Sulle orme del senso.

Senso e mondo in Heidegger

di Lorenzo Sieve

 

«Che significa senso?»[1]; questa domanda possiede a buon diritto tutta la pregnanza e l’importanza della domanda che titola una conferenza di Martin Heidegger dell’agosto del 1955 a Cerisy-la-Salle come introduzione ad una discussione sull’essenza della filosofia. Il titolo di tale incontro fu: “Che cos’è la filosofia?”. Il testo della conferenze, che venne poi pubblicato in volume nel 1956 dall’editore Günther Neske di Pfüllingen, apre con un’osservazione preliminare che può valere anche per la domanda sopra posta: «Con questa domanda tocchiamo un tema molto vasto, cioè esteso. Perché vasto sembra costretto a restare indeterminato. Perché indeterminato, può essere trattato dai punti di vista più diversi. In ogni caso, giungeremo comunque a qualche risultato»[2].

Per adempiere al compito di una chiarificazione del problema si impone innanzitutto l’urgenza di definire gli strumenti lessicali con i quali ci troviamo a che fare in modo tale da evitare possibili fraintendimenti che possano inquinare la sua comprensione. Per procedere nell’analisi risulta quindi indispensabile porre un chiaro discrimine tra gli ambiti semantici di senso e significato.

Per quanto riguarda la fenomenologia husserliana «La distinzione tra significato e senso risponde alla distinzione tra esperienza (έμπειρία, experientia, Erfahrung) e vissuto (πάθος, affectio, Erlebnis[3]. Con significato si intende il risultato, squisitamente intellettivo, che viene a depositarsi nel giudizio dopo aver avuto esperienza con la cosa interessata. L’esperienza qui intesa assume i tratti dell’assunzione di dati provenienti dalla cosa nell’averla compiutamente attraversata, nell’essersi quindi volto ad essa, e nell’aver così consolidato concettualmente il materiale sensibile da lei fornito; essa «rappresenta il culmine del processo di presa di contatto diretta con le cose»[4]. Con significato si definirà quindi l’informazione cristallizzata e stabile nel giudizio. Di sua pertinenza sarà, conseguentemente, la polarità del cognitivo.

Per quanto riguarda il vissuto, inteso propriamente come esperienza vissuta[5], Erlebnis, si tratta di una relazione caratterizzata da implicazioni vitali nella vivacità delle cose, di tipo partecipativo e fusionale. «È come un porsi fuori dell’umano, un trasferirsi, uscendo da se stessi, in un dominio che converge sull’umano ed è arcano»[6]. Un rapporto fondamentalmente contraddistinto dalla presenza dell’affettività. È un inabissarsi nell’ente, cingerlo e compartecipare con esso alla sua vita; emotivamente contrassegnata si evidenzia come polarità dell’affettivo. Qui «Si può strettamente intendere la matrice oscura della oscura della soggettività, il “sentire”, nella pregnanza delle sue ambigue valenze (sensazione/sentimento; atto/stato)»[7]. Il legame che si instaura con la cosa «si fonda sulla recettività del soggetto, poiché dipende dall’esistenza di un oggetto; duque appartiene al senso (sentimento) e non all’intelletto, che esprime una relazione della rappresentazione con un oggetto secondo concetti, ma non con il soggetto secondo sentimenti»[8]. Il vissuto si identifica quindi come genesi del senso, a significare che il senso è il cuore proprio del vissuto. Tali componenti - l’esperienza vissuta (Erlebnis) e l’esperienza (Erfahrung) - «ci fanno distinguere distintamente designandole, le due essenziali dimensioni del “fenomeno”, ossia di ciò di cui la fenomenologia husserliana vuole essere la “scienza rigorosa”»[9].

Per quanto riguarda la riflessione heideggeriana le cose non stanno propriamente così. Il senso non può essere inteso come nocciolo del vissuto, semmai al contrario il vissuto è possibile in forza del senso. Il senso, in Heidegger si configura anche come senso percettivo: ad esempio la vista. Grazie ad essa è possibile entrare in rapporto con l’ente che mi sta di fronte, comprenderlo e definirlo come disponibilità articolabile, determinandone poi il significato. Il senso si pone come a priori indipendentemente dall’esistenza dell’ente percepibile.

«“Esperienza” (Erfahrung) designa: 1) l’attività dell’esperire; 2) ciò che, tramite essa, è esperito. […] “Esperire” non significa “prendere conoscenza”, bensì il “confrontarsi con le forme di ciò che è esperito, l’affermarsi di tali forme»[10]. Esperienza, intesa in senso heideggeriano, si riferisce quindi al rapporto che si sviluppa nei confronti dell’ente e all’ente stesso. Legame che si sviluppa in forza del senso senza connotarsi immediatamente come conoscenza - significato determinato - ma ponendosi come confronto con le forme di ciò che è esperito. Questo confronto con le forme dell’ente è l’affermarsi di esse, il quale si configura come affermarsi dell’ente ovvero il suo essere accessibile da parte del senso.

Senso e significato si pongono uno innnanzi all’altro, non come termini che vicendevolmente si escludono, ma come modalità di coglimento[11] dell’ente interessato; con maggior precisione si osserva lo stagliarsi di un rapporto filiale tra i due, il quale è il medesimo che lega esperienza e rappresentazione. Il senso è in primo luogo inteso come facoltà percettiva e solamente esso può essere matrice delle idealità: identificandosi come il primo contatto con l’ente; dalla quale proviene lo sgorgare degli elementi che possono venire oggettivati, cristallizzati, concettualmente elaborati, in una loro possibile determinazione. Il significato soddisfa così una pretesa eminentemente teoretica, come sapere oggettivante ed analitico. Si può quindi a buon diritto stabilire il rapporto intercorrente tra i due termini come presa ed articolazione delle possibilità portata avanti dal senso e poi determinate in significato. In altri termini «il significato, vale a dire la riduzione o la elevazione, a seconda dei punti di vista, del senso come darsi originario del mondo, ad un nucleo di significatività logico-semantica»[12].

Questa interpretazione ha assunto nella fisolofia di Heidegger i tratti di un congedo nei confronti del pensiero del maestro Husserl: «Revocata ogni sospensione (epoché) “neutralizzatrice”, ad una filosofia come neutra cognizione universale e necessaria di significati se ne sostituisce un’altra, consistente nell’appassionato coinvolgersi del singolo nell’oggetto del suo comprendere»[13]. Il coinvolgimento che connota il rapporto tra il singolo e l’ente interessato apre l’indagine a un tema di importanza capitale nella riflessione heideggeriana: la situazione affettiva[14]. Questa rappresenta il terreno in cui affonda le radici il senso. Definita un «esistenziale fondamentale»[15] essa ha il compito di schiudere l’esserci nel suo essere-gettato e, dal momento che l’esserci è sempre in una situazione affettiva, rende possibile e connota, sul piano sensibile, l’incontro con gli enti[16]. Il fatto di trovarsi sempre in una situazione caratterizzata emotivamente trova fondamento nell’essere-nel-mondo dell’esserci. Questi si trova da sempre a contatto con una totalità di significati dal momento che per lui è dischiuso un mondo nel quale veicolano contenuti semantici che lo investono nel corso di tutta la sua vita e dal fatto che si trova in una comprensione di essi sempre aperta e rinnovantesi. Ciononostante è dischiuso per l’esserci un ambito diverso dove «le cose, cioè, non solo sono già sempre fornite di un significato in senso “teorico”, ma anche di una valenza emotiva»[17]. L’affettività si delinea come una «pre-comprensione, ancora più originaria della comprensione stessa»[18] dal momento che «la tonalità emotiva ha già sempre aperto l’essere-nel-mondo nella sua totalità, rendendo solo così possibile un dirigersi verso…»[19]. Questo “dirigersi verso” è rivolto all’ente, nei confronti del quale il nostro indirizzarsi è possibile in virtù di quella «prima prensione globale del mondo, che fonda in qualche modo la stessa comprensione»[20], intesa come il modo originario di trovarsi e sentirsi nel mondo. L’occasione di potersi rapportare alle “cose” è resa possibile dalla situazione emotiva dal momento che l’incontro assume i tratti dell’affezione. L’esserci può essere “colpito” dall’ente, ha la possibilità di essere affetto da esso «soltanto perché sono ontologicamente propri di un ente che ha il modo di essere dell’essere-nel-mondo in una situazione emotiva, i “sensi” possono essere “affetti” e “aver sensibilità per” ciò che si manifesta nell’affezione»[21].

