INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA EBRAICA

 

A cura di Giada Coppola

 

 

 



Fare un'introduzione alla filosofia ebraica risulta alquanto complesso almeno fino al I sec. dell'Era Volgare, quando con Filone di Alessandria si stabilisce il primo originale incontro tra il giudaismo e la filosofia greca, ci risulta difficile comprendere il significato che possiamo attribuire ad un concetto originale di “filosofia”. Molti studiosi, tra i quali  Colette Sirat, sottolineano la complessità di definire in particolare il concetto di filosofia ebraica : “Filosofia ebraica non significa, quindi una filosofia elaborata da un ebreo; non significa nemmeno una filosofia le cui fonti siano ebraiche [...] Questo significa che una data filosofia, apparsa ad un certo momento della storia umana, è stata accostata alla tradizione ebraica e che si sono messi in rilievo i tratti comuni a certi testi del patrimonio culturale ebraico e a questo sistema di pensiero. In questo senso i testi che costituiscono la 'filosofia ebraica' sono raramente testi di filosofia pura” ( Colette Sirat La filosofia ebraica medievale, secondo testi editi e inediti. A cura di Bruno Chiesa Paideia Brescia 1990. Introduzione pp. 21-22)

E' quindi evidente che per comprende lo sviluppo della tradizione e della cultura ebraica occorre esaminare almeno i testi che sin dall'origine sono stati al centro delle speculazioni e dei dibattiti del popolo di Israele e che, sicuramente, attraverso la loro interpretazione e rielaborazione sono alla base di tutti quei sistemi di pensiero che rimangono vivi all'interno del giudaismo – parlo qui di sistemi di pensiero proprio perché accanto alla filosofia anche altre correnti come il misticismo, espresso pienamente dalla Qabbalah, o altre forme di ascetismo hanno indubbiamente contribuito alla formazione di un monumentale corpus che rafforza le fondamenta della più antica e millenaria tradizione ebraica.

Ovviamente il primo testo che dobbiamo tenere in considerazione e che costruisce non solo lo speciale rapporto tra un popolo e il Suo Dio, ma soprattutto sancisce e regola la vita dell'uomo e dell'intera comunità è la Torah, ovvero i cinque libri che formano il Pentateuco: Genesi, Bereshit ; Esodo, Shemot ; Levitico Vaykrà; Numeri Bamidbar; Deuteronomio, Devarim. ( i nomi dei libri che formano il Pentateuco in ebraico sono così chiamati dall'incipit di ogni singolo libro, Bereshit infatti vuol dire “In principio”; Shemot “Nomi”; Vaykrà “Egli chiamò”; Bamidbar “Nel deserto”: Devarim “Parole”). Aggiungo qui anche una breve nota poiché spesso erroneamente parlando di Torah  si vuole intendere, in senso più generale, la Bibbia. Per indicare tutto l'Antico Testamento si usa TaNaCh che è l'acronimo di tutte e tre le sezioni che compongono la Bibbia ebraica, Torah, il Pentateuco appunto, Ne'vim, i libri dei profeti, e Ketuvim, gli scritti.

Accanto a questa tradizione scritta che può essere semplicemente indicata come “Torah Scritta” (Torah shebikhtav), è ben viva e presente nell'ebraismo una ancora più copiosa tradizione orale o “Torah Orale” (Torah shebal'pe) che fu quella tramandata direttamente da Dio a Moshe sul Monte Sinai attorno alla quale si costruirà l'intero assetto del Talmud.



 

Talmud

 

Prima di introdurre il contenuto del Talmud è indispensabile sottolineare come, all'interno del pensiero ebraico, possiamo individuare, anche solo attraverso una lettura superficiale, diversi piani di lettura elaborati dai più antichi Maestri di Israele e dalla scuole che sin dal I sec. a.e.v. hanno fatto il loro ingesso all'interno della scena culturale e  sono entrati appieno nella tradizione ebraica. Abbiamo prima parlato di una “Torah Scritta” e di una “Torah Orale”. Il Talmud è la raccolta e rielaborazione della Legge trasmessa da Dio a Moshe sul Monte Sinai quindi della cosiddetta “Torah Orale”. A questo punto è già possibile distinguere due piani di interpretazione che contraddistinguono e convivono assieme non soltanto all'interno del pensiero ebraico ma vengono a costituire la struttura portante del Talmud: Halachah e Aggadah.

