NIETZSCHE: LA MODERNITA’ COME

AUTOCONTRADDIZIONE FISIOLOGICA

 

di Marco Menin

 

 

 

Noi, figli dell’avvenire, come potremmo trovarci a nostro

agio nel tempo attuale?

F. W. Nietzsche, FW, V, 377

 

                                                                                                  

 

 

 

 

                                                                                                   

1.         Introduzione

Il destino dell’Occidente è agli occhi di Nietzsche quello di cadere in un’inevitabile crisi della modernità, intendendo il termine “crisi” nell’originale significato che stava a indicare, nell’ambito della medicina Ippocratica, la trasformazione decisiva che si produce nel punto culminante di una malattia e orienta il corso di essa in modo favorevole o sfavorevole[1]. Tuttavia, solo quest’ultimo esito pare possibile in quanto, come si proverà a dimostrare, la modernità viene a caratterizzarsi nei termini – per utilizzare un’espressione dello stesso Nietzsche che pare legittimare la metafora medica – di un’autocontraddizione fisiologica.

Gli scritti che rappresenteranno il punto di partenza di questo breve articolo saranno essenzialmente tre: il quinto libro della Gaia scienza, la prima dissertazione della Genealogia della morale e il Crepuscolo degli idoli. Si tratta di opere che sembrano a prima vista molto distanti tra di loro. In particolar modo, uno iato notevole si può individuare tra la Genealogia della morale, pubblicata nel 1882, e le altre due opere citate, composte rispettivamente nel 1887 e nel 1888. Lo scarto sarebbe indubbiamente imponente, in quanto rappresentato da quella fondamentale fase della filosofia del pensatore di Röcken definita «filosofia del meriggio o di Zarathustra»[2].

In realtà tale distanza è solo apparente: tra Al di là del bene e del male, uscito nel settembre del 1886 e Genealogia della morale, scritto in soli venti giorni tra il 10 e il 30 luglio 1887 e pubblicato ai primi di novembre dello stesso anno, intercorrono dieci mesi di intenso lavoro durante i quali Nietzsche completò nuove edizioni di scritti anteriori. La gaia scienza fu ripubblicata nel 1887, arricchita da una nuova prefazione, dal quinto libro e dalla dalle Canzoni del principe Vogelfrei. È per questo motivo che l’ultimo libro, intitolato Noi senza paura, risulta una nota dissonante all’interno di un opera che, come ha osservato Giorgio Colli, è «un magico momento di equilibrio, l’unica […] esperienza di salute totale, dove tutti gli estremi sono presenti, ma collegati morbidamente, tenuti sotto controllo, svuotati di ogni fanatismo»[3].

Questo equilibrio è indubbiamente compromesso nel biennio 1887-1888. Si tratta, infatti, di un periodo estremamente difficile e problematico[4], dove le peripezie intime (legate al sensibilissimo organismo di  Nietzsche) ed esteriori (Al di là del bene e del male ha venduto solo 114 copie in un anno) precedono o accompagnano la nascita di scritti estremamente violenti e polemici, come il quinto libro di La gaia scienza. La stessa vis si ritrova nelle altre due opere prese in analisi: per quanto riguarda la Genealogia della morale, lo stesso Nietzsche la definisce come  «urtante all’orecchio»[5] e vi pone per sottotitolo Uno scritto polemico; per quanto riguarda il Crepuscolo degli idoli, basti richiamare l’osservazione del biografo Charles Andler: «l’operina, elegante e terribile, sfoggia una collezione mobile di armi e gioielli che essa ci invita ad ammirare. Ecco dei pugnali, ed ecco degli anelli; delle scimitarre e delle collane. Ciò che Nietzsche ha fabbricato di più spirituale, di più polito, di più finemente damascato, è qui riunito, in un assortimento scintillante»[6].

Queste riflessioni conducono al delinearsi di uno sfondo relativamente coerente (per quanto possa aver senso parlare di coerenza in un pensatore sistematicamente asistematico come Nietzsche), sul quale si staglia un’esplicita critica della modernità occidentale.

 

 

2.         L’ autocontraddizione della modernità

La critica della modernità è contemporaneamente una messa in discussione della società occidentale nel suo complesso e del tipo antropologico da essa prodotto. Questo duplice aspetto emerge con chiarezza in un aforisma del Crepuscolo degli idoli[7], intitolato proprio Critica della modernità: «Le nostre istituzioni non servono più a niente: su ciò regna l’unanimità. Ma ciò non dipende da esse, dipende da noi. Da quando abbiamo perduto tutti gli istinti da cui le istituzioni si sviluppano, stiamo perdendo le istituzioni in genere, perché noi non serviamo più ad esse»[8]. Per questo motivo gli istinti moderni «si contraddicono, si disturbano, si distruggono reciprocamente»[9] e la modernità si può definire «come autocontraddizione fisiologica»[10].

            Emerge così la necessità di analizzare più a fondo la modernità per capire da dove scaturisca questa autocontraddizione. A tale fine, due sembrano essere le domande fondamentali: (i) Quando nasce la modernità? (ii) Che cosa caratterizza il suo sviluppo?

            Per quando riguarda il primo interrogativo, Nietzsche offre una risposta coerente in tutte e tre le opere analizzate: l’età moderna come epoca inizia con la Rivoluzione francese, che «ha posto completamente e solamente lo scettro nelle mani dell’ “uomo buono” (della pecora, dell’asino, dell’oca e di tutto ciò che è inguaribilmente piatto e schiamazzante e maturo per il “manicomio delle idee moderne”)»[11]. Non deve quindi stupire che egli indichi come primo uomo moderno il pensatore che più di ogni altro ha influenzato la Rivoluzione stessa, Jean-Jacques Rousseau. Allo stesso modo, non deve stupire che nei confronti del Ginevrino siano utilizzati, con feroce (e in gran parte ingiustificata) veemenza, quei pugnali e quelle scimitarre evocati in precedenza dalle righe di Andler: 

«Ma Rousseau – a che cosa voleva mai ritornare? Rousseau, questo primo uomo moderno, idealista   e canaglia in una stessa persona, che aveva bisogno della “dignità” morale per poter sopportare il suo stesso aspetto; malato di sfrenata vanità e di sfrenato disprezzo di sé. Anche questo aborto, che si è accampato alle soglie dell’età moderna, voleva il “ritorno alla natura”- a cosa, si domanda ancora una volta, voleva ritornare Rousseau? Io odio Rousseau anche nella rivoluzione: essa è nella storia del mondo, l’espressione di questa doppiezza di idealista e canaglia. La cruenta farsa con cui questa rivoluzione si svolse, la sua “immoralità” mi importa poco; quello che odio è la sua moralità rousseauiana- le cosiddette “verità” della rivoluzione, con le quali essa continua ad esercitare i suoi effetti e ad attirare a sé tutti i superficiali e i mediocri. La teoria dell’uguaglianza!… Ma non c’è assolutamente nessun veleno più velenoso, giacché essa sembra predicata dalla giustizia stessa, mentre è la fine della giustizia… “Cose uguali agli uguali, disuguali ai disuguali – questo sarebbe il vero discorso della giustizia; con ciò che ne consegue: mai rendere uguale il disuguale”. Che intorno a questa teoria dell’uguaglianza si siano svolte vicende così raccapriccianti e sanguinose, ha conferito a questa “idea moderna” per eccellenza una specie di aureola e di splendore fiammeggiante, sicché la rivoluzione come spettacolo ha sviato e conquistato a sé anche gli spiriti più nobili»[12].

