione – la gioia – che si avverte. Quando io dono, emerge, traboccando, un flusso di vitalità – quasi un senso di onnipotenza – e di felicità”.

Carlo: “Ma questa dimensione di gioia non è detto che si provi solo ad un livello così astratto”.

Fromm: “Perché dice astratto? Questo principio è sempre legato a vari fenomeni specifici. Il più elementare e ovvio è legato alla sfera della sessualità; finora non ne ho parlato, ma ciò non toglie che abbia un ruolo importante nelle dinamiche dell’amore. La funzione maschile, infatti, culmina proprio con l’atto di dare; l’uomo dà tutto se stesso – il suo organo maschile, il suo seme – alla donna. Se è fertile è potente e può quindi esperire la gioia del donare quanto di più radicato alla sua natura. D’altro canto, per la donna si tratta di un meccanismo più complesso e delicato, ma non diverso da quello maschile. La donna compie l’atto di dare contemporaneamente all’atto di ricevere: solo aprendosi alla possibilità di ricevere può dare tutta se stessa accogliendo l’uomo. E non trova che la donna sia l’esempio più meraviglioso di quanto abbiamo visto sinora?”.

Carlo: “In che senso?”.

Fromm: “Beh, semplicemente questo: in essa il ricevere senza dare comporta la mancanza di gioia e sensazione vitale provate da chi sa offrire, invece, la sua persona. Nella donna noi possiamo vedere come il ricevere senza dare non rechi alcuna gioia”.

Carlo:  “Lei mi sta mostrando di quante sfumature si tinge l’esistenza umana, e come il più naturale dei comportamenti umani possa essere una vera e propria fonte di riflessione”.

Fromm: “Credo che ogni cosa nasconda risorse infinite. Ma, se non le dispiace, mi piacerebbe poter continuare questo discorso con lei”.

Carlo: “Ne sarei felice”.

Fromm: “D’accordo. Allora, quello che voglio sottolineare è che chi non riesce a dare – ma, anche, chi non può – soffre intensamente”.

Carlo: “Che cosa vuole dire con chi non può?”.

Fromm: “Semplicemente che nella nostra società ci sono persone che non si trovano nelle condizioni di poter dare, anche se lo vorrebbero. A costoro è negata ogni possibilità di offrire se stessi agli altri”.

Carlo: “Sta pensando ai poveri?”.

Fromm: “Sì, la povertà purtroppo non solo annienta direttamente qualsiasi benessere personale, ma non consente nemmeno la gioia del dare. Non esiste, forse, condizione esistenziale più straziante, ma non vorrei creare fraintendimenti: la sfera più importante del dare non è quella delle cose materiali, ma sta nel regno umano”.

Carlo: “Allora mi spieghi che cosa dà una persona a un’altra”.

Fromm: “Benissimo. Ci addentreremo ora in questioni molto delicate e significative per la vita di ogni uomo e donna. Una persona dà a un’altra persona ciò che ha di più prezioso: una parte della sua vita. E questa piccola porzione è costituita dalla sua invincibilità, da ciò che la rende forte e irriducibile: è la gioia, l’interesse, l’umorismo, la tristezza e tutte le altre espressioni che le permettono di essere vitale”.

Carlo: “E nell’altra persona che cosa accade, a questo punto?”.

Fromm: “La persona che riceve, a sua volta, diviene una persona che dà. È proprio questo ciò accade che di meraviglioso nella persona che dona: oltre alla gioia intrinseca del dare, essa prova anche la gioia di avere reso l’altro un soggetto che dà e che può quindi godere la bellezza del dono”.

Carlo: “È l’amore che produce l’amore”.

Fromm: “Esattamente. Non poteva rendere meglio l’idea. Quindi è inutile affermare che sentire l’amore come un atto del dare dipende dal carattere dell’individuo. Questa è una bella scorciatoia per chi trova faticoso e non gratificante donarsi all’altro; per chi ha paura di dare se stesso, e quindi di amare”.

