La gabbia d’acciaio:

il destino dell’Occidente secondo Max Weber

 

di Diego Fusaro

 

 

 

«Il nostro destino è di vivere in un’epoca estranea a dio e senza profeti». (M. Weber, La scienza come professione)

 

 

 

 

         È stato detto[1] che le due grandi linee interpretative da seguire, se si vuole capire l’epoca in cui viviamo e il suo destino, sono quelle tracciate da Karl Marx (1818-1883) e da Max Weber (1864-1920): chi intenda venire a capo dell’Età moderna, non ha dunque che da indossare le «lenti» interpretative dell’uno o dell’altro autore , senza però pretendere di sovrapporle, perché esse si escludono a vicenda e, per così dire, restituiscono l’immagine di due mondi diversi e, per molti versi, incompatibili. Il punto comune da cui questi due grandi pensatori prendono le mosse nelle loro indagini è la constatazione che il nostro tempo è signoreggiato da una forza fatale – il capitalismo – che si è imposta con la stessa necessità con cui il destino dominava nelle tragedie greche: e, inscindibilmente connesso a questo problema, che costituisce il fulcro delle loro indagini, ve ne è un altro, quello del destino dell’uomo nel mondo contemporaneo. L’immagine e il destino dell’Occidente che affiorano dalle analisi di questi due pensatori sono, per molti versi, diametralmente opposte, a tal punto che non è illegittimo domandarsi se la realtà che essi hanno preso in esame fosse effettivamente la stessa.

Proviamo ad addentrarci nella prospettiva di Weber, indossando le sue lenti interpretative: le differenze rispetto alla posizione marxiana risulteranno lampanti man mano che delineeremo la prospettiva weberiana. L’idea di Weber è che l’Occidente abbia avuto quello che egli chiama uno «sviluppo particolare» (Sonderentwicklung), diverso da quello di tutte le altre civiltà esistenti: a differenza di queste ultime, infatti, soltanto la civiltà occidentale è stata travolta da una razionalizzazione così radicale e onnipervasiva da investire tutti i sistemi di credenza, le strutture familiari, gli ordinamenti giuridici, politici ed economici, la scienza e addirittura le realizzazioni artistiche. Nel mondo occidentale, non vi è alcunché che non sia razionale; a tal punto che, nella prospettiva weberiana, Occidente è sinonimo di razionalità: una razionalità che s’è potuta dispiegare, nota Weber, non malgrado il Cristianesimo – come si potrebbe essere indotti a pensare –, bensì in virtù di esso. Infatti, al cuore del messaggio cristiano non vi è forse – osserva Weber – quella convinzione dell’assoluta trascendenza del divino (posto nell’«alto dei Cieli»), rispetto al quale la realtà terrestre del nostro mondo è oggettiva, priva di significati magici e, dunque, manipolabile dalla volontà umana? Proprio grazie a questa dicotomia – studiata soprattutto nella Sociologia delle religioni – per la quale, detto molto banalmente, il divino sta in cielo e l’umano sta in terra, l’Occidente ha conosciuto, secondo Weber, il fenomeno di una crescente razionalizzazione giunta all’apice con le scienze, nella loro duplice forma di «scienze della natura», le quali spiegano i fatti fisici, e «scienze dello spirito», le quali comprendono le dinamiche della società. Proprio perché «liberata» dal divino, la terra potè diventare, per i Cristiani, il mondo dell’agire umano e della razionalità. Questa dicotomia, in verità, può suscitare qualche perplessità non appena si consideri il ruolo tutt’altro che favorevole che, storicamente, ha svolto il Cristianesimo istituzionale nei confronti della scienza nell’Età moderna. Ma la forza e  la suggestione dell’analisi weberiana risiedono anche nei dubbi e nelle domande che essa è in grado di suscitare. Ciò che conta, ai fini della nostra analisi, è che per Weber la razionalizzazione crescente viene a configurarsi come un processo aperto, avviato dagli antichi Greci e proseguito – questa la grande novità – dal Cristianesimo, fino a giungere nella contemporaneità.