L'Halachah coglie l'aspetto giuridico e normativo (Halach in ebraico significa “via”), l'Aggadah (Racconto) invece raccoglie l'aspetto narrativo-omelitico.  Vorrei qui riportare una breve citazione di Emmanuel Levinas che comprende appieno la duplice valenza delle due componenti della Legge ebraica che spesso sembrano in antitesi ma che in realtà sono due facce della stessa medaglia ( per un approfondimento rimando anche all'opera di  Chaim Nachman Bialik Halachàh e Aggadah, a cura di Andrea Cavalletti, Bollati Boringhieri, Torino 2006)

Emmanuel Levinas in una delle sue ri-letture talmudiche contenute in “Dal Sacro al Santo. La tradizione talmudica nella rilettura dell’ebraismo postcristiano” commentando il Trattato Baba Kama 60a-60b coglierà raffinatamente quella sottile differenza tra Halachàh e Aggadah « Rabbi Assì e Rav Anì erano seduti davanti a Rabbi Jtzchaq, il fabbro. L’uno gli chiese di trattare di Halachàh, e l’altro di trattare di Aggadah. Quando quegli cominciava una Halachàh, il secondo glielo impediva; quando cominciava un Aggadah, il primo glielo impediva.

Rabbi Jtzchaq è fabbro. Sa come maneggiare pacificamente il fuoco. Sicuramente, non è qui per caso.[…]

Allora disse loro: Vi racconterò una parabola. Questa è simile a un uomo che ha due mogli, una giovane e una vecchia; la giovane gli strappava i capelli bianchi, la vecchia gli strappava i capelli neri:al punto che diventò calvo dai due lati.

[…] Esistono Aggadah e Halachàh. Aggadah e Halachàh sono nel nostro testo paragonate a giovinezza e vecchiezza. Io poco fa le definivo altrimenti, dicendo: L’Halachàh è il modo di comportarsi; l’Aggadah è il significato filosofico – religioso e morale – di questo comportamento. Ma non è sicuro che le due definizioni si contraddicano. E’ evidente che i giovani giudicano l’Halachàh come capelli grigi, pure forme: forme che hanno perduto il loro colore. La moglie giovane li strappa: i giovani interpretano fino a sradicare le radici dei termini. La moglie vecchia è il punto di vista tradizionale: l’ortodossia che prende i testi alla lettera. Li conserva nel loro deterioramento. Per lei non ci sono testi da ringiovanire: il capello bianco va ancora bene. Ha il suo valore. Strappa invece i capelli neri, che rappresentano la virilità, l’impazienza e l’interpretazione apportatrici di rinnovamento. Si tratta della stessa divisione della comunità d’Israele, della sua spaccatura tra giovinezze e non-giovinezza. Dappertutto allora c’è violenza. Siffatta divisione in giovani e vecchi, siffatta separazione in rivoluzionari e tradizionalisti, è condannata. Contro il culto della tradizione e contro il culto della modernità! In essi va perduta la sovranità dello spirito. Gli uni vogliono rinnovare fino al recupero di una religione a base di danze e spettacoli; gli altri, per rispetto dei capelli bianchi, vedono dappertutto frivolezza. Ora, lo spirito non è bigamo! Il terribile di questa bigamia dello spirito simboleggia le due donne, la vecchia e la giovane; la maturità come conservatorismo, e la giovinezza come ricerca del nuovo ad ogni costo. Rabbi Jtzchaq il fabbro trae una conclusione:

Allora egli disse loro: Vi darò una storia che piacerà a tutt’e due.

In altre parole: Vi darò una Halachàh che è un’Aggadah e un’Aggadah che è una Halachàh.