                L’importanza di questo lungo brano è duplice. In primo luogo, esso ci consente di passare dal primo interrogativo posto in precedenza al secondo (e cioè:  che cosa caratterizza lo  sviluppo dell’età moderna?). Nietzsche, infatti, non è interessato solamente alla modernità come epoca, ma anche – e soprattutto – alla modernità come processo. Il processo della modernità è un processo di decadenza: «Non c’è che fare, bisogna andare avanti, voglio dire inoltrarsi, passo dopo passo, sempre più nella décadence (è questa la mia definizione di  “progresso” moderno)»[13].

In secondo luogo, inoltre, ci si rende conto di come il problema alla radice dell’autocontraddizione moderna sia essenzialmente un problema morale. A conferma di ciò è sufficiente osservare come i termini della sfera morale ritornino insistentemente nell’aforisma appena analizzato: dignità morale, immoralità, verità, uguaglianza,… . La decadenza dell’età moderna, dunque, porta inevitabilmente con sé una morale, che deve essere saggiata e distrutta attraverso quel martello che Nietzsche considera la propria filosofia[14]. Si tratta, infatti, di una morale deleteria: i decadenti (e dunque i moderni) «preferiscono istintivamente quello che dissolve, che affretta la fine…»[15]. Essi dicono di no alla vita. 

Se l’identificazione della morale con un processo di décadence rappresenta una svolta significativa, essa non è ancora sufficiente per fornire una risposta esaustiva alla domanda fondamentale (i): da dove ha inizio la parabola della modernità, ossia della decadenza?

Non rimane che addentrarsi nel centrale problema della decadenza per trovare la risposta a questo interrogativo; risposta in grado di gettare ulteriore luce sulla portata epocale della Rivoluzione francese nel pensiero di Nietzsche inerente la modernità.

 

 

3.         La centralità del problema morale: décadence e ressentiment

L’atteggiamento anti-vitalistico della décadence moderna è strettamente connesso al sentimento predominante attraverso il  quale si esprime la decadenza stessa: il risentimento. Il risentimento, cioè l’odio impotente contro ciò che non si può essere o non si può avere, è il sentimento tipico dell’uomo moderno: il «ressentiment di Rousseau», infatti, «sotto ogni romantisme […] grugnisce e spasima per la vendetta»[16]. Dietro l’atteggiamento di questi «esseri a cui la vera reazione, quella dell’azione, è negata e che si consolano soltanto attraverso la vendetta immaginaria»[17] è possibile individuare la vera origine della moralità moderna: la morale  «ha inizio da quando il ressentiment diventa esso stesso creatore e genera valori»[18].

            Si tratta di un punto assolutamente centrale: la morale della modernità è infatti storicamente determinata.  Questa determinazione storica è fondata sul carattere sociale di ogni moralità, che viene dissimulato – secondo Nietzsche – sotto ciò che si chiama “la voce della coscienza”. È illuminante, a tale proposito, il cinquantaduesimo aforisma de Il viandante e la sua ombra:

«Contenuto della coscienza. – Il contenuto della nostra coscienza è tutto ciò che negli anni dell’infanzia ci veniva regolarmente richiesto senza un motivo da persone che veneravamo o temevamo. Dalla coscienza viene dunque stimolato quel senso del dovere (“questo debbo fare, e non fare quello”) che non richiede: perché debbo? – In tutti i casi in cui una cosa viene fatta con un “perché”, l’uomo agisce senza coscienza; tuttavia non perciò contro di essa. – la fede nelle autorità è la fonte della coscienza: questa non è dunque la voce di Dio nel cuore dell’uomo, ma la voce di alcuni uomini nell’uomo»[19]

Il nesso tra morale e società appare, a questo punto, necessario: non c’è morale dove non c’è voce della coscienza, e quindi dove non c’è società. La moralità non è altro che l’ “istinto del gregge”:

«Laddove c’imbattiamo in una morale, ivi troviamo una valutazione e una gerarchia degli istinti e delle azioni umane. Queste valutazioni e gerarchie sono sempre l’espressione dei bisogni di una comunità e di un gregge: ciò che ad esso risulta utile in primo luogo – e in secondo e in terzo luogo – questa è anche la suprema forma di valore per tutti i singoli. Con la morale, il singolo viene educato ad essere funzione del gregge, e ad attribuirsi valore solo come funzione. Poiché le condizioni della conservazione di una comunità sono state molto diverse da quelle valide per un’altra comunità, ci sono state morali molto diverse. […] La moralità è l’istinto del gregge nel singolo»[20].

            La morale, dunque, non riguarda solamente il modo in cui la società gerarchizza e disciplina le pulsioni del singolo, ma è un vero e proprio istinto. Nel pensiero di Nietzsche gli stessi istinti e  impulsi fondamentali sono storicamente determinati, e quindi modificabili. La vita morale non sarà altro che la stratificazione di questi impulsi storicamente formatisi, nonché l’articolarsi e l’intrecciarsi dei vari piani di questa stratificazione.

            Il lungo equivoco, alla base dell’autocontraddizione della modernità,  è aver considerato la morale attraverso i tempi come un fatto evidente, che si auto-impone all’individuo. A dimostrazione di ciò, in ogni scienza della morale esistita sino ad oggi, è sempre mancato – per quanto possa sembrare strano – il problema stesso della morale: è mancato il sospetto che ci potesse essere, su questo punto, qualcosa di problematico. Nasce così una «nuova esigenza: abbiamo bisogno di una critica dei valori morali, di cominciare a porre una buona volta in questione il valore stesso di questi valori – e a tale scopo è necessaria una conoscenza delle condizioni e delle circostanze in cui sono attecchiti, poste le quali si sono andati sviluppando e modificando»[21].           