Il problema della razionalizzazione come processo aperto e come destino dell’Occidente è sviluppato soprattutto nella Scienza come professione, del 1917. In quest’opera, Weber chiarisce come la scienza sia l’aspetto in cui meglio si manifesta la razionalizzazione che ha coinvolto (e che continua a coinvolgere) il mondo occidentale:

 

«il progresso scientifico costituisce un frammento, il frammento più importante, di quel processo di intellettualizzazione (Intellektualisierungsprozesses) a cui sottostiamo da millenni e contro il quale si è soliti pendere posizione in maniera così straordinariamente negativa»[2].

 

Dunque, nella prospettiva weberiana, il processo di razionalizzazione si riscontra soprattutto se si volge lo sguardo alla tradizione scientifica e a due suoi grandi «strumenti» che, secondo Weber, troviamo soltanto nella tradizione occidentale: il «concetto» (Begriff), scoperto da Socrate e adeguatamente sviluppato da Platone, e l’«esperimento razionale» (rationale Experiment), messo a punto dalla tradizione rinascimentale. Grazie a questi due strumenti fondamentali, la razionalizzazione in atto ha potuto dare luogo a un costante progresso scientifico e tecnico, destinato a non esaurirsi mai; proprio nel carattere di perenne work in progress riposa, secondo Weber, la grande differenza che separa sideralmente la scienza dall’arte: «il lavoro scientifico si inserisce nel flusso del progresso (Fortschritt). Nel campo dell’arte, invece, non c’è progresso»[3]. Se, infatti, un’opera d’arte rappresenta, in se stessa, un che di perfetto e di pienamente compiuto, e in quanto tale «non è mai sorpassata, non invecchierà mai»[4], qualcosa di ben diverso accade con la ricerca scientifica, i cui risultati sono sempre provvisori, mai definitivi: «in campo scientifico ognuno di noi sa che in dieci, venti o al massimo cinquanta anni il suo lavoro sarà invecchiato. Questo è il destino (Schicksal), anzi, il senso (Sinn) del lavoro scientifico»[5]. Ciò significa che, molto banalmente, se il Partenone era, di per sé, un traguardo perfettamente raggiunto e non destinato a essere superato, alla stregua di un quadro di Picasso, una scoperta scientifica, per importante e straordinaria che sia, «implica il sorgere di nuove domande e deve essere superata, e quindi invecchiare»[6]. La ricerca scientifica, proprio come la razionalizzazione da cui scaturisce, è un processo aperto, che non può mai dirsi concluso.

Un punto su cui Weber insiste particolarmente, cogliendone pienamente la problematicità e i possibili fraintendimenti che potrebbero scaturirne, è il concetto stesso di razionalizzazione: sostenere che il mondo occidentale va incontro a una sempre più marcata razionalizzazione non significa certo ammettere che, al giorno d’oggi, ciascuno di noi padroneggi concettualmente tutto ciò che gli sta intorno. Paradossalmente, osserva Weber, sa molto di più il selvaggio sulle frecce che utilizza per andare a caccia di quanto non sappia ciascuno di noi sul tram con cui ogni giorno si reca al lavoro. La differenza fondamentale – rileva Weber – sta nel fatto che noi, a differenza dell’indiano, se volessimo, potremmo sapere tutto del tram, poiché nel nostro mondo razionalizzato tutte le cose possono, in linea di principio, essere dominate dalla ragione:

 

«mentre viaggiamo in tram non abbiamo la minima idea di come esso faccia a muoversi, a meno che non siamo dei fisici. Ma neppure abbiamo bisogno di saperlo. Ci basta poter fare assegnamento” sul comportamento della vettura e adeguarvi il nostro, mentre nulla sappiamo di come si costruisca un tram capace di muoversi. Il selvaggio conosce i suoi strumenti in maniera incomparabilmente migliore di noi. […] Dunque la crescente intellettualizzazione e razionalizzazione (zunehmende Intellektualisierung und Rationalisierung) non significa una crescente conoscenza generale delle condizioni di vita a cui si è soggetti, ma qualcosa di molto diverso: la consapevolezza o la fede, che se solo lo si volesse, si potrebbe sempre giungere a conoscenza, ossia che in linea di principio non sono in gioco forze misteriose e irrazionali, ma al contrario che tutte le cose possono – in linea di principio – essere dominate dalla ragione. Ciò non è altro che il disincantamento del mondo (Entzauberung der Welt). Non è più necessario, come faceva il selvaggio (per il quale quelle forze esistevano), ricorrere agli strumenti della magia per dominare o ingraziarsi gli spiriti. A ciò sopperiscono la ragione e i mezzi tecnici»[7].