Se un fuoco divampa e raggiunge dei rovi, e avanza da sé, allora chi appiccò il fuoco deve pagare.

Ma ecco subito la Halachàh trasformata in Aggadah, o, più esattamente, messa in relazione con una Aggadah letta come Halachàh:

Il Santo- benedetto sia- dice: Ho acceso un fuoco in Sion, come è detto: “ Egli accende un incendio in Sion, che ne ha divorato perfino le fondamenta” ( Lamentazioni 4, 11) e la ricostruirò un giorno col fuoco, com’è detto ( Zaccaria 2,9 ): “E io sarò per lei una muraglia di fuoco tutt’intorno, e sarò motivo di gloria in mezzo ad essa.» 

Dal Sacro al Santo, introduzione di Sofia Cavalletti, Città Nuova, Roma 1985 pp. 154-156.

Il Talmud che significa propriamente “studio, insegnamento”- ma che può assumere anche il significato di “dottrina”-  indica non solo la “Torah Orale” ma anche, in senso lato, il libro che contiene gli insegnamenti trasmessi a Moshe.  Abbiamo, a partire dalla complessità della tematica e soprattutto dalle differenti scuole e Accademie, due diverse scuole talmudiche che hanno redatto due distinte edizioni del Talmud: il Talmud babilonese Talmud Bavli ( quello a cui generalmente si fa  riferimento ) e il Talmud gerosolimitano o palestinese.

Una prima codificazione della Torah Orale è avvenuta attorno al II sec. e.v. con Rabbi Yehudah ha-Nassì  ed è proseguita sino al III / IV sec. ; a questa suddivisione corrispondono anche i due “livelli” attraverso cui il Talmud si articola la Mishnah (Ripetizione) che è la raccolta delle più antiche discussione dei Maestri e dei Sapienti di Israele e la Gemarah (Completamento) che fornisce un commento alla Mishnah.






La filosofia ebraica medievale fino al XII secolo.

 

 

 

La filosofia ebraica medievale, richiamandomi sempre agli studi compiuti da Colette Sirat (La Filosofia ebraica medievale secondo i testi editi e inediti; a cura di Bruno Chiesa, Paideia, Brescia 1991), può essere suddivisa sommariamente in due periodi: il primo che parte dal pensiero filosofico di Saadia Gaon (882-942) e arriva sino a Moshè ben Maimon, Maimonide (1138-1204); e il secondo che da Maimonide prosegue fino all'era moderna.

Questa suddivisione ci permette di comprendere sin da subito la centralità del pensiero e delle speculazioni filosofiche di Maimonide, il quale diventa realmente una auctoritas del pensiero e della tradizione ebraica. E’ attraverso la sua ricerca che è possibile integrare un sistema filosofico che fino all’anno mille appariva in antitesi con la tradizione ebraica. Questo segna un punto di svolta per il pensiero ebraico che permette un’apertura verso la cultura e la tradizione latina.

La filosofia ebraica medievale nasce e si sviluppa all'interno del contesto arabo, in Palestina, Mesopotamia e nella penisola araba vengono istituite le prime scuole di pensiero che prendono le distanze dalle classiche scuole talmudiche. I primi filosofi ebrei, non a caso, si richiamano pienamente alle dottrine ispirate ai movimenti teologici musulmani, i mutakallimun ( letteralmente “parlanti”, Teologi Musulmani, coloro che studiano il Kalam, letteralmente “discorso”) il cui confronto rimarrà sempre vivo almeno fino a Maimonide (cfr. la prima parte del Moreh ha-Nevukim, la Guida dei Perplessi) e sarà comunque ripreso dagli autori del neoplatonismo ebraico.

Tra il X e il XII secolo la filosofia greca fa il suo ingresso all'interno del pensiero ebraico. La filosofia  medievale ebraica, in questo periodo, è peculiarmente neoplatonica. Già a partire dal IX secolo gli scritti di Plotino e di Proclo iniziano a circolare in ambiente arabo, con le prime traduzioni dai testi originali greci, i trattati che ne fungono da commento, assieme ad opere tipicamente originali.