            Il primo passo da compiere nei confronti della morale è dunque quello di metterla in discussione e di trattarla come un problema. Emerge qui chiaramente quell’istanza di Nietzsche, sottolineata con particolare vigore da Rocoeur[22], di considerare la filosofia come sospetto e diffidenza. In un aforisma intitolato significativamente Morale come problema, Nietzsche mette in luce come «fino a oggi la morale non fu un problema»[23] e come «nessuno ha […] saggiato il valore di quella famosissima tra tutte le medicine che ha nome morale»[24].   Per far ciò è necessario costruire una vera e propria “genealogia” della morale stessa, esito inevitabile di una filosofia del sospetto.

 

 

4.         La necessità dell’indagine genealogica e la fabbrica degli ideali

Che il problema della genealogia della morale sia centrale nell’analisi che Nietzsche offre della modernità non deve stupire. È lo stesso filosofo a confessarci come i propri interessi si siano indirizzati in tale direzione sin dalla più tenera età: «il problema dell’origine del male già mi correva dentro da quando avevo tredici anni […] e per quanto concerne la mia “soluzione” al problema, a quel tempo, ebbene, come è logico, resi l’onore a Dio e feci di lui il padre del male»[25].

            Nel biennio 1887-88 lo studio genealogico ha ormai raggiunto i suoi risultati più profondi ed originali e si presenta come uno dei punti di maggior rilievo di tutti e tre gli scritti presi in analisi. Se tale affermazione risulta scontata per quanto riguarda la Genealogia della morale, potrebbe tuttavia non valere, almeno a prima vista, per gli altri due scritti. In realtà, anche qui lo stesso problema  è centrale: basti pensare che, già nella prefazione di La gaia scienza, Nietzsche mette in risalto «la volontà di fare […] più domande, più profonde, più rigorose, più dure, più cattive, più silenziose, di quanto non abbia fatto fino a quel momento»[26]. Allo stesso modo, per quanto riguarda il Crepuscolo degli idoli, l’intento genealogico è evocato sin dal titolo: gli “idoli” non sono altro che quelle che le cosiddette verità morali e che «qui si toccano con il martello come con un diapason»[27].

La genealogia della morale viene dunque a configurarsi come quello specifico modo di accostarsi ai problemi vitali, che consiste nel mostrare il carattere storico o divenuto dei valori etici e le motivazioni umane (troppo umane) che ne stanno alla base. Il metodo genealogico ha le caratteristiche di una Chimica dei sentimenti e delle idee (così suona il titolo del paragrafo iniziale di Umano, troppo umano):

«Tutto ciò di cui abbiamo bisogno, e che allo stadio attuale delle singole scienze può esserci concesso, è una chimica delle idee e dei sentimenti, morali, religiosi, estetici, come pure di tutte quelle emozioni che sperimentiamo in noi nel grande e piccolo commercio con la cultura e la società e perfino nella solitudine: ma che accadrebbe, se questa chimica finisse per concludere che anche in questo campo i colori più belli sono  quelli che si ricavano da una materia umile, e persino spregiata? Quanti avranno voglia di seguire tali indagini? L’umanità ama fugare dalla propria mente gli interrogativi sull’origine e sugli inizi: non si deve forse essere quasi disumanizzati per sentire in sé l’inclinazione contraria?»[28]

Attraverso questa analisi  “chimica” sarà possibile cogliere la genesi psicologica effettiva della morale. Grazie alla psicologia, che è considerata la signora delle scienze (il titolo originale del Crepuscolo degli idoli doveva essere proprio Ozio di uno psicologo), Nietzsche è convinto di poter intraprendere un viaggio che lo condurrà sino alla sorgente dei comportamenti etici, sino al luogo dove si fabbricano gli ideali. Si tratta del luogo dove gli «uomini del ressentiment»[29] hanno preso il sopravvento ed hanno imposto i loro valori anti-vitali: «Ma basta! Finiamola! Non ne posso più! Aria cattiva! Aria cattiva! Quest’officina dove si fabbricano ideali- mi sembra che esali unicamente fetore di menzogne»[30].

             Non rimane che seguire il genealogista della morale nella sua difficile opera filologica che consiste nel venire a capo della «difficilmente decifrabile scrittura geroglifica del passato morale dell’uomo»[31].

 

 

5.         Il signore e il servo: buono e malvagio, buono e cattivo

Alle origini della storia, indagata da Nietzsche con il metodo genealogico, troviamo quella che in Umano, troppo umano viene definita la «duplice preistoria del bene e del male»[32]:

«Il concetto di bene e di male ha una duplice preistoria: da un lato, nell’animo delle stirpi e caste dominanti. Chi ha il potere di contraccambiare, bene con bene, male con male, ed esercita anche questo contraccambio, ovverosia la vendetta e la riconoscenza, viene detto buono; chi non è potente e non può ricambiare passa per cattivo. Come buono si appartiene ai “buoni”, a una comunità che possiede il sentimento di essere tale in quanto gli individui sono reciprocamente collegati dal senso del contraccambio. Come cattivi si appartiene ai “cattivi”, una massa di uomini subordinati, impotenti, che non possiedono alcun sentimento di essere una comunità. I buoni sono una casta, i cattivi una massa, come polvere. […] – D’altro lato, nell’animo degli oppressi, degli impotenti. Qui ogni altro uomo, sia esso nobile o umile, è considerato ostile, spietato, predatore, crudele, subdolo. Cattivo è parola che definisce l’uomo, anzi qualsiasi essere vivente che si possa supporre, ad esempio un dio; umano, divino equivale pertanto a diabolico, malvagio»[33].

È evidente che questo secondo atteggiamento è un atteggiamento non solo anti-vitale, ma anche anti-sociale. Infatti «tale essendo lo stato d’animo dell’individuo, difficilmente può sorgere una comunità, ma tutt’al più la forma più primitiva di essa: cosicché ovunque predomini questa concezione del bene e del male, è vicino il tramonto degli individui, delle loro stirpi e razze. La nostra moralità odierna è sorta sul terreno delle stirpi e caste dominanti»[34].

            Questo è un assunto fondamentale, perché conferma il carattere storico e divenuto della morale della décadence  e del ressentiment tipica della modernità. Inizialmente, in una sorta di mondo omerico e aristocratico, era dominante quella «morale dei signori»[35], delineata già in Al di là del bene e del male: si tratta di una morale che sgorga da un sentimento di pienezza  e di potenza e che si esprime in una serie di valori vitali, come la forza, la salute, la fierezza e la gioia. In questa morale dei dominatori «si può agire come pare e piace o “come vuole il cuore” e comunque “al di là del bene e del male”»[36].