 

         La vera differenza non sta soltanto nel fatto che chiunque di noi, per quanto sia inesperto di tram e di meccanica, può documentarsi e conoscere quale effettivamente sia il funzionamento di quel mezzo di trasporto: sta anche nel fatto che tutti noi oggi, a differenza del selvaggio, sappiamo che il mondo nel quale viviamo non è popolato da entità misteriose o da spiriti impercettibili, ma è piuttosto il teatro dell’agire umano. Per inesperto e «ignorante» che sia, ciascun individuo delle società occidentali non si sognerebbe mai di pensare che il tram si muova in virtù della presenza di forze magiche e misteriose. E proprio perché è il frutto dell’azione dell’uomo, il tram può essere perfettamente conosciuto in ogni sua componente. Vista da questa angolatura, la razionalizzazione che tutto travolge nel suo avanzare ha un risvolto pratico strepitoso: secondo Weber, essa porta a un vero e proprio «disincantamento del mondo» (Entzauberung der Welt), tale per cui il mondo si va sempre più svuotando degli dèi e delle tante forze misteriose che lo popolavano in passato, dell’aura magica che lo avvolgeva, trasformandosi in semplice oggetto e teatro dell’agire umano. In forza della razionalizzazione crescente (che, come abbiamo visto, fu avviata nel mondo greco), tutto è ricondotto sotto l’egida della ragione, con la conseguenza che il mondo diventa sempre più «mondo dell’uomo» e del suo agire; ben si capisce, in una simile prospettiva, in che senso il cristianesimo abbia contribuito a razionalizzare il mondo, confinando il divino nel regno dei cieli e, con ciò stesso, bandendolo dall’aldiqua. Più precisamente – osserva Weber – la crescente razionalizzazione fa sorgere il disincanto nella misura in cui ci permette di dominare tutte le cose mediante un calcolo razionale, senza più essere succubi di quelle forze misteriose e trascendenti che ormai non hanno più cittadinanza in questo mondo. Ben si capisce, allora, perché per Weber, al giorno d’oggi, l’ateismo sia l’unico modo di pensare realmente onesto e disincantato, che non si abbandona a vane speranze e al tentativo donchisciottesco di spiegare la realtà mondana ricorrendo all’intervento e alla volontà di Dio: «il nostro destino (Schicksal) è di vivere in un’epoca estranea a dio e senza profeti»[8]. È esattamente grazie all’impiego della tecnica e della scienza, le quali producono una sempre maggiore intellettualizzazione del mondo, che il disincanto trova il suo più fertile terreno di sviluppo, concretizzandosi in quell’«agire razionale rispetto allo scopo» sul quale Weber si sofferma diffusamente, ravvisandovi la cifra più autentica dell’epoca moderna. È in questo modo, sull’onda della crescente razionalizzazione, che si è sempre più sviluppato l’«agire razionale», nella sua duplice veste di «agire razionale rispetto allo scopo» (Zweckrationalität) e di «agire razionale rispetto al valore» (Wertrazionalität).