 

Fromm osserva Carlo che, con aria pensierosa, guarda a terra

 

Carlo: “Sono d’accordo con lei. Ora, però, vorrei chiederle se oltre alla peculiarità del dono vi è qualche altro elemento che caratterizza l’amore”.

Fromm: “Bella domanda. Sì, secondo me possiamo individuare almeno quattro elementi fondamentali. Innanzitutto, l’amore è premura. Con premura intendo l’atto di occuparsi dell’altro, la preoccupazione che ciò che amiamo cresca e sviluppi la sua vita nel migliore dei modi. La premura è presente nella madre che accudisce il suo bambino e spera che diventi sano e forte, ma non c’è differenza anche nell’amore per gli animali o per i fiori. Quindi essa è interspecifica e mira all’incremento della vita, a prescindere da qualsiasi forma assunta. Si ricorda Giona, il profeta biblico?”.

Carlo: “ A dire il vero, no”.

Fromm: “Allora spenderemo due parole su questo insegnamento [4]. Il Signore ordina a Giona, figlio di Amittai, di recarsi presso la grande città di Ninive [5] e di annunciare che i loro peccati sono giunti sino a Lui. Egli però disobbedisce e, sceso a Giaffa, cerca di fuggire imbarcandosi su una nave diretta per Tarsis. Durante il viaggio viene gettato a mare e si ritrova nel ventre di una balena (che rappresenta la solitudine, il risultato della sua mancanza di amore). Il Signore lo salva e gli ordina nuovamente di recarsi a Ninive, e questa volta Giona obbedisce e predica il messaggio divino. Il re e i cittadini della città, spaventati dalla minaccia, si redimono e il Signore, impietosito, risparmia tutti. Tutto questo provoca grande dispiacere a Giona, che sperava in un atto di giustizia e non di pietà: «Signore, non era forse questo che dicevo quand’ero nel mio paese? Per ciò mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato. Ordunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!» [6]. Il Signore lo risparmia e lui se ne va a Oriente, deluso e amareggiato. Alla fine trova un po’ di conforto all’ombra di una pianta di ricino che il Signore stesso ha fatto crescere per proteggerlo dal sole. Ma quando la fa disseccare, Giona è depresso e si lamenta rabbiosamente con il Signore. Il Signore risponde: «Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita, e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?» [7].

Carlo: “Giona pensa solo per sé”.

Fromm: “Proprio così. Infatti quello che Dio vuole spiegargli è che l’essenza dell’amore è lavorare per qualcosa. Vuole che si renda consapevole che amore e lavoro sono inseparabili”.

Carlo: “Si ama ciò per cui si lavora, e si lavora per ciò che si ama”.

Fromm: “E tutto questo, ossia la cura e l’interesse che offriamo agli altri, implica il secondo aspetto dell’amore vero: la responsabilità. Però dobbiamo stare attenti. Oggi, quando parliamo di responsabilità, intendiamo quasi sempre un dovere che ci viene imposto esternamente e per il quale siamo sollecitati a renderne conto come soggetti passivi. Ma la responsabilità è, nel vero senso della parola, un atto autenticamente volontario: è la mia promessa alla richiesta di bisogno dell’altro, è il mio assicurare di rimando la mia presenza. Essere responsabile significa essere pronti e capaci di rispondere”.

Carlo: “Mi sembra però che questa responsabilità, che rappresenta una capacità così notevole dell’uomo che sa mare, possa facilmente degenerare in atteggiamenti fuorvianti; penso, per esempio, al dominio di una persona su un’altra”.

Fromm: “Infatti la linea di confine è molto labile. Però non abbiamo ancora caratterizzato l’amore nella sua complessità. È grazie ad un terzo elemento molto importante che la responsabilità non degenera. Esso è il rispetto. Anche qui vale la pena fare riferimento alla radice del termine: rispetto deriva da respicere, che vuol dire guardare”.

Carlo: “Guardare?”.