Il vissuto (Erlebnis) non è esonerato dalla dipendenza nei confronti della situazione emotiva. L’opportunità di rapportarsi agli enti intimamente e compartecipare alla loro vita è possibile solo sulla funzione aprente della situazione emotiva dal momento che «essa ha così poco il carattere di una comprensione riflessiva che ogni riflessione immanente può incontrare “esperienze vissute” soltanto perché la situazione emotiva ha già aperto il Ci»[22]. Ed è per questo motivo che le radici del senso vanno rintracciate sul terreno della situazione emotiva. Il senso affonda in questa apertura resa disponibile dalla situazione affettiva: il singolo viene ad identificarsi con l’apertura resa disponibile dalla situazione emotiva in quanto «la situazione emotiva è un modo di essere esistenziale fondamentale in cui l’Esserci è il suo Ci».[23]

Ora, dopo aver meglio definito gli ambiti semantici dei termini che si presenteranno nella ricerca, e dopo aver mostrato il terreno in cui l’oggetto d’interesse affonda le proprie radici, si può prendere in esame la definizione stessa che Heidegger dà del senso esprimendosi in questi termini:

 

Senso significa ciò in cui la comprensibilità di qualcosa si mantiene, senza venire in luce esplicitamente e tematicamente. Senso significa ciò rispetto-a-cui ha luogo il progetto primario, ciò in base a cui qualcosa può essere concepito nella sua possibilità così com’è. Il progettare apre possibilità, ossia è tale da render possibile.[24]

 

Questa definizione pone immediatamente all’attenzione una duplice valenza del senso. Nella prima parte dell’estratto il non venire in luce tematicamente, il rimanere in ombra dell’esplicitazione, allude a quell’aver a che fare con l’ente in cui si muove l’esserci, che si identifica come una più generale comprensione dell’ente e che vedremo in seguito definita come manifestatività dell’ente in quanto tale nella sua totalità. Il senso, qui, si configura come un orizzonte di inesplicità, uno sfondo, che deve essere inteso come una «potenzialità di esplicitazione»[25]. Potenzialità che sono possibilità di interpretazione, di articolazione, del darsi degli enti attraverso il senso, che trovano in esso la loro condizione di possibilità come in una «rete di riferimenti mai conclusa»[26]. Entro l’orizzonte del senso abbiamo quindi il collocarsi degli enti compresi, dal momento che il senso si configura, anche, come «sentire in generale o sentimento»[27]. Questa valenza è pensabile come modalità d’accesso agli enti dal momento che «quando con l’essere dell’Esserci l’ente intramondano è scoperto, cioè compreso, diciamo che ha un senso. A rigor di termini, però, ciò che è compreso non è il senso, ma l’ente o l’essere[28]».  “Scoperto” è un modo di accedere a ciò che precedentemente era non scoperto, nascosto: nel configurarsi come facoltà di sentire in generale il senso scopre l’ente, permettendo così l’incontro dell’esserci con l’ente. Un incontro che si mantiene in una dimensione di “indifferenza”, indistinzione, dal momento che i significati non sono ancora stati articolati e il materiale a disposizione ondeggia nella comprensione non determinata degli enti. «Chiamiamo senso ciò che è articolabile dell’aprire comprendente»[29]. Senso è l’articolabile, ma va considerato tale solo dal punto di vista formale, nel senso che inerisce al compreso dal punto di vista strutturale, presentandosi come “griglia” capace di lasciarsi imbrigliare e di imbrigliare i contenuti degli enti.

            Nella seconda parte dell’estratto l’attenzione cade sul carattere di orientamento, di direzionalità che il senso fornisce al materiale della comprensione grazie allo stretto rapporto che intrattiene con il progetto. Il «ciò rispetto-a-cui ha luogo il progetto primario»[30] definisce il rapporto tra progetto e senso: il senso è il confronto-con-che, il rispetto-a-che o per meglio dire, ciò-che-permette il progetto primario. L’ente “concepito nella sua possibilità” si riferisce ad un “qualcosa”, che sottintende il progetto. Ciò non è però evidente, dal momento che l’affermazione può essere riferita ad un “qualcosa” che non richiami immediatamente il progetto, ma valga in modo non meglio specificato, per l'appunto, di “qualcosa” in senso generale. Se così fosse varrebbe dunque una portata ben più ampia del senso dal momento che, «ciò in base a cui qualcosa può essere concepito nella sua possibilità così com’è»[31], farebbe valere il senso come condizione di possibilità di ogni “qualcosa” preso in esame, come l’orizzonte entro cui qualcosa è possibile: «Il progettare apre possibilità, ossia è tale da render possibile»[32] e ancora: «Mettere in chiaro il rispetto-a-che di un progetto significa aprire ciò che rende possibile il progettato»[33]. Il senso esibisce le possibilità dei rimandi degli enti compresi e collocati entro il proprio orizzonte, ai quali fornisce direzionalità ed orientamento, tracciando un sentiero esplicitabile ed attuabile dal progetto.

Il problema della “messa in opera” del senso richiede la trattazione del fenomeno del mondo. L’analisi avrà, ora, il compito di tratteggiare le concezioni del mondo offerte da Heidegger in due opere distinte: Essere e tempo e i concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine ponendo una particolare attenzione al problema del senso e osservando in che modo questo tema viene declinato all’interno delle due trattazioni.

«In Essere e tempo ho tentato una prima caratterizzazione del fenomeno del mondo attraverso una interpretazione del modo in cui noi, innanzitutto e per lo più, ci muoviamo quotidianamente nel nostro mondo»[34]. In questi termini Heidegger commenta la sua indagine precedentemente svolta e definisce, invece, quella intrapresa, ne i concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine come un’«osservazione comparata»[35] volta a sviluppare un’analisi che confronti la relazione dell’uomo, dell’animale, e delle cose materiali inanimate nel loro differente rapporto col mondo; per sapere «come stanno le cose riguardo al resto dell’ente, che è anch’esso, al pari dell’uomo, una parte del mondo»[36]. Seguendo l’itinerario intrapreso da Heidegger la presente analisi si occuperà per prima di mettere in luce la concezione del mondo sviluppata in Essere e tempo.