         Nella ricerca weberiana, l’asse del problema della razionalizzazione tende immancabilmente a spostarsi su quello del significato da attribuire al fenomeno del capitalismo: quali sono – si domanda il sociologo tedesco – il ruolo e il significato del capitalismo nel contesto della razionalizzazione in corso? Nella prospettiva weberiana, esso non è che il frutto più autentico del processo di razionalizzazione e dell’agire razionale rispetto allo scopo. Figlio legittimo del processo di razionalizzazione, il capitalismo – osserva Weber – segna il trionfo della razionalità pienamente dispiegata e, di conseguenza, del disincanto di un mondo ormai ridotto a teatro dell’agire umano in vista di determinati scopi. Nella società capitalisticamente strutturata, in ogni ambito domina la ragione, ogni cosa viene razionalizzata e ridotta a calcolo; e non è certo un caso che il capitalismo si configuri come un particolare tipo di società caratterizzata dalla ricerca razionale dei profitti, dall’organizzazione razionale del lavoro formalmente libero, dallo scambio di mercato razionale, da procedure razionali di contabilità, da sistemi politici e legali razionali. Non vi è aspetto che sfugga alla razionalità, e più precisamente alla Zweckrationalität, alla razionalità teleologica, orientata al raggiungimento di un fine. In questo senso, nel quadro teorico di Weber, la razionalizzazione che investe l’Occidente e che si configura come il suo destino si manifesta, nel mondo moderno, non solo come ricerca scientifica, ma anche come capitalismo: a tal punto che potremmo sostenere – radicalizzando il discorso weberiano – che «capitalismo» è un altro modo per dire «razionalità». Com’è noto, il capitalismo era agli occhi critici di Marx la quintessenza dell’ingiustizia, dell’alienazione e della reificazione umana e, proprio perché tale, doveva essere abbattuto in nome di una società diversamente strutturata, in cui trovassero cittadinanza l’uguaglianza e il libero sviluppo delle individualità: invece, per Weber (e questo è il punto privilegiato per comprendere perché le sue lenti interpretative non siano sovrapponibili a quelle marxiane) il capitalismo è l’inaggirabile – necessario e non superabile – esito del processo di razionalizzazione che ha coinvolto tutti i settori, caratterizzando il singolare sviluppo dell’Occidente: detto altrimenti, il capitalismo è per Marx alienazione che deve essere soppressa, per Weber razionalità che deve essere compresa. È qui che si riscontra al massimo grado l’opposizione radicale tra le due prospettive. Se è vero che la razionalizzazione è il tratto essenziale della nostra civiltà, allora è anche vero che il capitalismo, che del processo di razionalizzazione è il punto culminante, è la «vocazione» (Beruf) dell’Occidente, una forza sopravvenuta in maniera fatale e, dunque, inevitabile. Per questa via, nell’analisi weberiana della modernità il capitalismo viene a essere il vero destino dell’Occidente: ad esso Weber dedica buona parte delle sue indagini sociologiche, e in particolare il celebre L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905). La peculiarità del capitalismo moderno – spiega Weber – non deve essere individuata – con Marx – nel principio dell’accumulazione, giacché anche in altri tipi di società propriamente non capitalistiche è radicata, in maniera massiccia, la tendenza all’accumulazione e al profitto. Prendendo le distanze da Marx, che aveva concepito il capitalismo come presente nella sola epoca moderna (a partire dal processo di espropriazione violenta dei produttori dai loro mezzi di produzione), Weber riconosce l’esistenza di un capitalismo anche nell’antichità, al quale dedica studi decisivi come Römische Agrargeschichte (1891), Gründe des Untergangs der antiken Kultur (1896) o Agrarverhältnisse im Altertum (1897). In questo modo, è come se Weber tentasse di tracciare un quadro unitario dello sviluppo dell’Occidente: proprio come la scienza fu avviata nell’antichità grazie alla scoperta socratica del concetto, così anche il capitalismo affonda le sue radici nel mondo antico, anche se è solo nell’epoca moderna che esso si manifesta pienamente nel senso e nei modi in cui ci è noto. Per questa via, il fenomeno del capitalismo viene «razionalizzato», perché ricondotto nell’alveo dello stesso processo di razionalizzazione. Grazie ai suoi studi, Weber perviene alla convinzione che lo spirito del capitalismo non si identifichi con una sfrenata «bramosia di acquisizione»[9], ma possa addirittura coincidere «con l’imbrigliamento o almeno con il temperamento razionale di questo impulso irrazionale»[10]. L’impulso all’accumulazione è caratterizzato nel capitalismo moderno occidentale dal lavoro libero e razionale, che non si incontra in altre società, e in esempi di capitalismo non occidentali. La razionalizzazione occidentale si manifesta apertamente nell’organizzazione capitalistica del lavoro come totale dedizione di sé, nei registri di contabilità, nella stratificazione sociale legata alla produzione economica. A identificare il capitalismo non sono la bramosia e l’accumulo fine a se stesso, ma piuttosto una razionalizzazione di quella sfrenata volontà di possesso, che nelle altre culture resta irrazionale e non disciplinata razionalmente. Anche in questo aspetto è possibile scorgere il «lavoro» della razionalizzazione occidentale. Il problema – dice Weber – è comprendere l’origine concettuale di un’organizzazione razionale della società basata sul concetto di «professione», ossia su una forma di lavoro finalizzata non alla vita e al suo godimento, ma alla riproduzione del lavoro e al lavoro stesso:

 

«da quale ambito concettuale ebbe dunque origine la classificazione di un’attività esteriormente rivolta soltanto al guadagno sotto la categoria della “professione” (Beruf), di fronte alla quale l’individuo si sentiva obbligato[11].