Fromm: “Io ho rispetto di te nel momento in cui sono veramente in grado di osservare come sei realmente, e quindi di conoscere la tua individualità. Tutto questo ovviamente non avviene con una semplice osservazione neutra, perché io devo volere, senza nessun senso d’obbligo, la tua crescita spontanea. È evidente inoltre che il rispetto esclude ogni tipo di sfruttamento: quello che desidero profondamente non è la tua schiavitù, ma che tu possa svilupparti secondo i tuoi desideri e i mezzi di cui disponi. D’altro canto la mia capacità di rispettare gli altri è matura solo se mi sono reso indipendente: tu sei la persona che io voglio osservare (per rispettare), non quella che mi sorregge e che mi aiuta a camminare. Se non sono in grado di cavarmela, allora non sarò capace di dedicarmi alla tua persona per capirla, perché il rispetto è un’azione unidirezionale che parte da noi stessi e termina negli altri. Da questo punto di vista la solitudine – di cui lei ha accennato all’inizio [8] – può servire all’uomo, in quanto non rappresenta più una sensazione di angoscia, ma un momento nel quale può cercare di rendersi indipendente dagli altri e aprirsi alla possibilità di amare veramente. Se la solitudine è vissuta così positivamente, colui che ritorna dalla persona amata potrà dirle finalmente: «Ho bisogno di te perché ti amo», anziché: «Ti amo perché ho bisogno di te»”.

Carlo: “Ascoltando quello che ha detto finora mi sembra di aver capito che l’amore è figlio della libertà”.

Fromm: “Secondo me, l’amore è il figlio legittimo della libertà. Ora però dobbiamo fare un nuovo collegamento. Se, da una parte, è necessario avere rispetto per poter essere responsabili, dall’altra parte, non è possibile saper rispettare una persona senza conoscerla”.

Carlo: “Se posso permettermi, questo l’avevo già intuito prima: il concetto di rispetto presuppone la conoscenza”.

Fromm: “Mi fa piacere che abbia intuito questo elemento così importante perché, forse, è quello che più sfugge alla possibilità d’essere spiegato a parole. Mettiamola così: è intrinseco alla conoscenza in quanto tale l’essere animata dall’interesse. Se io non provo interesse, allora è impossibile che venga a conoscenza di alcunché”.

Carlo: “Quindi in che senso io posso conoscere una persona?”.

Fromm: “Conoscere una persona ovviamente non vuol dire saper rendere conto dei suoi caratteri superficiali. Io non conosco Carlo se dimostro di sapere quanti anni ha, di che colore sono i suoi capelli o che taglia porta. Innanzitutto, ho possibilità di conoscerlo se e soltanto se non proietto alcunché di mio su di lui; in altre parole, nessun mio desiderio di come vorrei che fosse Carlo deve distrarmi dal vedere come lui veramente è”.

Carlo: “Ma come si raggiunge questa capacità di conoscenza?”.

Fromm: “Vede, il punto non è tanto come, ma in quanto tempo. Per arrivare ad una conoscenza simile a quella di cui stiamo discorrendo bisogna essere armati di pazienza. Solo con il tempo possiamo conoscere una persona, mentre con la fretta possiamo solo conoscere la taglia dei suoi pantaloni (sorride). Il cammino della conoscenza psicologica è sempre molto lungo e, nonostante tutto, non possiamo mai dire di averlo percorso completamente. La psicologia umana infatti è un abisso insondabile ed è per questo che più penetriamo nell’intimo di una persona più essa ci sfugge. Talvolta questa impossibilità conduce a tentativi disperati di possessione, ma in questi casi non c’è più conoscenza perché il soggetto viene trasformato in oggetto, cioè in qualcosa da avere. È il caso di quella forma di pseudo-amore che abbiamo visto essere il sadismo. Quindi, tirando le somme, non esiste un percorso prestabilito attraverso il quale è possibile conoscere una persona. Occorre semplicemente essere indipendenti e pazienti, perché la persona che amiamo ha bisogno di mostrarsi per come è, e per farlo necessita di molto tempo”.