            La descrizione del mondo presentata in quest’opera si rifà al mondo definito come «non l’ente che l’Esserci essenzialmente non è e che si incontra nel mondo, ma ciò in cui un Esserci effettivo “vive” come tale»[37], ovvero come quel contesto a lui caratteristico di quotidianità, in cui si trova giornalmente affaccendato. Si parla di quotidianità media dal momento che si vuole rimanere nei paraggi dell’esserci, in quanto essa si identifica come «modo di essere più prossimo dell’Esserci»[38]. Questa dimensione viene definita come mondo-ambiente essendo «il mondo più prossimo all’Esserci quotidiano»[39]. Ciò non vuol dire che la via intrapresa in Essere e tempo, per rendere chiaro il tema del mondo «voglia affermare e dimostrare grazie a questa interpretazione che l’essenza dell’uomo consista nel maneggiare cucchiaio e forchetta e nel viaggiare sul tram»[40]; essa si muove in una dimensione entro la quale Heidegger vuole porre ben in rilievo in che modo l’esserci si comporta con l’ente difforme da lui, come si relaziona ad esso ed in che modo si sviluppano le relazioni intercorrenti tra l’esserci e le “cose”, per capire come realmente funzionano le dinamiche tra essi. Queste relazioni con gli enti vengono definite come commercio nel mondo o commercio intramondano. E «il modo più immediato del commercio intramondano non è il conoscere semplicemente percettivo, ma il prendersi cura maneggiante ed usante, fornito di una propria “conoscenza”»[41]. Un “prendersi cura maneggiante ed usante” che esprime tutta la forza del contatto rivolto alle “cose”[42], contatto pratico diretto ad utilizzarle, nel procurarsele ed articolarle, e che si riverbera ciò riverberato in una conoscenza che si configura come eminentemente pratica ovvero volta a farsi pragmatica, in forza del contatto immediato in cui ci troviamo in rapporto con gli enti. Questo sapere viene ad abdicare nei confronti di una posizione teoretico-contemplativa dal momento che «le cose con cui di solito abbiamo a che fare non sono anzitutto gli oggetti di una conoscenza che si determina secondo una forma teoretico-percettiva, non sono, cioè, propriamente delle cose (res) assunte nella “realtà” che è loro propria»[43]. Questa “riduzione” del sapere teoretico a favore di un primato pratico fa del sapere teoretico un di sapere possibile, opzionale, non più eretto a conoscenza prima, come invece veicolato dalla tradizione, ma lo possibilizza come conoscenza che può, si, essere esercitata, previa la scelta di dedicarsi ad esso, ma subordinata alla priorità ed immediatezza della praticità. Innanzitutto e per lo più l’«ente non è oggetto di una conoscenza teoretica del “mondo”, ma è ciò che viene usato, prodotto, e così via»[44]. Secondo l’immagine tradizionale, «l’agire, per non rimanere cieco, dovrebbe applicare il conoscere teoretico; al contrario, il contemplare è originariamente un prendersi cura, allo stesso modo che l’agire ha un suo proprio modo di vedere»[45].

             «Noi chiamiamo l’ente che viene incontro nel prendersi cura: il mezzo (per)»[46]. Questa caratterizzazione dell’ente esibisce la funzionalità e il carattere di rimando. Nella nostra quotidianità, nel commercio intramondano, incontriamo in ogni dove mezzi: «mezzi per scrivere, per cucinare, per lavorare, di trasporto, per misurare»[47]. Il carattere del rinvio è insito in quel “per”: il rinvio del mezzo è definito più specificamente come appartenenza ad una totalità di mezzi, totalità che esibisce le sue catene di rimandi-mezzi ed è essa stessa mezzo di una totalità “maggiore”: «un mezzo isolato non “c’è”. L’essere del mezzo appartiene sempre alla totalità dei mezzi, all’interno della quale un mezzo può essere ciò che è»[48]. Il mezzo è, quindi, sempre imbrigliato in una rete di rinvii ed esso non sarà immediatamente tematizzabile nella sua singola funzione dal momento che «prima del singolo mezzo, è già sempre scoperta una totalità di mezzi»[49] nel suo molteplice intrecciarsi.

All’interno di questi rimandi della funzionalità, l’essere del mezzo non viene esplicitato e presentato, tematicamente, nella esibizione del suo “che cos’è?”, non viene descritto assertoriamente, ma compreso nella sua funzionalità propria. Una matita non viene, innanzitutto e per lo più, capita se la si descrive dicendo di essa che è: lunga o corta, rossa o blu, ma la si apprende immediatamente nella sua funzione di “affare”, Zeug, per scrivere[50]. Il rapporto con essa si confugura, genuinamente, in questo afferrarne l’uso; si è tanto più prossimi ad essa quanto la si comprende entro la catena di funzionalità in cui è inserita. Questo movimento di comprensione dell’ente si muove entro l’orizzonte di senso, dal momento che il materiale compreso, la matita, viene, articolata e quindi determinata, in un suo specifico utilizzo: lo scrivere. L’articolazione del materiale, presuppone la sua acquisizione, da parte del senso. Ora l’ente così aquisito si schiude alla molteplicità delle interpretazioni possibili, ai suoi “com’è?”, il senso si articola in una delle possibilità interpretative, determinata dall’utilizzo di cui si necessita. L’utilizzo vede, teleologicamente, orientare l’interpretazione. Esso rappresenta il fine a cui il foggiare ermeneutico, inteso in questo movimento di prensione, articolazione, ed orientamento, tende in quanto si ha da soddisfare un intervento pratico. Nella determinazione dell’interpretazione assistiamo ad un formarsi di significato. L’ente che era dispiegato nella miriade di interpretazioni possibili, viene a contrarsi in una di esse, ed in questa cristallizzazione vediamo l’assunzione del significato, di un significato specifico; per l’appunto lo scrivere nel caso della matita.

Ciò non significa che prima del formarsi dei significati gli enti non fossero ciò che sono: una matita resta pur sempre una matita, anche se non la si utilizza nello scrivere. Il significato di matita come “affare” per scrivere ci viene veicolato dalla tradizione, ma non in modo ultimo, perentorio e tacitante. L’ente, essendo portatore di sensi possibili, dispone sempre di una rimessa in discussione del significato vigente, che viene a configurarsi come una nuova apertura del plesso di possibilità interpretative, le quali vedranno una nuova cristallizzazione di significato. La prensione iniziale del materiale da dischiudersi, avviene sempre su significati dati, i quali verrano destituiti per far fronte alla nuova apertura della molteplicità dei sensi possibili. In questo modo la matita può configurarsi come un’arma per ferire qualcuno, cessa il significato di “affare” per scrivere, e si riconfigura come “affare” per uccidere, rimanendo sempre la “stessa” matita.

Il senso quindi indica «le possibilità d’azione offerte dal mondo che comprendiamo»[51], le quali verranno determinate a seconda del contesto d’uso. Il mondo si delinea come una fonte di materiale articolabile per rispondere ad una necessità pratica; difatti «l’origine del senso è il mondo che può essere compreso. Qualcosa ha senso in quanto serve a qualcosa. Una penna ha un significato perché serve a scrivere. Qui nel soggetto pratico, che è in un mondo, intuizione e pensiero non si sono ancora separati»[52]; e qui neanche senso e significato. Origine del materiale è dunque il mondo, ma la possibilità d’accesso ad esso è garantita dalla situazione emotiva. Ciò sembrerebbe dare adito ad una deriva soggettivistica, dal momento che è nei confronti dell’esserci che tutta questa struttura si articola, l’urgenza pratica è la sua, ed è lui a dover porre rimedio ad essa. Ciò però sfuma in una peregrina obiezione dal momento che la molteplicità delle interpretazioni, quindi dei significati, ovvero il materiale articolabile trova la sua dimora nel mondo «che, per così dire, ha molti pensieri, cioè un contesto di possibilità determinato da regole di coerenza»[53].