 

         Che cos’è che, concretamente, ha indotto gli individui a vivere il loro «lavoro» (Beruf) come una «vocazione» (Beruf), come il fine ultimo della loro esistenza? Come è noto, Weber tenta di spiegarlo attraverso il riferimento retrospettivo alla religione protestante. Per i Protestanti, in particolare per i calvinisti, il Beruf (la professione) è il compito assegnato da Dio, la vocazione divina. Proprio perché – spiega Weber – la salvezza era, secondo i Protestanti, decretata da Dio ab aeterno, essi ne cercavano gli indizi nel loro successo professionale, alla luce dell’equazione «successo professionale» uguale «salvezza». Infatti, il presupposto su cui poggiavano le loro convinzioni era che, dal successo nel lavoro, si potesse inferire il proprio essere graditi a Dio, il proprio essere da Lui «eletti». Avveniva, in tal maniera, una vera e propria identificazione tra professione lavorativa e professione di fede, tra «lavoro» (Beruf) e «vocazione» (Beruf). Dall’ambivalenza del concetto di Beruf, Weber evince il percorso stesso dell’attitudine intramondana moderna:

 

«nel concetto di professione si esprime quindi quel dogma centrale di tutte le denominazioni protestanti che rigetta la distinzione cattolica dei comandamenti etici cristiani in praecepta e consilia, e conosce come unico mezzo per vivere in maniera grata a Dio non già un superamento dell’eticità intra-mondana da parte dell’ascesi monastica, ma esclusivamente l’adempimento dei doveri intra-mondani, quali risultano dalla posizione di ciascuno nella vita, che con ciò diventa appunto la sua “professione”»[12].

 