            Contrapposta a questo tipo di morale (anche se «in tutte le civiltà più elevate e più mescolate compaiono anche tentativi di mediazione delle due morali e ancora più spesso una confusione tra le due e un reciproco fraintendimento»[37]) è la «morale degli schiavi»[38] , che sgorga da un sentimento di debolezza e di risentimento (dominante anche nella modernità) e che risulta improntata ai valori anti-vitali dell’umiltà, del disinteresse e della pietà.

            Prima di passare ad analizzare come la morale degli schiavi sia riuscita a soppiantare quella dei signori, è fondamentale interrogarsi sul “problema dei valori”, cioè su come si siano costituiti i valori alle base delle rispettive morali. A dare una risposta a questa importante questione è in particolar modo la prima dissertazione della Genealogia della morale, intitolata “Buono e malvagio” “buono e cattivo”. Infatti, proprio queste due coppie di termini aiutano a comprendere la genesi opposta del valore del “buono”, presente in entrambi gli atteggiamenti etici.

L’opposizione tra buono e cattivo è alla base della morale  dei signori e nasce dal pathos della distanza tipico della società aristocratica: «Sono stati […] gli stessi “buoni”, vale a dire i nobili, i potenti, gli uomini di condizione superiore e di elevato sentire ad avere avvertito e determinato se stessi e le loro azioni come buoni, cioè di prim’ordine, e in contrasto a tutto quanto è ignobile e d’ignobile sentire, volgare e plebeo»[39]. A conferma di ciò Nietzsche riporta anche un argomento di stampo filologico: «Sotto il riguardo etimologico, le definizioni di “buono” coniate dalle diverse lingue […] si riconducono tutte a una identica metamorfosi concettuale – che ovunque “nobile”, “aristocratico”, nel senso di ceto sociale, costituiscono il concetto fondamentale da cui ha tratto necessariamente origine l’idea di buono nel senso di “spiritualmente nobile”»[40].

            Se l’uomo nobile della morale aristocratica concepisce in anticipo e spontaneamente l’idea fondamentale di “buono”, prendendo le mosse da se stesso e soltanto su questa base -  in un secondo momento - si foggia l’idea di “cattivo”, l’esatto contrario accade per il plebeo della morale degli schiavi. Infatti, «la morale degli schiavi ha bisogno per la sua nascita, sempre e in primo luogo di un mondo opposto ed esteriore, ha bisogno, per esprimerci in termini psicologici, di stimoli esterni per potere in generale agire – la sua azione è fondamentalmente una reazione»[41]. Il plebeo, (cioè l’uomo del ressentiment) essendo incapace di una vera azione, prenderà come punto di partenza non più il valore del “buono”, bensì quello del “malvagio”: «Immaginiamoci […] il nemico, come lo concepisce l’uomo del ressentiment- e precisamente a questo punto troveremo la sua azione, la sua creazione: costui concepisce il “nemico malvagio”, “il malvagio” proprio come idea di base, a partire dalla quale si fabbrica nell’immaginazione come sua contraffazione e sua antitesi altresì un “buono” – se stesso!»[42].

            È evidente che ci si trova dinnanzi a degli atteggiamenti morali assolutamente contrastanti sotto due punti di vista. In primo luogo, c’è una differenza intrinseca tra il “cattivo” della morale aristocratica e il “malvagio” della morale plebea: «il primo, [è] una creazione posteriore, un accessorio, un colore complementare, il secondo, invece, l’originale, il principio, l’atto vero e proprio nella concezione di una morale degli schiavi»[43]. In secondo luogo, neppure il valore del “buono” a cui vengono contrapposti rispettivamente il “cattivo” e il “malvagio” è lo stesso. Dal punto di vista della morale del ressentiment, infatti, il “malvagio” non sarà altro che il “buono” dal punto di vista della morale aristocratica:

«Domandiamoci piuttosto chi propriamente è “malvagio”, nel senso della morale del ressentiment. Con una risposta rigorosa occorrerà dire: appunto il buono dell’altra morale, appunto il potente, il dominatore, solo che è dipinto con altri colori, interpretato in guisa opposta, guardato di sbieco dall’odio torvo del ressentiment. Su questo punto c’è una cosa che siamo ben lontani dal volere negare: chi ha conosciuto quei “buoni” soltanto come nemici, non conoscerà nient’altro che nemici malvagi»[44].

            Questo esamine della duplice radice della morale ha mostrato qual’è l’origine dei valori, ma non è ancora sufficiente a rendere conto di quello che sembra, a prima vista, un vero e proprio paradosso: come si spiega la vittoria della morale degli schiavi, ossia l’avvento di una maniera anti-vitale di rapportarsi alla vita? Com’è possibile che, a un certo punto, l’umanità occidentale – che come si è visto è sorta sul terreno della casta dominante[45] – abbia imboccato la strada della malattia e della decadenza?

 

 

6.         Il trionfo della morale degli schiavi: storia di un errore

            Il motivo che ha condotto alla «terribile lotta durata millenni»[46] tra i due tipi antitetici di moralità va ricercato nel fatto che la morale dei signori originariamente comprende in sé non solo l’etica dei guerrieri, ma anche quella dei sacerdoti. Ora, se il guerriero si rispecchia nelle virtù del corpo[47], il sacerdote tende a perseguire le virtù dello spirito. Ma poiché la natura è irresistibile (l’uomo è corpo, non spirito), il sacerdote non può fare a meno di provare un certo risentimento verso i guerrieri, ovvero una segreta invidia e un latente desiderio di rivalsa nei loro confronti. Non potendo dominare la casta dei guerrieri sul loro stesso terreno, la casta sacerdotale cerca di far valere se medesima attraverso il «rovesciamento dell’aristocratica equazione di valore (buono = nobile = potente =  bello = felice = caro agli dei)»[48].

            Questa vendetta dello spirito sul corpo[49] si è consumata attraverso due momenti fondamentali:  (i)  la metafisica platonico-socratica

(ii) la morale ebraico-cristiana

            (i) Costruendo l’idea di un mondo intelligibile, separato rispetto a quello sensibile e corporeo, il platonismo aveva indicato nel primo il criterio di verità e la sede del valore, riducendo l’unico mondo (sensibile e corporeo) a pura apparenza priva di valore: «Ogni idealismo filosofico è stato fino a oggi qualcosa come una malattia, quando non fu, come nel caso di Platone, l’accorgimento di una salute esuberante e pericolosa, il timore della strapotenza dei sensi, la saggezza di un saggio socratico»[50]. Proprio Socrate riesce a costruire quella che Niezsche ritiene l’equiparazione più bizzarra e più contrastante con l’autentico spirito ellenico: «ragione = virtù = felicità»[51]. È evidente come tale visione platonico-socratica contraddica la rivendicazione della natura terrestre dell’uomo, implicita nell’accettazione totale della vita propria dello spirito dionisiaco: «il fatto fondamentale dell’istinto ellenico [è] la sua “volontà di vivere”»[52].