Ciò difende completamente da un’accusa di soggettivismo, ma non significa che sia l’ente a dettare la propria interpretazione. La matita è una matita che serve per scrivere, ma la funzione dello scrivere è determinata dall’esserci, non dalla matita stessa. Così Rorty sostiene che «è come se mi si dicessi che l’uso che faccio del cacciavite per avvitare le viti è “imposto dal cacciavite stesso”, mentre l’uso che ne faccio per forzare dei pacchi di cartone è dovuto alla “caparbia imposizione della mia soggettività”»[54]. Contro la posizione sostenuta da Costa e da Eco. Quest’ultimo risponde dicendo che «questa non è una prova del fatto che qualunque cosa vada bene per qualunque scopo. […] Non posso usare un cacciavite al posto di un posacenere. Posso usare un bicchiere di carta come posacenere ma non come cacciavite»[55]. L’esempio fornito da Eco non risolve la questione. Il processo di prensione, articolazione, ed orientamento, operato dalla circolarità ermeneutica è già stato attuato da Eco nella formulazione dell’esempio. Egli ha dischiuso i sensi possibili del cacciavite, articolando una intepretazione dove il cacciavite è un “affare” che serve per contenere la cenere, e la così determinato. Il movimento è avvenuto compiutamente. Ciò che fa si che il cacciavite sia inutilizzabile come posacenere non dipende dal processo di comprensione-interpretazione; in esso manca la componente orientativa dal momento che l’istanza pratica non è stata soddisfatta, ma ciò non giustifica la condanna dell’interpretazione nella sua totalità. Quel significato di cacciavite non corrisponde al bisogno che l’esserci ha. Mentre risalendo la china del processo di articolazione e determinazione del senso in significato ed esplorando dall’altura del senso i significati possibile di quell’ente, il cacciavite, si potrà vedere se ha altri possibili significati d’impiego per quella situazione e nel caso in cui si mostri del tutto inadatto verrà scartato a favore di un altro ente. Per esibire la sua inadeguatezza, Eco lo ha già interpretato e, quindi, non può che porsi all’interno del processo di articolazione. Esso si pone a priori rispetto alla determinazione della possibilità d’azione che rappresenta il momento conclusivo dell’interpretazione; così come il senso rappresenta l’a priori del significato.

Tornando alla caratterizzazione del mezzo in Essere e tempo, un’ulteriore struttura è di grande importanza per la presente analisi: la visione ambientale preveggente. «Il commercio col mezzo sottostà alla molteplicità dei rimandi costitutivi del “per”. La visione connessa a un disporsi del genere è la visione ambientale preveggente»[56]; la quale rappresenta quel sapere proprio dell’atteggiamento pratico, che non è presente in un atteggiamento di tipo teoretico-contemplativo. Essa è indirizzata da una comprensione generale, un colpo d’occhio globale, sulle possibilità di rimando dei mezzi, «da una sorta di anticipazione dei possibili collegamenti attraverso cui essi dinamicamente si rivelano»[57]. Da questa definizione emerge chiaramente l’assonanza con il senso. Come il senso si identifica come il plesso disvelante dei significati possibili di un mezzo, che ricordiamo essere le sue possibilità d’azione, così la visione ambientale preveggente esibisce i rimandi possibili degli utilizzabili. La visione ambientale preveggente fornisce ad essi i rinvii possibili della loro utilizzabilità in forza di una percezione preliminare di ciò che avviene nel mondo circostante. L’assonanza tra senso e visione ambientale preveggente si configura come identità, dal momento che i significati possibili dei mezzi, determinati succesivamente all’articolazione del senso, equivalgono ai rimandi possibili degli utilizzabili. I rimandi possibili vengono automaticamente chiamati in causa quando un significato è determinato. La matita che assume il significato di affare che serve per scrivere rimanda automaticamente al foglio, al temperino, alla scrivania etc. «La peculiarità di ciò che è innanzi tutto utilizzabile sta nel ritrarsi in certo modo nella propria utilizzabilità, per essere così autenticamente utilizzabile»[58]. Questo “ritrarsi nella propria utilizzabilità” si delinea come un ritirarsi nelle proprie possibilità d’azione le quali, esibite in virtù del senso, ricevono una doppia determinazione: di significato e di rimando; così da poter assumere una “autentica utilizzabilità” ed essere tematicamente inserite nelle catene dei mezzi.

La visione ambientale preveggente fornisce uno sguardo d’insieme dal momento che «ciò con cui il commercio quotidiano ha innanzi tutto a che fare non sono i mezzi per attuare l’opera, ma l’opera stessa. La cosa da fare è l’oggetto primo del prendersi cura e costituisce quindi l’utilizzabile. L’opera raccoglie la molteplicità dei rimandi entro cui si incontra il mezzo»[59]. Ciò sta a significare che il mezzo non è esibito tematicamente in maniera immediata bensì che esso è sussunto all’opera entro la quale è imbrigliato nella sua rimandatività. Prima di incontrare la matita nel suo significato di “affare per scrivere” e i suoi rimandi al foglio, al temperino etc., incontriamo l’articolo da scrivere che è configurabile come opera entro la quale quei mezzi rinviano l’uno all’altro[60]. La visione ambientale preveggente si relaziona all’opera ed in essa esplicita i possibili rimandi degli strumenti. Ciò è, per l’appunto, il compito svolto dal senso. Esso esibisce le possibilità interpretative dei mezzi, relazionandosi dapprima con i possibili significati dell’utilizzabile, e cioè con i possibili rinvii, che successivamente verranno determinati. La visione ambientale preveggente e il senso si configurano così come i due fenomeni principali del rapporto con i mezzi. Tutti e due costituiscono la spirale che vede dipanare dai caratteri di preliminarità e generalità delle possibilità di significato e di rinvio i concreti rimandi e significati.

Ora l’analisi volgerà alla trattazione del problema del mondo esposta ne i concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine che ricordiamo essere tratteggiata attraverso una via comparativa volta ad evidenziare i peculiari rapporti intercorrenti col mondo da parte dell’uomo, dell’animale e delle “cose” materiali inanimate. Qui l’interesse di Heidegger si rivolge a più protagonisti. Egli non indaga, immediatamente, la specificità dell’uomo nel suo legame con il mondo; bensì procede gradualmente partendo dalla trattazione del rapporto intercorrente col mondo da parte dell’animale, successivamente stabilisce come stanno le cose per gli enti materiali inanimati ed infine fa chiarezza sulla peculiarità della relazione tra uomo e mondo.