         Il successo professionale, l’orientamento ascetico e la razionalizzazione delle risorse e dei profitti racchiudono, nella religione protestante, il segno tangibile dell’elezione: «non il lavoro in sé, ma un lavoro professionale razionale è appunto richiesto da Dio»[13]. L’elemento decisivo, che segna la distanza dei Protestanti dai Cattolici, è secondo Weber «la scomparsa assoluta della salvezza ecclesiastico-sacramentale»[14], a favore dell’elezione deducibile dal successo professionale, nell’«ascesi intra-mondana». È in questo modo che è nato lo «spirito del capitalismo» (Geist des Kapitalismus). Col tempo, questa concezione del lavoro e dell’industriosità andò sempre più perdendo i suoi riferimenti religiosi originari, e alla fine, nel capitalismo moderno, l’attività lavorativa venne configurandosi come fine a se stessa: lo svuotamento dell’attitudine religiosa si è rovesciato – osserva Weber – in un’accumulazione razionale e capitalistica che manca di obiettivi esterni, non essendo più finalizzata a provare la propria salvezza religiosa; ciò equivale a dire che la «razionalità rispetto allo scopo» ha preso il sopravvento sulla «razionalità rispetto al valore» e l’ha sostituita, nella misura in cui non si accumula e non si lavora più in vista di un valore (la salvezza), ma la valorizzazione e l’accumulazione sono diventati essi stessi i fini. È in forza di questo processo messo in moto dall’etica protestante che «come un fantasma di concetti religiosi che furono, si aggira nella nostra vita il pensiero del dovere professionale»[15]. In questo senso, Weber lascia intravedere come, dietro alla razionalità della produzione e della struttura della società, si nasconda un elemento che, in ultima istanza, non è pienamente razionale: quella che Marx aveva definito la «valorizzazione del valore», ossia il bisogno illimitato e irrazionale del capitale di accrescersi. In realtà, Weber non vi insiste adeguatamente, anche alla luce del fatto che l’insistenza su aspetti irrazionali nel cuore del capitalismo avrebbe voluto dire fare entrare in cortocircuito l’analisi dell’epoca moderna come regno della razionalità a trecentosessanta gradi. Il fatto che, nell’ottica weberiana, l’attenzione verso la mondanità si sia ormai slegata dalla sua matrice spirituale, e il lavoro e la produzione siano diventati fini a se stessi, non segna per Weber il trionfo dell’irrazionalità, ma al contrario della razionalità rispetto allo scopo: quello che con i Protestanti era soltanto un «sottile mantello» per proteggere le spalle si è trasformato in un destino fatale, in una «gabbia d’acciaio»[16] (Eiserner Käfig) che deve essere compresa in quanto intimamente razionale. I beni esteriori di questo mondo, che per i Protestanti avevano un valore subordinato, hanno acquisito – spiega Weber – un potere crescente, finendo per rinchiudere l’uomo tra le sbarre inossidabili di un’ineluttabile gabbia d’acciaio:  affermatosi anche (ma non solo: Weber non trascura certo la componente «strutturale») in forza di una particolare attitudine e condotta di vita religiosa, il capitalismo è ormai fondato su una base meccanica, fa del tutto a meno dell’elemento religioso e metafisico, procede ormai autonomamente e alla quale gli individui non possono sottrarsi. Ingranaggio della macchina tecnica svuotata dal suo senso metafisico e religioso, il capitalista non persegue nient’altro se non la propria aspirazione al profitto, che si presenta ormai come una passione puramente agonistica. In questo senso, nella diagnosi weberiana, la razionalizzazione è l’ethos dell’Occidente, oltre che il suo destino: è l’orientamento fondamentale che si manifesta tanto nello spirito del capitalismo quanto in quello del protestantesimo, due manifestazioni in cui appare come, nella realtà occidentale, tutto sia dominato da una razionalizzazione che si impone sempre più radicalmente. È qui che si rivela in tutta la sua evidenza la distanza che separa Weber da Marx, sulla quale è bene spendere qualche parola. Non è eccessivo sostenere che, nella lettura weberiana del capitalismo, manca completamente un’adeguata analisi del «lato cattivo» e irrazionale di questo sistema: non solo lo sfruttamento delle masse dei lavoratori nel regime di fabbrica (aspetto che, comunque, nella prospettiva weberiana potrebbe essere fatto rientrare nella Zweckrationalität), ma anche – e soprattutto – la mancanza di un fine ultimo in vista del quale sia orientata la produzione. Il fatto che oggi si produca in maniera del tutto fine a se stessa non costituisce, per Weber, un elemento di disturbo alla sua teoria della razionalità moderna: in altri termini, per Weber non fa problema il fatto che la produzione non risponda più ad alcun obiettivo se non all’autovalorizzazione del capitale, assurta a fine ultimo. Egli risolve il problema sostenendo che anche questo rientra nella razionalità teleologica, e anzi contribuisce a fare della società capitalisticamente strutturata la più razionale tra quelle finora esistite. È questo, indubbiamente, uno dei limiti più macroscopici della ricerca weberiana. Spetta invece all’analisi marxiana il merito di aver denunciato con coerenza la perdita di senso che caratterizza l’epoca moderna, in balia del dominio dei suoi stessi prodotti e del suo «modo di produzione», che si serve degli individui (dei capitalisti non meno che degli operai) come di altrettante marionette per accrescere il capitale. Si può davvero dire che questo movimento di autovalorizzazione del capitale sia in sé razionale? Se le lenti weberiane ci restituiscono un’immagine del moderno come epoca della razionalità pienamente affermata, del disincantamento del mondo completamente impostosi, quelle marxiane ci fanno vedere un mondo che è tutto fuorché razionale, un mondo spettrale e stregato in cui le merci dominano gli uomini, un mondo in cui i veri protagonisti sono i mercati, dei quali gli individui non sono che gli intermediari. È qui che si staglia dinanzi a noi il bivio: da una parte, l’analisi weberiana, secondo cui la produzione capitalistica è razionalità che deve essere compresa; dall’altra, la lettura marxiana, secondo cui il modo di produzione capitalistico è irrazionalità alienante che deve essere abbattuta. 