Una prima differenza con i secoli precedenti può essere individuata già da uno “spostamento” geografico dei suoi esponenti, i filosofi provengono infatti dall'Africa Settentrionale (Egitto, Tunisia) e dall'Andalusia; tutti i filosofi ebrei si esprimono e scrivono in arabo (eccezion fatta per i commenti halachici e per quelli talmuduci che ovviamente continuano ad essere scritti in ebraico).

Tra i testi che fanno da riferimento ai filosofi ebrei di questi secoli sicuramente possiamo annoverare: la Teologia di Aristotele ovvero una parafrasi araba di alcune parti delle Enneaidi di Plotino; il Liber de Causis l'elaborazione di alcuni passi dell' Elementatio theologica di Proclo realizzata probabilmente da al-Kindi; le opere filosofiche di al-Kindi; il Libro delle cinque sostanze dello pseudo-Empedocle (cfr. La filosofia ebraica medievale. Storia e testi, Mauro Zonta, Laterza, Bari 2002).

Tra gli esponenti del neoplatonismo ebraico dobbiamo assolutamente ricordare Isaac ben Shelomoh Israeli (850-932 o 955), Shelomon ben Yehudah Ibn Gabirol (1021-1058 ca), Abraham Ibn Ezra (1089-1164).

Possiamo parlare di un vero e proprio aristotelismo ebraico a partire dalla prima metà del XII secolo in Andalusia. Ovviamente la difficoltà di integrare la filosofia di Aristotele con le dottrine filosofiche, e soprattutto con la tradizione teologico-religiosa del pensiero ebraico e arabo, ha sicuramente attardato l'ingresso del Filosofo all'interno della tradizione ebraica. 

I testi di Aristotele sono comunque mediati dall'influsso neoplatonico e dalle interpretazioni dei suoi commentatori classici come Temistio e Alessandro di Afrodisia, nonché dagli insegnamenti e dai commenti dei filosofi arabi, pensiamo a Ibn Rushd (Averroè) e Ibn Sina (Avicenna).

L'aristotelismo ebraico nasce anche come opposizione al forte influsso neoplatonico che dominava il pensiero di quei secoli, sicuramente il Libro del Cazaro di Yehudah ha-Lewi (1075-1141) ha contribuito allo sviluppo dello studio del rapporto tra filosofia e religione facendo da precursore a queste tematiche.

Abraham Ibn Daud (1110-1180) fu il primo ad introdurre nella filosofia ebraica le dottrine aristoteliche tentando di mostrare una possibile correlazione tra la filosofia del Maestro e la Torah.

Sicuramente l'approccio al pensiero di Aristotele in Andalusia è avvenuto anche attraverso la mediazione di un filosofo arabo musulmano Ibn Bāggia il quale lo aveva introdotto attraverso l'interpretazione di Al-Farabi.

Moshè ben Maimon (1138-1204), Maimonide, fu il primo filosofo ebreo a dimostrare che la filosofia di Aristotele non si pone assolutamente in opposizione agli insegnamenti della Torah, al contrario la Filosofia deve e può essere usata come strumento di interpretazione della Legge. L'antitesi apparente tra la filosofia greca e la tradizione ebraica è sciolta dunque da Maimonide che con arguta finezza è riuscito a conciliare le due posizioni perfezionando dunque le tematiche affrontate in parte da Abraham Ibn Daud.





Haskalah

 

 

Vorrei qui fornire una breve parentesi sul pensiero filosofico ebraico in età moderna e contemporanea. Già a partire con le speculazioni filosofiche di Spinoza ha luogo una sostanziale rottura con il pensiero ebraico tradizionale, ma è proprio con l’avvio del XVIII secolo che il pensiero ebraico tende verso una svolta ben più radicale, infatti con  il termine Haskalah si vuole indicare quel movimento che fa capo alle idee diffuse con l'età dei lumi nell'Europa del Settecento e che in un certo qual modo vengono fatte proprie all'interno del pensiero ebraico.