L’uomo è caratterizzato dal fatto di trovarsi in un mondo, di essere posto in una totalità, egli però non si limità ad assommarsi agli enti presenti nel mondo, è sì parte di esso, ma non si esaurisce nell’essere un tassello della sua costruzione. «Bensì l’uomo è posto di fronte al mondo. Questo esser-posto è un avere il mondo come ciò in cui l’uomo si muove, con il quale si confronta, che domina e al tempo stesso serve e al quale è assegnato»[61]. Da questa duplice caratterizzazione dell’uomo, come parte e come “servo e signore” del mondo, emerge, di contro, la necessità di informarsi sul resto dell’ente, animali ed enti materiali inanimati; di sapere come stanno le cose per essi: «sono, a differenza dell’uomo che ha mondo, soltanto parti del mondo? Oppure anche l’animale ha mondo, e come? Nello stesso modo dell’uomo oppure altrimenti? Come va concepita questa alterità? Come stanno le cose per la pietra?».[62]

Heidegger desume da questa problematica delle iniziali caratterizzazioni dei rapporti intercorrenti con il mondo. Esplicita delle differenze che fissa in tre tesi: «1. la pietra (l’ente-materiale) è senza mondo; 2. l’animale è povero di mondo; 3. l’uomo è formatore di mondo»[63]. Queste indicazioni sono le linee guida dell’analisi sviluppata da Heidegger. Le tre tesi fanno rimerimento ai possibili protagonisti della relazione con il mondo e «per muoverci all’interno del nostro tema dobbiamo dunque già avere a disposizione delle differenze essenziali tra questi tre tipi di enti»[64]. Ciò non è impresa facile, dal momento che già il primo distinguo che ci si pone innanzi è tutt’altro che immediato: Come determinare la differenza tra animale e uomo? Si potrebbe pensare che la risposta risiede nella presenza della ragione nell’uomo e nell’assenza di essa nell’animale. Ma la domanda è appunto: «cosa significano qui ragione e assenza di ragione?»[65] Ai fini dell’analisi è la presenza della ragione ciò che urge ad esser posto come discrimine? «Anche qualora ciò [il significato della ragione], sia stato chiarito, rimane incerto se proprio questa differenza sia la cosa più essenziale»[66]. Si deve percorrere un via diversa data la specificità del problema del mondo, esso richiama una distinzione che affonda le radici in profondità abbracciando l’intera essenza del protagonista in questione e, quindi, anche dei suoi rapporti con il mondo. Diversamente dal considerare una singola specificità, come nel caso della ragione, nella modalità di distinguo esclusivo. «Dobbiamo poter dare ragguagli non su come animali e uomini si differenzino tra loro riguardo ad un qualche aspetto, bensì su cosa costituisca l’essenza dell’animalità dell’animale e l’essenza dell’esser-uomo dell’uomo»[67].

Seguendo il percorso intrapreso l’essenza della animalità dell’animale è determinabile se preventivamente è delucidato che cosa costituisce la «vitalità del vivente»[68]. Emerge ora una prima caratteristica dell’ente materiale inanimato rintracciata in maniera comparativa rispetto all’animale. La vitalità del vivente è contrapposta al senza-vita, il quale porta con sé l’impossibilità del morire, dal momento stesso che non vive. «Una pietra non può essere morta, perché non vive»[69]; essa rientra in una dimensione diversa dalla vitalità del vivente in quanto non partecipa della necessità del morire, e di contro, di quella del vivere. Venendo meno al fatto che «i vivi sono generati dai morti non altrimenti che i morti dai vivi»[70] .

«Iniziamo la caratterizzazione comparata puntando nel mezzo, alla questione di cosa significhi: l’animale è povero di mondo»[71]. Tale tesi deve essa stessa essere dipanata portando avanti, seguendo l’istanza metodologica di un procedere comparativo, le altre definizioni relative all’uomo e all’ente materiale inanimato. Nella tesi “l’animale è povero di mondo” emerge distintamente la caratterizzazione della povertà di cui l’animale è portatore. «Che cosa significa “povero”? In che cosa consiste l’essenza della povertà?»[72] La povertà è immediatamente pensabile come opposto di ricchezza, un “meno” rispetto ad un “più”, una minore quantità contro una maggiore quantità? Dal momento che «secondo il significato abituale, “povero” e “ricco” riguardano la consistenza patrimoniale, il possedere»[73]? Nel caso specifico dell’argomento del mondo, si potrebbe sostenere che povertà indichi una minore quantità di enti compresi nel mondo dell’animale rispetto alla richezza, alla maggiore quantità di “cose”, del mondo dell’uomo. Questa lettura, però, non coglie ciò che Heidegger definisce come «senso autentico»[74] della povertà. «Il povero non è affatto semplicemento “meno”, “il minore” nei confronti del “più” e del “maggiore” […] bensì essere povero significa fare a meno»[75]. Questa dimensione del fare a meno porta in sé possibilità di determinazione diverse:

 

a seconda di come il povero fa a meno, cioè di quale condotta mantiene nel fare a meno, di come si pone nei confronti di esso, di come considera il fare a meno, in breve, a seconda di che cosa fa a meno e soprattutto di come ne fa a meno, cioè di come si sente nel farlo.[76]

 

L’insistenza sulla modalità, sul come, richiama immediatamente l’attenzione. Heidegger sottolinea di continuo questo primato dell’atteggiamento, della condotta, la quale caratterizza essenzialmente la povertà. Povertà che non è determinata da un “meno” rispetto ad un “più”, ma che solo secondariamente può assumere un’accezione del genere. Essenzialmente è il come ci si mantiene innnanzi alla situazione del fare a meno, come ci si pone di fronte ad essa. Sono distinguibili, quindi, due componenti della povertà: il che cosa di cui si fa a meno, la componente “quantitativa”, il “meno” e il “più”, e la parte costitutiva di essa, il fare a meno, inteso come condotta, come modalità di porsi davanti al fare a meno del che cosa. La tesi sull’animale suona: “l’animale è povero di mondo”; trasferendo le considerazioni fatte all’interno della tesi, risulterà: “l’animale fa a meno del mondo”. Ciò pare accostare questa determinazione alla tesi riferita all’ente materiale inanimato, considerato nel suo non avere mondo. Questo non deve trarre in inganno, dal momento che il non avere mondo rientra nell’essenza costitutiva della “cosa” materiale inanimata. «Assenza di mondo è una condizione costitutiva della pietra, tale che la pietra non può nemmeno neppure fare a meno di qualcosa come il mondo»[77]. Alla pietra non è data povertà di mondo, essa non può essere in una condotta davanti, in un porsi d’innanzi, alla mancanza del “che cosa”. Essa non ha alcuna accessibilità nei confronti di ciò che la circonda[78], non sente, non ha senso, non lo possiede come caratteristica fondante. Per meglio precisare non ha accesso né disponibilità nei confronti del mondo, non può appropriarsi di alcunchè, non è caratterizzata da alcuna apertura comprendente nei confronti del mondo che le permetta di articolare delle disponibilità. Essa si trova a sussistere come semplice-presenza. «Essa è – ma al suo essere appartiene l’essenziale mancanza di accesso all’ente in mezzo al quale, secondo il suo modo di essere (sussistenza), è»[79]. In questo suo essere essa non ha senso; viene a cangiarsi di significatività, e ad assumere la caratterizzazione di utilizzabile solo dal momento in cui è compresa nella disponibilià dell’esserci. Solo così assume un senso che diverrà significato, solo così entra nella articolazione mondana che la svilupperà come mezzo fornendola di un significato determinato.