         Cerchiamo di scoprire dove porta la strada weberiana, e chiediamoci, in particolare, come debba agire, in concreto, l’uomo contemporaneo, rinchiuso nella «gabbia d’acciaio» del capitalismo. Se per Marx, come è noto, quella gabbia ha un destino, per Weber, al contrario, essa è un destino: non è possibile forzarne le sbarre e tentare la fuga, come sperava Marx; si tratta piuttosto di cercare al suo interno qualche chance di libertà. È stato soprattutto Karl Löwith a mettere in luce come per Weber il capitalismo si profili autenticamente come destino dell’Occidente che deve essere studiato per capire il «destino umano del mondo contemporaneo»[17]. In particolare, diceva Löwith, quella di Weber viene a configurarsi, nel suo complesso, come «un’analisi critica dell’uomo contemporaneo della società borghese secondo il filo conduttore dell’economia capitalistico-borghese, sulla base dell’esperienza rivelante che l’“economia” è divenuta “destino” dell’uomo»[18]. Il capitalismo viene da Weber analizzato – spiega Löwith – «dal punto di vista neutrale, ma, quanto alla valutazione, ambiguo, di una razionalizzazione universale ed inevitabile»[19]. È stato efficacemente scritto che quella weberiana si configura, in un’ultima analisi, come una «assunzione postmetafisica del destino ineluttabile dei vincoli dell’economia trasformata in gabbia d’acciaio»[20]. Proprio perché inevitabile, in quanto coincidente con il processo di razionalizzazione dell’Occidente, «per Weber è proprio questa razionalità il luogo della libertà»[21], di una libertà che riguarda sempre i singoli individui (mai le classi) e il loro agire. Proprio come nell’etica protestante, nella gabbia del capitalismo è sempre il singolo individuo a potersi salvare, a potersi ritagliare spazi in cui muoversi liberamente: la libertà e la «salvezza» riguardano sempre l’individuo, mai le classi o, più in generale, l’umanità nel suo complesso. In una simile prospettiva, si può sostenere che la razionalizzazione e il capitalismo, le due facce del destino dell’Occidente, si configurano per Weber come le condizioni per lo sviluppo della «libertà dell’individuo affidato a se stesso e responsabile di sé, dell’“eroe umano”, messo a confronto con la supremazia degli “ordinamenti”, delle “disposizioni”, delle “attività”, delle “organizzazioni”, e delle “istituzioni” della vita moderna, effetti tutti della razionalizzazione»[22]. L’uomo tra i flutti del capitalismo non deve, secondo Weber, illudersi di poterne forzare le sbarre per evadere (come invece sperava Marx): deve piuttosto cercare, senza illusioni e chimere, le chances di libertà all’interno di una gabbia le cui sbarre sono quelle di un destino inevitabile, che deve essere accettato e, soprattutto, spiegato. In un mondo disincantato, senza dio né profeti, in cui la realtà si mostra direttamente, senza maschere né illusioni, è per Weber infantile nascondersi dietro a vane speranze e a pie illusioni, siano esse quelle religiose dei monoteismi o quelle secolarizzate del marxismo; si tratta piuttosto di accettare «virilmente» (männlich), secondo il suggerimento della Scienza come professione, il proprio destino, affrontandolo e cercando di agire liberamente all’interno della gabbia. In questa prospettiva weberiana non è difficile ravvisare i prodromi di quella teoria della «fine della storia» che, sul finire del «Secolo breve», assumerà la forma patologica di un sentire comune, pur venendo declinata in forme diverse (si spazia da quella sobria e quasi impercettibile di un Ralf Dahrendorf, a quella grottesca di un Francis Fukuyama o, ancora, a quella raffinata di un Jürgen Habermas, in cui le classi e i conflitti spariscono enigmaticamente al cospetto di «agire comunicativo» tra individui liberi e uguali): al di là delle diverse sfumature e delle specificità che essa assume a seconda dell’autore considerato, l’idea generale su cui si regge la teoria della «fine della storia» è, notoriamente, quella secondo cui, col capitalismo, la storia giungerebbe alla sua mèta ultima, configurandosi esso – in perfetto accordo con la diagnosi weberiana – come vero e proprio destino dell’Occidente, come suo traguardo invalicabile. Benché Weber non abbia vissuto abbastanza a lungo per tentare di suffragare la sua tesi mediante l’implosione dell’Unione Sovietica e la caduta del Muro (come invece non esita a fare, tra gli altri, Fukuyama), l’idea che l’insuperabile futuro dell’Occidente sia il capitalismo è in lui solidamente radicata.