Carlo: “Carissimo Dottor Fromm, io l’ho ascoltata finora con molto interesse e le prometto di ripensare al concetto di amore che ha delineato perché credo di poter imparare molto a riguardo. Ora però ho una domanda particolare da farle, ed è già da un po’ che mi gira per la testa”.

Fromm: “Sono tutto orecchi”.

Carlo “Lei crede che nella società di oggi sia possibile l’amore?”.

 

Fromm corruga la fronte e fa un lungo sospiro

 

Fromm: “Vede, finora abbiamo visto l’amore senza pensare effettivamente al contesto sociale e civile in cui una persona è inserita. Ma la civiltà esercita un’enorme influenza sul suo carattere. Quindi, prima di rispondere alla sua domanda dobbiamo chiederci se la struttura della nostra società consente lo sviluppo dell’amore. E qui la deluderò perché penso che la risposta sia negativa”.

Carlo: “Sta scherzando, spero? Perché è così pessimista?”.

Fromm: “Vede, non sono pessimista per motivi ideologici. Mi basta osservare semplicemente la società”.

Carlo: “Sia più preciso, per cortesia. Cosa c’è che non va nella nostra società? Cosa impedisce all’amore di svilupparsi pienamente?”.

Fromm: “Mettiamola così: gli uomini sono tante pecorelle che amano stare tutte insieme e formare un bel gregge e ognuna condivide con le altre la paura di allontanarsi e condurre un’esistenza autonoma. La pecorella-uomo, se vogliamo cambiare metafora, è un robot programmato nel pensiero che può sviluppare, nei sentimenti che può avere e nelle azioni che può compiere. La dimensione vitale umana è ormai standardizzata e le relazioni interpersonali sono prive di ogni iniziativa personale, di ogni vitalità. L’uomo oggi non è più un soggetto attivo, ma mera passività. È un oggetto”.

Carlo: “Oggetto di chi?”.

Fromm: “Fondamentalmente del capitalismo che muove la nostra società. Per incrementare se stesso, per ingrassare il suo organismo il capitalismo ha bisogno di sapere quali sono i gusti dell’uomo e non vi è strada più corta che quella di omogeneizzarli, affinché possano essere facilmente previsti e influenzati”.

Carlo: “E noi non siamo ovviamente consapevoli di tutto ciò. Ma è proprio sicuro che la colpa sia del capitalismo? Tanti affermano che è l’unica possibilità per una buona società”.

Fromm: “Il capitalismo potrebbe essere anche l’unica possibilità, ma non essere una buona possibilità. Non deve credere che, se è l’unica soluzione, allora deve essere per forza una buona soluzione. Comunque quello che io voglio dire è che il capitalismo non favorisce sicuramente lo sviluppo dell’amore nella società. L’amore chiama in causa l’uomo, che il capitalismo contemporaneo condanna senza possibilità di appello. Per esempio, oggi assistiamo a un processo sempre più crescente di centralizzazione e di concentrazione del capitale e nelle grandi imprese le immense somme di denaro sono sempre più lontane dalla funzione di amministrarle”.

Carlo: “Quindi le imprese sono sempre più astratte, ma quantomai concrete”.

Fromm: “Proprio così. Oggi non si parla più di un padrone, ma di migliaia di azionisti che possiedono l’impresa e l’attenzione del capitalismo si è spostata dall’individuo a una efficiente e impersonale burocrazia. Comunque, al di là di tutto, a noi interessa il fatto che la società capitalistica non vuole un individuo autonomo, ma il suo contrario. Ma noi abbiamo appena visto come sia una condizione irrinunciabile il fatto che l’uomo sia indipendente, perché solo così può conoscere il suo prossimo e amarlo”.

Carlo: “Insomma, il capitalismo non ci permette di conoscere veramente il nostro prossimo”.