Haskalah quindi sta letteralmente a significare l'Illuminismo ebraico, nato e sviluppatosi all'interno del pensiero e della tradizione ebraica. Questo movimento coincide ovviamente con una grande svolta politica che ha scosso l’intera l'Europa del XVIII sec. e che senza dubbio ha contribuito all’emancipazione ebraica (nel 1796 infatti la Francia, l'Inghilterra e l'Olanda attribuiranno i medesimi diritti agli ebrei che vivono all'interno del proprio Stato, facendoli diventare così cittadini a tutti gli effetti). Gli ebrei dunque “escono dal ghetto”, non soltanto nell'accezione fisica e tangibile del termine, ma “l'uscire dal ghetto” sta realmente a significare un “emancipazione”  culturale e spirituale.

Questo indubbiamente produce una vera e propria rottura con il passato, già comunque avvenuta in parte con Spinoza che attraverso le sue posizioni “poco ortodosse” viene scomunicato dalla comunità ebraica di Amsterdam (1656), ma è proprio in questo momento che la questione identitaria diventa centrale all'interno dell'ebraismo e  certamente il movimento dell'Haskalah ha contribuito a mantener viva questa discussione in particolar modo rispetto alla questione dell’assimilazione del popolo ebraico all’interno della società. Non è un caso infatti che in quegli stessi anni un movimento contrario e speculare viene a crearsi sempre in Europa che al contrario pone i suoi principi nell'Ortodossia religiosa.

Moses Mendelsshon (1729-1786) ha sicuramente contribuito alla diffusione delle dottrine illuministe in ambiente ebraico ed è uno degli esponenti più importanti dell'Haskalah. Oltre ad essere un intellettuale è doveroso ricordare i suoi contributi al pensiero filosofico - Heinrich Graetz sottolineerà come questo così sottile e ingegnoso pensatore abbia studiato da autodidatta - e all'interpretazione della Torah che non possono essere considerati assolutamente secondari, egli infatti sarà un  meticoloso interprete ed esegeta delle Scritture, e soprattutto del pensiero di Maimonide.

 

 

 

 

Saadia Gaon

 

 

 

Sa'adyah ben Yosef al-Fayyumi noto con il nome di Saadia Gaon (882-942) è sicuramente il più importante filosofo ebraico della prima metà del IX secolo. Secondo Abraham Ibn Ezra : “Saadia Gaon fu il primo a prendere la parola in tutti i campi (del sapere)”. Egli infatti scriverà numerose opere e trattati dalla filologia ebraica all'esegesi biblica, dalla letteratura religiosa (compose infatti un'opera sul calendario ebraico e numerosi commenti al Talmud) a trattati di teologia.

Saadia Gaon nasce in Egitto, ma ben presto, nel 915, lasciò la sua famiglia per un lungo viaggio verso Palestina, Iraq e Siria. Nel 928 fu nominato “ga'on”, capo appunto, dell'accademia ebraica di Sura in Mesopotamia, questa carica gli fu senza dubbio affidata non solo per essere un grande conoscitore della lingua ebraica ed esegeta biblico ma anche per le sue profonde conoscenze in ambito di diritto e di astronomia.

Indubbiamente le sue conoscenze filosofiche possono essere ricondotte all’ambiente arabo, in cui vive e produce tutte le sue opere, e sicuramente ha una  conoscenza diretta del pensiero delle scuole mutazilite del kalam islamico; Saadia Gaon  non conosceva direttamente i testi e le dottrine del pensiero antico ma le sue conoscenze sono mediate dai commenti dei pensatori tardo-antichi tradotti in arabo (cfr. Mauro Zonta La filosofia ebraica medievale, Laterza Bari 2002).

Accanto ad un trattato sul lessico ebraico, il Sefer Agron, Libro del Lessico, le sue due opere più importanti sono il Tafsir Kitab al-mabadi, Commento al libro della creazione (in ebraico Perush Sefer Yetzirah), e il Kitab al-Amanat wal-I-tiqadati, il Libro delle credenze e delle convinzioni (in ebraico Sefer 'Emunot we-De'ot).