Ritornando alla caratterizzazione dei rapporti tra animale e mondo si farà ora più chiaro il legame che si pone tra esso e gli enti materiali inanimati. «Quando diciamo che la lucertola sta sulla lastra di roccia, dovremmo cancellare la parola “lastra di roccia”, per indicare che ciò su cui essa giace, le è sì dato in qualche modo, ma tuttavia non le è noto in quanto lastra di roccia»[80]. Voler cancellare la parola “lastra di roccia” equivale a voler elimininare dalla comprensione della lucertola significati possibili della roccia in questione. Quest’ultima è data alla lucertola solamente come “ciò su cui giacere”. La lastra di roccia sulla quale essa si posa «non è per la lucertola una lastra di roccia che possa essere oggetto di ricerca mineralogica»[81]. Vi è un incontro tra l’animale e l’ente configurato come incontro nel e del senso; ma tale contatto è all’insegna di significati predeterminati dettati dalla povertà di senso. Ciò significa che la disponibilità dell’ente è presente, infatti la lastra di roccia è data alla lucertola,  ed essa  rientra nella considerazione quantitativa della povertà. Tale ente è pero significativamente predeterminato dalla povertà, intesa come atteggiamento, come condotta di fronte alla mancanza del “che cosa”. Dal momento che la lastra di roccia è solamente “ciò su cui giacere” e non può assumere il significato di oggetto di ricerca scientifica. Il ruolo del senso come disponibilità articolabile è quindi impoverito nella sua funzione. Il plesso di significati possibili che rientrano nella comprensione dell’ente, la lastra di roccia, è drasticamente costretto in determinate articolazioni di senso. Non c’è nell’animale la dischiusura del senso culminante in significati possibili; i significati, le interpretazioni, sono costrette dal momento che la comprensione dell’ente si mantiene in «determinate relazioni […]: con il suo nutrimento e con la sua preda, con i suoi nemici, con il suo partner sessuale»[82]. Heidegger fornisce un altro illuminante esempio in merito:

 

Il filo d’erba sul quale un maggiolino si arrampica correndo, non è per quest’ultimo un filo d’erba, né una possibile parte di una balla di fieno che il contadino dà da mangiare alla sua mucca, bensì il filo d’erba è un sentiero per maggiolini, sul quale esso non va in cerca di un qualcosa da mangiare, bensì di cibo per maggiolini.[83]

 

L’accessibilità all’ente è data anche all’animale e non è una prerogativa umana. Egli è mosso dal comportamento istintuale e si relaziona ai significati esclusivamente sotto questa necessità[84]. Si relaziona a significati. Significati poveri, in quanto non è disponibile all’animale la rimandatività nella totalità dell’ente, ma questo non gli impedisce di disporre di un’apertura, anche se “minore”, rispetto a quella umana. Se si sostenesse, come Costa, che gli animali non  dispongono di significati[85], verrebbe meno l’apertura preliminare del senso anche nella sua accezione eminentemente percettiva, nel venir colpiti dall’ente. L’animale ha accesso all’ente ed in questo suo ingresso sviluppa interpretazioni che culminano in significati poveri, sprovvisti di una rimandatività dell’utilizzabile in senso ampio e dettati dalle esigenze dell’istinto.                             

Caratterizzando il tema del mondo si può stablire che «mondo non significa accessibilità dell’ente, bensì mondo vuol dire tra l’altro accessibilità dell’ente in quanto tale»[86]. Accessibilità che si configura come manifestatività dell’ente in quanto tale, in quanto ente. Determinazione che va ad arricchire la tesi relativa all’uomo nel suo essere formatore di mondo. Considerazione che si pone come discrimine forte nei confronti dell’animale e che caratterizza l’uomo in modo peculiare. Per chiarire il significato di “manifestatività dell’ente in quanto ente” si deve analizzare l’asserzione delucidando, al meglio possibile, che cosa si intende rispettivamente per: “manifestatività” e per “ente in quanto ente”.

Consideriamo ora come meglio specificare il termine “manifestatività”. «Dov’è manifestatività dell’ente in quanto ente, la relazione con questo ha necessariamente il carattere dell’entrarvi-in-relazione nel senso di lasciar-essere e non-essere ciò che viene incontro»[87]. Nell’entrare in relazione all’ente è presupposto che l’ente in un certo qual modo si dia all’uomo. Nel darsi l’ente deve inoltre consentire l’accesso a se stesso; accesso che viene condizionato dall’atteggiamento che l’uomo ha nei suoi confronti a seconda che tale condotta sia disvelante o velante, ovvero che lasci essere o non essere l’ente nel suo farsi incontro all’uomo. «Di conseguenza mondo non significa l’ente in sé, bensì l’ente manifesto? No, bensì la manifestatività dell’ente di volta in volta effettivamente manifesto»[88]. Il darsi e rendersi accessibile da parte dell’ente è la sua manifestatività. «Ma come stanno le cose riguardo a questa manifestatività dell’ente? Dove e come è? È un’escrescenza che l’ente stesso mette fuori?»[89] La manifestatività accade con l’ente stesso. Si configura nel genuino darsi e come possibilità d’accesso all’ente; è la modalità della sua presenza. Modalità che è esibita dal “come” del suo essere dal momento che «l’ente ci è manifesto in modo molteplice: natura materiale, senza-vita, vivente, storia, opera dell’uomo, cultura»[90].

L’osservazione in merito alla manifestatività si riferisce all’ente considerato in quanto tale. Soffermiamoci ora sul significato di “ente in quanto ente”. Cosa si intende con questa espressione? Che può voler dire considerare qualcosa in quanto qualcosa?

 

Ente in quanto tale, in termini formali: “qualcosa in quanto qualcosa”, ciò che all’animale è per natura precluso. Soltanto dove, in generale, l’ente è manifesto in quanto ente, sussiste la possibilità di sperimentare questo o quell’ente determinato in quanto questo e quello sperimentare in senso lato, che va oltre la mera cognizione: fare esperienza con esso.[91]

 

L’ente è considerato in quanto ente all’interno del rapporto che l’uomo possiede con il mondo, nel suo peculiare rapportarsi alle “cose”. In questo luogo vi è l’incontro con l’ente in quanto tale. È una peculiarità umana ed esclusiva. All’animale questa apertura non è data. L’ente considerato in quanto tale è la condizione in virtù della quale è possibile sperimentare effettivamente le “cose”. Aver con esse un rapporto che vada al di là della dimensione puramente cognitiva e si configuri come un fare autenticamente esperienza con esse. Un “alle cose stesse!” che avviene grazie alla funzione del senso che abbraccia l’ente permettendo l’emersione del suo carattere essenziale. Cioè della sua caratterizzazione propria di ente. Tale connotazione specifica consente l’articolabilità, il suo poter essere significato determinato. Quando gli enti vengono illuminati dalla comprensione si dischiude il loro tratto fondamentale di “cose”; viene messo in luce il carattere di significato possibile, il loro poter essere “mezzo per”. Riallacciandosi così agli argomenti sviluppati in Essere e tempo l’ente, la “cosa” considerata nel suo essere a disposizione dell’articolabilità dell’esserci, assume i tratti dell’essere “mezzo per” e si configura come utilizzabile rientrando a pieno titolo nella dimensione della Zuhandenheit. Tale determinazione esibisce il carattere di possibilità d’impiego degli enti, la loro vera essenza. L’essere, quindi, strumento, utilizzabile da parte dell’esserci. Quest’ultimo comprende l’ente nella sua utilizzabilità, come “mezzo per” inserendolo all’interno della rimandatività delle opere. L’ente può anche essere considerato nel suo essere semplicemente presente, isolandolo dalla rimandatività funzionale, e facendone oggetto di indagine eminentemente teoretico-contemplativa. È così che la roccia può divenire un affare su cui poggiarsi, per colpire qualcuno (Zuhandenheit), o un oggetto di indagine mineralogica (Vorhandenheit).

La manifestatività dell’ente in quanto ente non riguarda la singola “cosa” tematicamente sperimentata. Bensì essa è legata all’opera entro la quale l’ente è inserito, dove in essa esibisce la sua componente di rimadatività. Per questo motivo la tesi sul mondo inteso come l’accessibilità dell’ente in quanto tale va arricchita di un’altra componente.