Fromm: “Non ci concede fondamentalmente di amare il nostro prossimo. Infatti la situazione, per quanto riguarda l’amore, corrisponde al carattere sociale dell’uomo moderno. Lei all’inizio ha detto che spesso noi uomini investiamo sulle persone sbagliate [9]. Ma sono solo gli automi, di cui ho accennato poco fa, che investono sui loro simili. Essi non possono amare perché non sono in grado di farlo e riescono solo a scambiare le loro personalità e sperare in un baratto ideale. Hanno una mentalità capitalistica anche nei rapporti interpersonali: la paura è di perderci, di trovare una persona che non sappia dare qualcosa che abbia lo stesso valore di ciò che essi danno a lei. Tutto questo, per fare solo un esempio, è riassunto molto bene nelle consulenze matrimoniali. Sia ben chiaro, parliamo di qualcosa che dovrebbe avere a che fare con l’amore, ma se riflettiamo bene notiamo immediatamente che qualcosa non quadra”.

Carlo (sorridendo): “Eppure sono così perfette le loro pubblicità”.

Fromm: “È vero, pubblicizzano il partner ideale, totalmente stereotipato. L’immagine è quella del marito che deve capire la moglie e esserle di aiuto, farle i complimenti per i piatti saporiti e per il suo nuovo abito da sera. Viceversa, la moglie deve capirlo quando torna a casa da lavoro stanco e di cattivo umore, ascoltare qualsiasi problemi lui abbia e non deve offendersi se si dimentica del suo compleanno”.

Carlo: “Mi sembra tutto troppo prescrittivo”.

Fromm: “Ma è ricercata apposta, tutta questa prescrizione. Si cerca di programmare una relazione senza ostacoli, che non crei problemi per nessuno dei due. Il risultato è che essi rimangono estranei per tutta la vita, senza conoscersi veramente”.

Carlo: “Sono solo due persone che si trattano con cortesia e cercano di farsi del bene l’un l’altra”.

Fromm: “Esatto. Un rapporto di buona educazione, ma nient’altro. Ora, lei può ben capire che una società come la nostra non può lasciare molto spazio a un fenomeno così ampio come l’amore vero. Piuttosto, in un concetto d’amore e di matrimonio come questo lo scopo principale è di trovare un rifugio a un insopportabile senso di solitudine. Il rapporto di coppia si è trasformato così in una sorta di contratto: io e te ci alleiamo contro il mondo, per non rimanere soli di fronte a tutte le difficoltà che esso può scagliarci contro. E questo egoismo a due viene scambiato per amore e intimità”.

Carlo: “Ma cosa c’è di male se due persone non vogliono entrare in conflitto tra di loro?”.

Fromm: “Niente, solo che oggi si ha l’illusione che l’amore implichi necessariamente l’assenza del conflitto stesso. Vede, si tratta di riflettere su cosa si debba intendere per conflitto. Questa credenza è sempre giustificata con un dato di fatto: la lotta che avviene non porta nulla di buono, ma, al contrario, crea solamente uno scambio distruttivo che allontana le due persone. Quindi, si dice, se c’è amore, allora non può esserci conflitto”.

Carlo: “Continuo a rimanere della mia idea: se il conflitto indebolisce solamente la relazione, perché i due amanti non dovrebbero evitare una lotta distruttiva? Forse dovrebbero evitare conflitti su motivi futili”.

Fromm: “È proprio dove volevo arrivare io. Il punto è che i conflitti della maggior parte della gente sono in realtà tentativi per evitare veri conflitti. Sono disaccordi riguardo questioni secondarie, che per la loro stessa natura non si prestano a chiarificazioni e a soluzioni. I veri conflitti non conducono mai alla distruzione di un rapporto, ma lo rafforzano perché c’è la possibilità di chiarificazione”.

Carlo: “Quindi i veri conflitti permettono anche di conoscersi meglio”.