Con Socrate inizia la strategia metafisica, che conduce alla costruzione d’illusioni che scaturiscono dalla sostanziale incapacità di tollerare la vita con le sue laceranti e dolorose contraddizioni. Quella di Socrate è una filosofia assolutamente antitragica, che mira ad occultare il senso tragico connaturato nello spirito ellenico. Per questo «il valore della vita non può essere fatto oggetto di apprezzamento»[53] e il gusto greco si rovescia a favore di quella stessa décadence che sarà tipica della modernità:

«Socrate fu un malinteso; tutta la morale del perfezionamento , anche quella cristiana, fu un malinteso… La più cruda luce del giorno, la razionalità a ogni costo, la  vita chiara, fredda, prudente, cosciente, senza istinti, in opposizione agli istinti, era essa stessa solo una malattia – e in nessun modo un ritorno alla “virtù”, alla “salute”, alla felicità… Dover combattere gli istinti – questa è la formula della décadence; finché la vita è in ascesa, la felicità è uguale all’istinto»[54]

(ii) Secondo Nietzsche il platonismo, come è messo in luce anche dall’aforisma appena citato, aveva posto le basi per quella morale della rinuncia che il cristianesimo avrebbe ereditato  e sviluppato. In tale visione, il cristianesimo si può considerare una sorta di platonismo “popolare”, coniugato tuttavia con la tradizione ebraica.   

Gli Ebrei sono, infatti, la casta sacerdotale pervasa dall’invidia e dal risentimento per gli aristocratici, sono il «popolo cui è propria l’arte dell’adattamento par excellence»[55]. La loro caratteristica principale è l’odio che scaturisce dalla loro incapacità di accettare la vita; si tratta di un sentimento dall’enorme potenzialità: infatti «l’odio giudaico [è] l’odio più profondo e più sublime, vale a dire creatore di ideali, trasmutatore di valori»[56].

Attraverso quest’odio la Giudea, umiliata dai Romani, capovolge i valori del mondo antico e conquista Roma stessa tramite il cristianesimo, ovvero mediante una religione che non è altro che il frutto del ressentiment dell’uomo debole verso la vita:

«I Romani erano invero i forti e i nobili, come non sono mai esistiti sulla terra di più forti e nobili, e nemmeno mai sono stati sognati. […] Gli Ebrei viceversa erano quel popolo sacerdotale, del ressentiment par excellence, in cui era insita una genialità popolare-morale impareggiabile. […] Quale di essi ha il temperamento vinto, Roma o Giudea? Ma non c’è proprio il minimo dubbio: si consideri invero dinanzi a chi si inchini oggi, nella stessa Roma, come dinanzi alla sintesi di ogni supremo valore – e non soltanto a Roma, ma quasi su metà della terra, ovunque l’uomo è stato addomesticato o vuole diventarlo – dinanzi a tre ebrei, come è noto, e a una ebrea (dinanzi a Gesù di Nazareth, al pescatore Pietro, al tessitore di tappeti Paolo e alla madre del suddetto Gesù, chiamata Maria). È un fatto assai degno di nota: senza dubbio Roma ha dovuto soccombere»[57]

Il cristianesimo non è dunque altro che una negazione istituzionalizzata della volontà di vivere («La vita finisce, dove comincia il “Regno di Dio”»[58]), che ha condotto all’autocontraddizione della modernità. Infatti «il movimento di décadence nella morale […] è strettamente imparentato con la morale cristiana»[59]. Inoltre, il trionfo definitivo della morale ebraico-cristiana (e conseguentemente della metafisica platonico-socratica di cui essa è erede) avviene proprio alle soglie dell’età moderna: «In un senso addirittura più decisivo e più profondo […] Giudea pervenne, con la rivoluzione francese, ancora una volta alla vittoria sull’ideale classico: l’ultima aristocrazia politica esistente in Europa quella del XVII e XVIII secolo francese, crollò sotto gli istinti popolari del ressentiment – non si era mai sentito sulla terra un giubilo più grande, un più rumoroso entusiasmo!»[60].

            È adesso possibile comprendere pienamente la portata epocale della Rivoluzione francese: essa è l’ultima sollevazione degli schiavi, figlia e continuatrice del Cristianesimo. Il Cristianesimo, infatti, ha trasformato la sofferenza in una virtù: la liberazione dal dolore consiste nell’approfondimento del dolore stesso. oltre a considerare la sofferenza come sede della gioia (beatus vir qui suffert tentationes [61]), il Cristianesimo individua nella compassione per la sofferenza altrui la molla dell’indignazione morale. In tale ottica, la Rivoluzione francese non sarebbe altro che il naturale esito di tale indignazione innanzi a un’ingiustizia diventata ormai spudorata e insopportabile.

Tale ingiustizia, al contrario, è agli occhi di Nietzsche il naturale dominio dei forti sui deboli. La Rivoluzione francese da “splendida aurora” – per utilizzare un’espressione hegeliana – diventa il crepuscolare punto di approdo di un processo evolutivo pervertito e assolutamente autocontraddittorio che ha condotto al sopravvento dei deboli sui forti.

 

 

7.         L’ego diviso: l’autocontraddizione intrapersonale

Giunti a questo punto è possibile capire a fondo perché Nietzsche ha definito la modernità come “autocontraddizione fisiologica”. L’età moderna è autocontraddizione perché si basa su di una morale che rinnega la vita (e nella quale, ancor peggio, la vita tende ad autonegarsi) e costringe l’uomo a vergognarsi dei suoi istinti e a ricacciarli nel profondo.

La grande menzogna che è base della modernità può finalmente apparire in tutta la sua evidenza: il “mondo vero” (cioè il mondo del corpo e dell’accettazione della vita) è stato sostituito da un mondo fasullo, quello della metafisica e della morale platonico-cristiana. L’autocontraddizione di questa morale si esplica nell’opposizione tra un vero, che non è null’altro che una funzione canonizzata socialmente, e un falso, che è a sua volta una menzogna funzionalizzata alle esigenze sociali ed è resa possibile proprio dall’esistenza del vero.