 «Il mondo non è il tutto dell’ente, non è l’accessibilità dell’ente in quanto tale, non è la manifestatività dell’ente in quanto tale che sta a fondamento dell’accessibiltà, bensì mondo è manifestatività dell’ente in quanto tale nella sua totalità»[92]. Nel nostro rapportarci all’ente avviene un disvelamento che investe sempre l’intera opera, o, per meglio dire, l’opera è ciò che viene svelato ed in essa è possibile concentrarsi sull’ente. Ci si dà un contesto di rimandatività, un mondo, un’opera, entro il quale può emegere la “cosa”, nel suo specifico uso e rimando. «Il mondo ha sempre – anche se nel modo più vago possibile – il carattere della totalità unitaria, compiutezza o comunque vogliamo comprenderla e indicarla per il momento»[93]. L’ente considerato nella totalità in cui è inserito esibisce il suo specifico ruolo, il suo essere “mezzo per”, imbrigliato nelle catene della rimandatività dell’opera. «Ma cosa significa allora questo “nella sua totalità” se non la totalità di contenuto dell’ente in sé? Risponderemo: significa la forma dell’ente in quanto tale per noi manifesto. Dunque “nella sua totalità” vuol dire: nella forma della totalità»[94]. La forma dell’ente - la sua struttura essenziale - è esibita, per l’appunto resa manifesta, solo nell’essere inserito nella totalità dell’opera, nelle maglie della rimandatività funzionale, rientrando appieno nella dimensione della Zuhandenheit.

Heidegger sviluppa in proposito un esempio chiarificante: «la lavagna sta in una posizione sfavorevole»[95]. Tale formulazione ci pone davanti ad un problema specifico. Bisogna considerare il soggetto dell’esempio, la lavagna, e capire cosa si intende con la caratterizzazione ad esso attribuita, lo “stare in una posizione sfavorevole”. Tale esempio, sostiene Heidegger, si pone nell’«essere-aperto pre-logico»[96]. Questa particolare apertura, per essere chiarita necessita di qualche determinazione ulteriore. «È dunque necessario dirigere lo sguardo su ciò che l’asserzione asserisce: la posizione sfavorevole della lavagna. “Stare in una posizione sfavorevole” – che tipo di determinazione è mai questa?»[97] Si potrebbe pensare, di primo acchito, che tale determinazione abbia a che fare con un partecipante esterno; ovvero che “l’essere sfavorevole” non riguardi direttamente la lavagna ma un qualcuno o un qualcosa a cui lavagna in certo qual modo inerisce. Un soggetto che considera la lavagna posta non in modo favorevole nei suoi confronti. Tale interpretazione potrebbe essere avvalorata comparando l’esempio, “la lavagna è in una posizione sfavorevole”, con un altro: “La lavagna è nera”. Di questa determinazione, sempre ad un primo sguardo, si potrebbbe dire che “l’essere nero” sia attribuibile esclusivamente al soggetto in questione, la lavagna, senza coinvolgere terzi personaggi che determinino la situazione in qualche modo:

 

Pertanto la posizione sfavorevole non è una determinazione della lavagna stessa, così come il suo colore nero e la sua larghezza ed altezza, bensì una determinazione semplicemente relativa a noi che siamo qui. Questa determinazione della lavagna, la sua posizione sfavorevole, non è dunque una cosiddetta qualità oggettiva, bensì una qualità riferita al soggetto.[98]

 

Qualità soggettive e qualità oggettive paiono dunque essere gli ambiti in cui rientrano i due esempi formulati. Una qualità oggettiva, il suo essenzialissimo “essere nera” della lavagna e “l’essere in una posizione sfavorevole” determinabile solo riferendosi ad un soggetto esterno, il quale giudica se l’ente considerato sia in un luogo favorevole o meno. Tale distinguo falsa, però, la realtà dei fatti. Le cose non stanno effettivamente così.

Per considerare veramente le “cose” nella loro realtà bisogna chiamare in causa la dimensione dell’essere aperto pre-logico. All’interno di tale dimensione avviene la vera considerazione oggettiva degli enti, solo grazie ad essa è possibile considerare oggettivamente le “cose”. In essa si dischiude la manifestatività dell’ente, inteso dapprima come opera, il suo essere esibito in quanto tale. La possibilità che l’ente incontri il singolo, che gli si faccia incontro avviene in questo terreno pre-logico, antepredicativo che si configura come il terreno specifico del senso. Luogo entro il quale il senso effettivamente opera. Dove può illuminare gli enti, comprenderli ed ammantarli come disponibilità articolabili nel loro essere connessi gli uni agli altri secondo le strutture della rimandatività funzionale. Difatti: «Perché si possa giudicare su qualcosa questo deve essere già dato cosicchè la condizione di manifestatività che rende possibile l’apparire della cosa nel suo essere è anche la radice delle condizioni di asseribilità, e dunque del giudizio»[99]. Si ripropone il primato del senso sui significati. Le determinazioni “essere nera” della lavagna e il suo “essere in una posizione sfavorevole” vengono livellate sullo stesso piano, non sono accettabili come determinazioni, rispettivamente oggettive e soggettive dal momento che «non si tratta dell’essere-riferita-al-soggetto della qualità “che sta in una posizione sfavorevole”. Forse un tale essere riferita al soggetto si trova anche […] nella qualità del “nero”, ossia della qualità del colore»[100].

Ciò che con questi esempi Heidegger vuole mettere in evidenza è che «non si tratta né della relazione della qualità “posizionale sfavorevole” con la cosa, né della relazione di questa qualità con l’uomo che giudica ed asserisce, bensì della questione di che cosa sia manifesto pre-predicativamente con la manifestatività pre-logica della lavagna che sta in una posizione sfavorevole»[101]. Il “che cosa” rintracciato è la totalità, che viene messo in luce solamente nell’essere aperto pre-logico. Ciò che ci viene incontro in questa dimensione è l’opera e non un singolo ente emergente. L’opera illuminata in tutta la sua ragnatela di rimandi. «La lavagna non sta in una posizione sfavorevole, come può ritenere un’interpretazione affrettata, in riferimento a noi, le persone che di fatto sono presenti qui, bensì: la lavagna sta in una posizione sfavorevole in quest’aula»[102]. La totalità-aula è per l’appunto ciò che è esibito pre-logicamente e solo con questa prima visione è possibile, successivamente, soffermarsi sugli enti imbrigliati nella sua rimandatività. Oltre alla lavagna nell’aula-totalità abbiamo manifesti i banchi, le sedie, le penne e tutte le varie “cose” che rientrano in questo contesto determinato, in quest’opera. Tali enti sono determinati dalle loro relazioni di rimandatività entro la totalità dell’aula.

Il senso all’interno di questo contesto gioca un ruolo centrale. Nell’“essere aperto pre-logico” - in questo spazio pre-categoriale, dove viene esibita la manifestatività dell’ente - il senso affonda le sue radici. Con ciò si intende il fatto che all’interno della dimensione pre-logica si rende fruibile ciò che il senso ammanterà come disponibilità articolabile: i possibili significati degli enti. In questo ambito avviene la prensione primordiale delle “cose”, l’effettivo «portarsi-incontro di un essere vincolante»[103]; il loro primissimo coglimento libero da determinazioni concettuali o giudizi. Solo sulla base del senso che apre la comprensione degli enti, è dunque possibile lo sviluppo di significati determinati, di concrete articolazioni, di interpretazioni delle “cose”.



[1] M. Heidegger, Sein und Zeit, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 200118; tr. it. di P. Chiodi, F. Volpi (a cura di), Essere e tempo, Milano, Longanesi & C., 2005, p. 384.