Fromm: “Quando due persone emergono da un confronto genuino hanno più esperienza e maggiore consapevolezza l’uno dell’altro. Il conflitto richiede tempo, perché entrambi hanno bisogno di comunicare e confrontarsi, e alla fine non vi è vincitore né vinto. Se è un vero conflitto, allora non vi possono che essere due vincitori e il premio in palio è l’essersi avvicinati gli uni agli altri ed essersi conosciuti meglio. Quello che è importante è la comprensione, che non vuol dire adeguarsi all’altro. Il conflitto non si risolve con l’arrendersi di fronte alla diversità dell’altra persona, altrimenti si ritorna al punto di partenza. Rinunciare in questo modo vuol dire tollerare, essere educati. Ma abbiamo appena detto che un rapporto di amore non è riducibile a un rapporto di buona educazione. Quindi è necessario comprendere ciò che ci distingue e desiderare che la persona che amiamo continui a esistere così com’è. Solo quando desidereremo che essa non cambi, che non diventi uguale a noi, potremo dire di essere pronti conoscerla”.

Carlo: “Ora credo di avere compreso quale tipo di conflitto possa contribuire allo sviluppo dell’amore”.

Fromm: “Sono soddisfatto, perché è importante che la gente capisca che esso non è apatia, ma una sfida continua. L’amore è un perenne confrontarsi per conoscere e capire le diversità e accettarle per quelle che sono.

Non credo di avere altro da dire a riguardo. Tutto il resto sta nella pratica, nel cercare di rendere concreto tutto quello che abbiamo detto finora”.

Carlo: “E come è possibile? Il suo pessimismo mi ha un po’ spiazzato”.

Fromm: “Questo credo proprio di non poterglielo insegnare. Sta a lei cercare di sviluppare l’amore per sua moglie; si ricordi solo che ci vuole tempo, pazienza e un lunghissimo apprendistato: non si nasce capaci di amare, ma abbiamo in noi ogni potenzialità per farlo. Per quanto riguarda il mio pessimismo, lei non deve farsi condizionare in alcun modo, perché se vuole veramente amare, allora nessuno glielo impedirà”.

Carlo: “Cercherò allora di essere un buon apprendista. Credo che il nostro incontro sia giunto al termine”.

Fromm: “Lo credo anche io”.

Carlo: “Prima di lasciarci, però, mi dica come è avvenuto tutto questo”.

Fromm: “Bastano due libri e un farmaco che faccia dormire un po’. Nella macchina c’è un file con dentro due miei libri, uno uscito nel 1956, l’altro nel 1983 ed è la trascrizione di una serie di interviste che mi hanno fatto tra il 1971 e il 1973; la pillola che ha ingerito, invece, le è servita per poter sviluppare questo nostro incontro e farglielo sembrare perfettamente reale”.

Carlo: “Vuol dire che il nostro incontro è un farsa?”.

Fromm: “Lei può credere quello che vuole del nostro incontro, non ha importanza. Quello che conta è l’amore, perché solo grazie a esso può esserci futuro per la società”.

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Bibliografia di riferimento: 1) Erich Fromm, The Art of Loving, 1956 (tr. it. L’arte di amare. È possibile l’amore nella civiltà repressiva?, Il Saggiatore, Milano 1971); 2) Erich Fromm, Űber die Liebe zum Leben, 1983 (tr. it. L’amore per la vita, Mondadori, Milano 1984); 3) Baruch Spinoza, Ethica, Editori Riuniti, Roma 1988; 4) La Sacra Bibbia, Conferenza Episcopale Italiana, 1974.

[2] Baruch Spinoza.

[3] Spinoza si occupa degli affetti nella parte terza (“Della Natura e della Origine degli Affetti”) e nella parte quarta (“Della Schiavitù Umana, ossia delle Forze degli Affetti), della sua Ethica.

[4] Giona, Vecchio Testamento.

[5] Ninive rappresenta le iniquità dell’Assiria.

[6] Giona, capitolo 4.

[7] Ibidem.

[8] Cfr. p. 5.

[9] Cfr. pp. 3-4.

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