 Tale processo mistificatorio di stampo platonico cristiano è descritto da Nietzsche, in maniera particolarmente penetrante, nella prima parte dell’aforisma Come il “mondo vero” finì col diventare una favola. Storia di un errore: 

« 1.   Il mondo vero, attingibile dal saggio, dal pio, dal virtuoso – egli vive in esso, egli è esso.

 (La forma più antica dell’idea, relativamente intelligente, semplice, convincente. Trascrizione della   tesi “Io, Platone, sono la verità”).

    2. Il mondo vero, inattingibile per il momento, ma promesso al saggio, al pio, al virtuoso    (“al peccatore che fa penitenza”).

(Progresso dell’idea: essa si fa più sottile, più capziosa, più inafferrabile,– si fa donna, si  fa cristiana…)

3. Il mondo vero, in attingibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pensato una consolazione, un obbligo, un imperativo.

(In fondo l’antico sole, ma attraverso nebbia e scetticismo; l’idea sublimata, divenuta pallida, nordica, königsberghese)

4. Il mondo vero – inattingibile? Comunque non attinto e in quanto non attinto anche ignoto. Per conseguenza anche non consolante, non redimente, non obbligante: a che potrebbe obbligarci qualcosa di sconosciuto? …

(Mattino grigio. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del positivismo) »[62].  

            Si è qui di fronte al drammatico trionfo, scandito in tappe fondamentali, di un errore ontologico che ha finito con il privare di senso la realtà autentica. (1.) Il primo momento di questa vicenda è rappresentato dall’iperuranio di Plkatone, che finisce con il diventare il fondamento e la ragione d’essere del mondo empirico, nonché il vero principio d’intelligibilità e l’unica sede del valore.

            (2.) Questa operazione è ripresa e radicalizzata, come si è già accennato, dal Cristianesimo, che sottrae definitivamente il mondo da questa vita (che è per Nietzsche l’unica possibile e reale[63]) per porlo come oggetto di premio nell’al di là.

            (3.) Sebbene in maniera differente dalla tradizione platonico-cristiana, anche la filosofia kantiana finisce con il sottrarre all’uomo il mondo vero[64], rendendolo effettivamente in conoscibile. Il noumeno, infatti, non è altro che la cosa in sé (e dunque il mondo reale) in quanto oggetto di un’ipotetica conoscenza intellettuale pura, che tuttavia rimane preclusa: «La conoscenza della ragione arriva solo fino ai fenomeni, lasciando senz’altro che la cosa in sé sia per se stessa reale, ma sconosciuta»[65]. Non deve quindi stupire che Kant sia etichettato come «il più storpiato che ci sia mai stato tra gli storpi del concetto»[66] e il suo pensiero sia liquidato come una «filosofia delle scappatoie»[67].

            (4.) Non deve allo stesso modo stupire che Nietzsche sia ugualmente critico nei confronti del positivismo, che limita la conoscenza all’esperienza. Esso finisce inoltre con l’asssorbire nella scienza ogni manifestazione dell’uomo a causa della romanticizzazione della scienza stessa, che viene esaltata come unica guida della vita singola e associata, come unica coscienza, unica morale e  unica religione possibile.

Per tutti questi motivi, gli uomini del ressentiment, che dominano la terra in seguito a questa evoluzione storica (che è in realtà un’involuzione), sono animali veneranti, che hanno cioè bisogno di crearsi menzogne vitali per sopravvivere. Così «questa specie di uomini ha bisogno della credenza nell’indifferente libertà di scelta del “soggetto”. Forse per questo il soggetto (o, per parlare in maniera più popolare, l’anima) è stato fino a ora sulla terra il migliore articolo di fede, perché ha reso possibile alla maggioranza dei mortali, ai deboli e agli oppressi di ogni sorta quel sublime inganno di sé che sta nell’interpretare la debolezza stessa come libertà, il suo essere-così-e-così come merito».[68]

            C’è dunque un pregiudizio sostanziale dell’unità dell’io, che dovrebbe risiedere o nella ragione (visione socratica) o nella coscienza (visione cristiana), e che dovrebbe consentire all’uomo di riconoscersi nelle proprie azioni. La moralità sarebbe dunque una lotta dell’io contro moventi empirici, provenienti dall’esterno.

            Nietzsche, al contrario, mostra come la morale moderna non solo non offra unitarietà all’ego, ma anzi finisca con il frantumarlo. L’uomo del ressentiment, al di là della maschera di serenità, è un auto-tormentato; la lotta morale non è più intesa come una lotta dell’io contro qualche avversario esterno, ma come una radicale autoscissione dell’ego:

«Morale come autoscissione dell’uomo. – […] La fanciulla innamorata desidera poter confermare nell’infedeltà dell’amato la devota fedeltà del suo amore. Il soldato desidera morire sul campo di battaglia per la sua patria vittoriosa, in quanto, nella vittoria della patria, trionfa anche il suo più alto desiderio. La madre dà al figlio ciò di cui priva se stessa, il sonno, il cibo migliore, a volte la salute, gli averi. […] Non è evidente che in tutti questi casi l’uomo ama qualcosa di sé, un pensiero, un desiderio, un risultato, più di qualche altra cosa di sé; che dunque egli scinde il suo essere e sacrifica una parte di esso all’altra? […] In tutti i casi descritti è presente l’inclinazione verso qualcosa (desiderio, istinto, aspirazione); abbandonarsi ad essa, con tutte le conseguenze, non è comunque “non-egoistico”. In fatto di morale l’uomo tratta se stesso non come un individuum, ma come dividuum»[69]

L’autocontraddizione fisiologica della modernità è dunque duplice: in primo luogo si tratta un’autocontraddizione interpersonale (e quindi societaria), poiché la modernità è costruita a partire dal carattere sociale di una moralità funzionalizzata alle esigenze sociali stesse; in secondo luogo, si tratta di una autocontraddizione intrapersonale (e quindi individuale), poiché l’ego, influenzato dalla moralità anti-vitale platonico-cristiana, finisce con l’autoscindersi.

 

 

8.         Conclusione: oltre la modernità

Si è mostrato, seppure sommariamente, quale sia le visione che Nietzsche ha della modernità. Si tratta di una visione estremamente negativa e distruttrice, ma che non esaurisce il pensiero del filosofo di Röcken: «Mi sono scagliato contro questo mondo moderno non senza alcuni grossi errori e  sopravvalutazioni, ma in ogni caso come colui che ha una speranza»[70].

            La speranza è che alla negazione assoluta di fronte all’età e all’uomo moderno (Nietzsche si considera non a caso l’inattuale per eccellenza),  faccia seguito una grande affermazione, infatti «noi immoralisti […] non neghiamo facilmente, cerchiamo il nostro onore nell’essere affermatori»[71]. La compresenza di questa grande negazione e di questa grande affermazione si ritrova nella conclusione del già citato aforisma Come il “mondo vero” finì col diventare una favola:

«6. Il mondo vero l’abbiamo eliminato. Quale mondo è rimasto? Forse quello apparente?… Ma no! Con il mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!