[2] Id., Was ist das – Die Philosophie?, Pfüllingen, Günther Neske, 1956; tr. it. di C. Angelino, Che cos’è la filosofia?, Genova, Il melangolo, 2003, p. 9.

[3] A. Masullo, Heidegger e la questione del «senso», in Heidegger oggi, a cura di E. Mazzarella, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 46.

[4] A. Masullo, Heidegger e la questione del «senso», cit., p. 47.

[5] In ogni vissuto è palesemente presupposto il carattere anche solo generale di esperienza, come possibilità di contatto. Ma non in ogni esperienza è manifesto il carattere del vissuto come qualità intimanente partecipativa.

[6] P. Celan, Der Meridian, in Gesammelte Werke, vol. 3, Frankfurt am Main, Surkhamp Verlag, 1983; tr. it. di G. Bevilacqua (a cura di), Il meridiano, in La verità della poesia. Il meridiano e altri scritti in prosa, Torino, Einaudi, 1993, p. 9. Il discrimine che Celan pone - studiando la poetica di Büchner - tra arte intesa come coglimento della vita nel suo proprio farsi, come sguardo posto sulla creaturalità delle cose ed arte considerata come volontà di sviluppare il bello in sé slegata dalla naturalità; si pone con forte analogia nei confronti del rapporto tra senso e significato. Per meglio dire c’è tra le due concezioni dell’arte il rapporto che si sviluppa tra esperienza e rappresentazione. Celan pone una contrapposizione di concezioni che si può considerare come la scissione di momenti di un unico percorso estetico: dall’esperienza alla rappresentazione, dalla creaturalità al bello. «Lenz, ovvero Büchner, riserva, “ah, l’Arte”, parole al quanto sprezzanti all “Idealismo” e a i suoi “burattini”. Egli contrappone a essi – e qui seguono le righe indimenticabili sulla “vita dell’essere più umile”, sui “palpiti”, sulle “allusioni” sulla “quasi impercettibile, finissima mimica” – a essi egli contrappone ciò che è naturale e creaturale». Ibidem, p. 8.

[7] A. Masullo, Heidegger e la questione del «senso», cit., p. 47.

[8] I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, Hamburg, Felix Meiner Verlag, 1985; tr. it. di A. M. Marietti (a cura di), Critica della ragione pratica, Milano, BUR, 20015, p. 137.              

[9] A. Masullo, Heidegger e la questione del «senso», cit., p. 47.

[10] M. Heidegger, Einleitung in die Phänomenologie der Religion, in Phänomenologie des religiösen Lebens, Vittorio Klostermann Frankfurt am Main, 1995; tr. it. di G. Gurisatti, F. Volpi (a cura di), Introduzione alla fenomenologia della religione, in Fenomenologia della vita religiosa, Milano, Adelphi, 2003, p. 41.

[11]Qui si comincia ad intravedere quella che sarà una componente fondamentale di questa analisi, l’apriorità delle possibilità di coglimento: il primato del com’è? sul che cos’è?

[12] B. Moroncini, Mondo e senso. Heidegger e Celan, Napoli, Edizioni Cronopio, 1998, p. 9.

[13] A. Masullo, Heidegger e la questione del «senso», cit., p. 48.

[14] Per rendere Befindlichkeit utilizzo, indistintamente, situazione affettiva, situazione emotiva, affettività. Uso questi sinonimi per non andare incontro a eccessive ripetizioni del medesimo termine.

[15] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 167.

[16] Secondo G. Vattimo che pone la situazione affettiva è una dimensione ancor più originaria della comprensione, a causa della sua duplice funzione di apertura all’essere-gettato e di condizione di possibilità dell’incontro con le cose. G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Bari, Editori Laterza, 200517, p. 33.

[17] Ibidem.

[18] Ibidem.

[19] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 170.

[20] G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, cit., p. 34.

[21] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 171.

[22] Ivi, p. 169.

[23] Ivi, p. 173.

[24] Ivi, p. 384.

[25] V. Costa, La verità del mondo. Giudizio e teoria del significato in Heidegger, Milano, Vita e Pensiero, 2003, p. 257.

[26] G. Vattimo, Oltre l’ interpretazione, Bari, Editori Laterza, 2002, p. 113.

[27] B. Moroncini, Mondo e senso. Heidegger e Celan, cit., p. 11.

[28] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 187.

[29] Ibidem.

[30] Supra, cfr., p. 5.

[31] Ibidem.

[32] Ibidem.

[33] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 384.

[34] M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit, Frankfurt am Main, Vittorio Klostermann Verlag, 1983; tr. it. di P. Coriando, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, Genova, Il melangolo, 1999, p. 231.

[35] Ivi, p. 232.

[36] Ibidem.

[37] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 87.

[38] Ivi, p. 88.

[39] Ibidem.

[40] M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, cit., p. 232.

[41] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 89.

[42] Utilizzo il termine cose tra virgolette come sinonimo di ente, ben conscio dell’ avvertimento di Heidegger: «in questo interpellare l’ente come “cosa” (res), è introdotta di soppiatto una caratterizzazione ontologica preliminare», in M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 90.

[43] A. Fabris, Essere e tempo di Heidegger. Introduzione alla lettura, Roma, Carocci editore, 2005, pp. 89-90.

[44] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 89.

[45] Ivi, p. 92.

[46] Ivi, p. 91.

[47] Ibidem.

[48] Ibidem.

[49] Ibidem.

[50] A. Fabris, Essere e tempo di Heidegger. Introduzione alla lettura, cit., p. 90.

 

[51] V. Costa, La verità del mondo. Giudizio e teoria del significato in Heidegger, cit., p. 273.

[52] Ibidem.

[53] Ivi, p. 257.

[54] R. Rorty, Il progresso del pragmatista, in Interpretazione e sovrainterpretazione, a cura di U. Eco, Bologna, Bompiani, 20043, p. 126.

[55] U. Eco, Replica, in Interpretazione e sovrainterpretazione, ibidem pp. 173-174.

[56] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 92.

[57] A. Fabris, Essere e tempo di Heidegger. Introduzione alla lettura, cit., p. 91.

[58] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 92.

[59] Ivi, p. 93.

[60] Allo stesso modo l’opera rinvia ad altri mezzi e viene a configurarsi come mezzo di un’opera “maggiore”. L’articolo da scrivere rinvia all’uscita della rivista etc.

[61] M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, cit., p. 231.

[62] Ivi, p. 232.

[63] Ibidem.

[64] Ivi, p. 233.

[65] Ibidem.

[66] ibidem.

[67] Ivi, p. 234.

[68] Ibidem.

[69] Ivi, p. 234.

[70] Platone, Fedone, tr. it. di M. Valgimigli, Bari, Editori Laterza, 20054, p. 43.

[71] M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, cit., p. 242.

[72] M. Heidegger, Die Armut, in Heidegger studies, a cura di F. W. von Herrmann, Burg Wildenstein, 1945; tr. it. di A. Ardovino, M. Dolcetta (a cura di), la povertà, in «MicroMega», n. 3 (2006), p. 115.

[73] Ibidem.

[74] M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, cit., p. 253.

[75] Ibidem.

[76] Ibidem.

[77] Ivi, p. 255.

[78] «La pietra giace sul sentiero […]. Nel farlo “tocca” la terra. Ma ciò che qui chiamiamo “toccare” non è un tastare. Non è quella relazione che una lucertola ha con una pietra, quando giace al sole sopra di essa». Ivi. 

[79] Ivi, p. 256.