Le tematiche affrontate, ma soprattutto la suddivisione in capitoli e la metodologia dell’indagine filosofica, nel Kitab al-Amanat sono sicuramente riprese direttamente dai trattati mitaziliti infatti nei primi due capitoli, Saadia Gaon si occuperà della questione sull'unità di Dio, negli altri sette invece della Giustizia divina. Il decimo capitolo fungerà da una sorta di appendice dell'intera opera, sicuramente aggiunto a posteriori.

I primi capitoli dunque hanno come tema la creazione del mondo. Saadia Gaon introduce qui la teoria della conoscenza che egli chiama “convinzione”: «Si tratta di una nozione che si costituisce nell'anima per ogni cosa conosciuta conformemente a quello che essa è in realtà [...] l'intelligenza la incorpora, la ingloba e la fa pervenire nell'anima» (cfr. Colette Sirat, La Filosofia ebraica medievale secondo i testi editi e inediti, Paideia Brescia p.45) Quindi  questa “convinzione” che si produce all’interno dell’anima umana deve essere attinta da tre fonti: la realtà esterna (la conoscenza attraverso i sensi), la ragione (la conoscenza intellettiva) e la conoscenza del bene e del male, a questi tre principi si deve necessariamente aggiungere un'altra fonte la tradizione della Torah (sia Orale che Scritta).

La questione della creazione del mondo apre indubbiamente la strada ad un’altra problematica che Saadia Gaon affronterà con molto scrupolo e attenzione: Dio. Secondo Saadia Gaon Dio non può essere assolutamente definito e compreso attraverso le dieci Categorie aristoteliche poiché,  per il filosofo, Dio trascende tutte le categorie, tutti gli attributi che vengono riferiti a Lui non possono essere qualificativi ma debbono necessariamente coincidere con la sua essenza, proprio perchè Dio è Uno e Unico (questa tematica verrà ripresa e sviluppata da Maimonide). Tutti gli attributi che vengono relati a Dio, come si legge anche dalle Scritture quando si parla di “la mano di Dio” la “voce di Dio” sono soltanto formule che servono per farLo comprendere agli esseri umani. Non bisogna quindi cadere nell’errore ed interpretare questi versi letteralmente poiché si cadrebbe necessariamente nell'antropomorfismo del Dio, ma come Saadia Gaon dimostrerà proprio in questo suo trattato e  nel Tafsir Kitab al-mabadi Dio è incorporeo e trascende, appunto, qualsiasi categoria che l’intelletto umano è costretto ad utilizzare per la comprensione del mondo esterno.

Secondo Saadia Gaon esistono quattro prove per dimostrare la creazione del mondo da parte di Dio: «1) se il mondo, che è limitato nello spazio, si muovesse da solo, anche la forza che lo muove sarebbe limitata; poiché se il mondo si muove perpetuamente, è necessario che il motore del mondo sia una forza diversa dal mondo. 2) il mondo è fatto di parti, che ora si uniscono ora si separano; ma né la separazione né l'unione sono per loro essenziali; bisogna pertanto ammette che una forza esteriore le riunisce e le separa al fine di formare i corpi, piccoli come le piante o grandi come le sfere; questa forza è Dio creatore; 3) La terza prova è basata sugli accidenti; tutto, in questo mondo, è formato da una sostanza necessaria e da accidenti [...] dato che nulla è sprovvisto di accidenti, che si susseguono l'un l'altro nello stesso corpo e cambiano in continuazione, è necessario che Dio produca questi cambiamenti. 4) La quarta prova è dedotta dal tempo, che è finito; se infatti la successione degli istanti fosse infinita, non potrebbe essere ripercorsa dal pensiero; solo una successione che abbia un inizio temporale può spiegare l'esistenza del mondo nel presente» (Cfr. Collette Sirat, La filosofia ebraica medievale, p.47).

 

 


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