(Mezzogiorno; momento dell’ombra più corta; fine dell’errore più lungo; apogeo dell’umanità; INCIPIT ZARATHUSTRA)»[72].

La grande affermazione sarà tesa a difendere e a chiarire l’accettazione totale ed entusiastica della vita – vero filo conduttore del pensiero di Nietzsche –  che trova il suo simbolo divinizzato in Dioniso e il suo profeta proprio in Zarathustra:

«Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di speranze ultraterrene! Essi sono degli avvelenatori, che lo sappiano o no.

Sono spregiatori della vita, moribondi ed essi stessi avvelenati, dei quali la terra è stanca: se ne vadano pure! […]

Vedete, io vi insegno il superuomo: esso è questo mare, in cui può inabissarsi il vostro grande disprezzo»[73]

            Questa frase è l’emblema di quel superamento della modernità e del suo tipo antropologico («L’uomo è qualcosa che deve essere superato»[74]), che Nietzsche svilupperà attraverso alcune delle figure più celebri del suo pensiero: la morte di Dio, l’avvento dell’Übermensch, il nichilismo, l’eterno ritorno e la volontà di potenza.

Tutto ciò è però estraneo allo scopo di questa relazione, che consisteva nel mostrare la diagnosi della malattia della modernità delineata da Nietzsche e non i rimedi proposti per superare tale condizione di autocontraddizione fisiologica. Una volta applicati tali rimedi, infatti, la modernità verrà superata, e non avrà più alcun senso parlare di essa. 

Ciò che è certo è che finché non avverrà questo superamento, gli uomini (o meglio i superuomini) non potranno vivere pienamente, poiché «vivere – vuol dire per noi trasformare costantemente in luce e fiamme tutto quel che siamo»[75].

           

 

 

 


NOTA BIBLIOGRAFICA

 

Le opere di Nietzsche vengono citate con il titolo, abbreviato in sigla, e il numero del capitolo e dell’aforisma. Nel caso di opere in cui le singole parti e sezioni hanno titoli propri e la numerazione dei paragrafi non è continua (ad esempio la Genealogia della morale e il Crepuscolo degli idoli), la sigla generale dell’opera è seguita dal titolo o dal numero romano della sezione, e poi dal numero del paragrafo o aforisma.

Segue l’elenco delle sigle delle opere – e delle relative traduzioni italiane utilizzate – che compaiono nelle note:

MA (Menschliches, Allzumenschliches) = Umano, troppo umano, volume I; trad. di Mirella Ulivieri, introduzione di Giovanni Maria Bertin, Newton Compton, Roma, 1990.

WS (Der Wanderer und sein Schatten) = Il viandante e la sua ombra (II volume di Umano, troppo umano, parte seconda), idem.

FW (Die fröhliche Wissenschaft) = La gaia scienza; trad. di Ferruccio Masini, nota introduttiva di Giorgio Colli, Adelphi, Milano, 1965 e1977.

Za (Also sprach Zarathustra) = Così parlò Zarathustra; trad. di Sossio Giametta, introduzione e commento di Giangiorgio Pasqualotto, Rizzoli, Milano, 1985.

JGB (Jenseits von Gut und Böse) = Al di là del bene e del male; introduzione, traduzione e note di Sossio Giametta, Rizzoli, Milano, 1992.

GdM (Zur Genealogie der Moral) = Genealogia della morale; trad. di Ferruccio Masini, nota introduttiva di Mazzino Montanari, Adelphi, Milano, 1968 e1984.

GD (Götzen-Dämmerung) = Crepuscolo degli idoli; introduzione e traduzione di Sossio Giametta,  Rizzoli, Milano, 1998.



[1] Cfr. Ippocrate, Prognosticon, 6, 23-24; Id., Epidemie, I, 8, 22.

[2] Nicola Abbagnano suddivide le opere di Nietzsche in quattro  fasi: a) gli scritti giovanili del periodo wagneriano-schopenhaueriano (1872-76); b) gli scritti intermedi del periodo “illuministico” o “genealogico” (1878-82); c) gli scritti del meriggio o di Zarathustra; d) gli scritti del tramonto (1886-1889). N. Abbagnano  - G. Fornero, Fare filosofia, Paravia, Milano, 2001, vol. III, p. 132. 

[3] G. Colli, Nota introduttiva, in La gaia scienza, cit., p. 21.

[4] La problematicità di questo periodo è confermata dai continui spostamenti di Nietzsche: dopo l’ “intermezzo ligure” (trascorso fra Genova e l’idillico monte di Ruta) che chiude il 1886, egli si stabilisce per circa sei mesi a Nizza, ma poi inizia a girovagare tra Cannobio, Zurigo, Coira e Lenz. Trascorre la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno tra Sils-Maria e Venezia. Dal 22 ottobre 1887 è nuovamente a Nizza, dove rimane sino alla fine del marzo del 1888. Il 2 aprile partì per Torino, città dove – il 3 gennaio dell’anno successivo – un eccesso di pazzia avrebbe posto fine alla sua vita cosciente. 

[5] GdM, Prefazione, 8; trad. it. cit. p. 10.

[6] C. Andler, Nietzsche, sa vie et sa pansée, Gallimard, Paris, 1958, II, p. 586 ; trad. it. in Crepuscolo degli idoli, cit., p. 8.

[7] GD, Scorribande di un inattuale, 39; trad. it. cit. p. 127.

[8] Ibidem.

[9] Ivi, 41; trad. it cit. p. 129.

[10] Ibidem.

[11] FW, V, 350; trad. it cit. p. 266.

[12] GD, Scorribande di un inattuale, 48; trad. it. cit. p. 136. Rousseau, che è un costante bersaglio polemico di Nietzsche, è visto non a caso come la radice della tipologia umana più pericolosa: «Vi sono tre immagini dell’uomo che la nostra epoca moderna ha eretto una dopo l’altra e dalla cui visione i mortali prenderanno ancora l’impulso per una trasfigurazione della loro vita: l’uomo di Rousseau, l’uomo di Goethe e infine l’uomo di Schopenhauer. Di queste la prima è la più ardente e può contare su di un’azione più popolare; … dalla prima è derivata una forza che ha spinto ed ancora sospinge a tempestose rivoluzioni; infatti in ogni fremito e terremoto socialista è sempre l’uomo di Rousseau che si muove». III Considerazione inattuale, Schopenhauer come educatore, in Opere complete di F. Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montanari, Adelphi, Milano, vol. III, 1, pp. 394-395.