         Come dicevamo, è nella gabbia che, per Weber, bisogna cercare la libertà: in particolare, in quella gabbia, osserva il pensatore tedesco, vi è un proliferare rigogliosissimo di valori e di visioni del mondo caleidoscopiche ed eterogenee, un vero e proprio «politeismo dei valori» sconosciuto a tutte le epoche del passato:

«tra i diversi ordini valoriali (Wertordungen) del mondo c’è una lotta insanabile. Diceva il vecchio Mill, la cui filosofia non intendo elogiare, ma che su questo punto aveva ragione: se si parte dalla pura esperienza si perviene al politeismo (Polutheismus). Nonostante la formulazione semplicistica e l’apparente paradossalità di questa affermazione, in essa c’è del vero. Se non altro, almeno questo oggi è certo: ciò che è santo lo è non solo anche se non è bello, ma perché e finché non è bello […]. E parimenti, che ciò che è bello non lo è sebbene, ma in quanto non è buono, questo lo sappiamo nuovamente da Nietzsche ed era già stato espresso da Baudelaire nei Fleurs du mal. […] E ancora, è la sapienza popolare a dire che qualcosa può essere vero sebbene e in quanto non sia bello, buono e santo»[23].

         In questa prospettiva, in cui proliferano valori di ogni tipo, senza che nessuno di essi predomini sugli altri, ciascuna delle realizzazioni dell’età moderna finisce per rispondere solamente a sé, smarrendo ogni punto di contatto con le altre realizzazioni, con la paradossale conseguenza per cui ciò che è buono non per questo è anche vero, e ciò che è bello non per questo è anche buono. Si attua cioè un autentico frazionamento prismatico dei valori, dinanzi al quale l’individuo, come accadeva con gli antichi Greci, può chinare il capo a uno dei tanti «dèi» trascurando gli altri:

«come i greci offrivano sacrifici chi ad Afrodite e chi ad Apollo, ma soprattutto ciascuno agli dèi della propria città, così avviene ancor oggi, solo disincantati (entzaubert) e spogliati dal rivestimento mitico ma intimamente vero di quel comportamento»[24].

         Non bisogna rigettare il politeismo in nome di un mondo diverso e più giusto: al contrario, secondo Weber, bisogna accettarlo «virilmente», giacché anch’esso rientra nel destino dell’Occidente: e, secondo il grande insegnamento dei Greci, il destino deve essere accettato; la grande difficoltà non è, dunque, quella di superare il proprio mondo, ma piuttosto quella di «riuscire a essere all’altezza di una realtà quotidiana di questo tipo»[25], una realtà che si è abbattuta su di noi in maniera ineluttabile e alla quale dobbiamo reagire eroicamente, riconoscendola come necessaria e intrascendibile. Occorre dunque scegliere uno dei valori che proliferano nella gabbia e seguirlo fino in fondo, come una vera «vocazione», prestando ascolto «al demone che tira le fila della propria vita»[26]. Secondo l’ammonimento di Weber, «è una debolezza non saper guardare negli occhi il destino del proprio tempo»[27].

 

 

 



[1] Cfr. K. Löwith, Max Weber und Karl Marx, 1932; tr. it Max Weber e Karl Marx, in Marx, Weber, Schmitt, Laterza, Roma – Bari 1994.

[2] M. Weber, Wissenschaft als Beruf, 1917; tr. it. La scienza come professione, Rusconi, Milano 1997, a cura di P. Volontè, p. 87.

[3] Ivi, p. 83.

[4] Ivi, p. 85.

[5] Ibidem.

[6] Ibidem.

[7] Ivi, pp. 87-89.

[8] Ivi, p. 89.

[9] M. Weber, Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie; tr. it. Sociologia della religione, 4 voll., I, Protestantesimo e spirito del capitalismo, Edizioni di Comunità, Torino, 2002, p. 8.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, p. 60. Corsivo mio.

[12] Ivi, p. 67.

[13] Ivi, p. 160.

[14] Ivi, p. 90.

[15] M. Weber, Die protestantische Ethik und der “Geist” des Kapitalismus, 1905; tr. it. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 1965, a cura di P. Burresi, p. 305.

 

[16] M. Weber, Protestantesimo e spirito del capitalismo, cit., p. 185.

[17] K. Löwith, Max Weber e Karl Marx, cit., p. 5.

[18] Ivi, p. 11.

[19] Ivi, p. 12.

[20] C. Preve, Il convitato di pietra. Saggio su marxismo e nichilismo, Vangelista, Milano 1991, p. 21.

[21] K. Löwith, Max Weber e Karl Marx, cit., p. 30.

[22] Ivi, p. 27.

[23] M. Weber, La scienza come professione, cit., p. 111.

[24] Ivi, pp. 111-113.

[25] Ivi, p. 113.

[26] Ivi, p. 133.

[27] Ivi, p. 115.

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