La fondamentale influenza di Rousseau e del suo “mito” sul pensiero morale e politico di Nietzsche è stata in particolar modo sottolineata da K. J. Ansell-Pearson in Nietzsche contra Rousseau, Cambridge University Press, 1996.

[13] Ivi, 43; trad. it cit. p. 130.

[14] Critica della morale della décadence è il titolo dell’aforisma 35 di GD, Scorribande di un inattuale; trad. it. cit. p. 120 .

[15] GD, Scorribande di un inattuale, 39; trad. it. cit. p. 127.

[16] Ivi, 3; trad. it. cit. p. 99.

[17] GdM, I, 10; trad. it. cit. pp. 25-26.

[18] Ibidem.

[19] WS, 52; trad. it. cit. p. 346. A conferma di questo “carattere comunitario” della coscienza, Nietzsche scrive ne La gaia scienza: «Il mio pensiero è che la coscienza non appartenga propriamente all’esistenza individuale dell’uomo, ma piuttosto a ciò che in esso è natura comunitaria e gregaria. […] Il nostro stesso pensiero viene continuamente, per così dire, messo in minoranza e  ritradotto nella prospettiva del gregge a opera del carattere della coscienza – del “genio della specie” in essa imperante». FW, V, 354; trad. it cit. p. 272.

[20] Ivi, III, 116; trad. it cit. p. 156.

[21] GdM, Prefazione, 6; trad. it. cit. p. 8.

[22] Secondo Ricoeur, in Nietzsche, come in tutti gli altri “maestri del sospetto” «non è la coscienza che è data anzitutto, ma la falsa coscienza». P. Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano, 1977, p. 345. Nietzsche, invece di trattare la coscienza come una cartesiana sorgente di certezza, insegna a diffidarne e a mettere in forse la sua presunta attendibilità gnoseologica.

[23] FW, V, 345; trad. it cit. p. 256.

[24] Ivi, trad. it cit. p. 258.

[25] GdM, Prefazione, 3; trad. it. cit. p. 5.

[26] FW, Prefazione, 3; trad. it cit. p. 33.

[27] GD, Prefazione; trad. it. cit. p. 46.

[28] MA, 1; trad. it. cit. p. 33.

[29] GdM, I, 14; trad. it. cit. p. 37.

[30] Ibidem.

[31] Ivi, Prefazione, 3; trad. it. cit. p. 5.

[32] MA, 45; trad. it. cit. p. 57.

[33] Ibidem.

[34] Ivi; trad. it. cit. p. 58.

[35] JGB, 260; trad. it. cit. p. 237.

[36] Ivi; trad. it. cit. p. 239.

[37] Ivi; trad. it. cit. p. 237.

[38] Ibidem.

[39] GdM, I, 2; trad. it. cit. p. 15.

[40] Ivi, 4; trad. it. cit. p. 17.

[41] Ivi, 10; trad. it. cit. p. 26.

[42] Ivi, 10; trad. it. cit. p. 29.

[43] Ivi, 11; trad. it. cit. p. 29.

[44] Ibidem.

[45] Cifra supra, nota 32.

[46] GdM, I, 16; trad. it. cit. p. 40.

[47] «I giudizi di valore cavalleresco-aristocratici presuppongono una poderosa costituzione fisica, una salute fiorente, ricca, spumeggiante al punto da  traboccare, e con essa quel che ne condiziona la conservazione, cioè guerra, avventura, caccia, danza, giostre, nonché, in generale, tutto quanto implica un agire forte, libero, gioioso» GdM, I, 7; trad. it. cit. p.22

[48] Ibidem.

[49] L’importanza della vendetta, intesa come fondamento della moralità moderna, è sottolineata nell’aforisma La vendetta sullo spirito e altri retroscena della morale. FW, V, 359; trad. it cit. p. 286 e ss.

[50] FW, V, 372; trad. it cit. p. 307.

[51] GD, Il problema di Socrate, 4; trad. it. cit. p. 58.

[52] Ivi, Ciò che devo agli antichi, 4; trad. it. cit. p. 144.

[53] Ivi, Il problema di Socrate, 2; trad. it. cit. p. 57.

[54] Ivi, Il problema di Socrate, 12; trad. it. cit. p. 62.

[55] FW, V, 361; trad. it cit. p. 290.

[56] GdM, I, 8; trad. it. cit. p. 23.

[57] Ivi, 16; trad. it. cit. p. 41.

[58] GD, Morale come contronatura, 4; trad. it. cit. p. 74.

[59] Ivi, Scorribande di un inattuale, 37; trad. it. cit. p. 124. Proprio a partire dal nesso cristianesimo/décadence Nietzsche può sostenere che «la morale, quale è stata finora concepita […]è l’istinto della décadence stesso, che fa di sé un imperativo. Dice: “perisci!” – è il giudizio di un condannato…». GD, Morale come contronatura, 5; trad. it. cit. p. 75.  

[60] GdM, I, 16; trad. it. cit. pp. 41-42.

[61] Iac., I, 2.

[62] GD, Come il “mondo vero” finì col diventare una favola. Storia di un errore; trad. it. cit. p. 69.

[63] «Favoleggiare di un mondo “altro” da questo non ha alcun senso, qualora non prevalga in noi un istinto di denigrazione, svilimento, diffidenza verso la vita; in quest’ultimo caso ci vendichiamo della vita con la fantasmagoria di un’ “altra” vita, di un avita “migliore” ». GD, La “ragione” nella filosofia, 7; trad. it. cit., p. 67.

[64] Nietzsche, a tale proposito, definisce significativamente Kant un «cristiano insidioso». Ivi; trad. it. cit., p. 68.

[65] I. Kant, Critica della ragion pura, B XX; trad. it. di P. Chiodi, UTET, Torino, 1967, p. 46.

[66] GD, Ciò che manca ai tedeschi, 7; trad. it. cit., p. 97.

[67] Ivi, 16; trad. it. cit. p. 108.

[68] GdM, I, 13; trad. it. cit. p. 35.

[69] MA, 57; trad. it. cit. p. 33.

[70] FW, V, 369; trad. it cit. p. 302.

[71] GD, Morale come contronatura, 6; trad. it. cit. p. 76.

[72] GD, Come il “mondo vero” finì col diventare una favola. Storia di un errore; trad. it. cit. p. 70.

[73] Za, Proemio di Zarathustra; trad. it. cit. p. 28.

[74] Ibidem.

[75] FW, Prefazione, 3; trad. it. cit. p. 32.

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