INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA DELL’EDUCAZIONE

di Antonietta Pistone

 

 

Quando si parla di educazione bisogna fare un distinguo tra l’attività spontanea ed involontaria, rivolta a dirigere il comportamento dei ragazzi secondo un determinato orientamento; le tecniche, i mezzi e le strategie utilizzate per raggiungere l’obiettivo preposto; i principi ispiratori di ogni intervento formativo. La prima strada è quella propriamente detta dell’educazione, che viene impartita per lo più dai genitori, o dai familiari vicini al ragazzo, e si integra perfettamente con la tradizione, la cultura, la storia della famiglia e del popolo di cui si è parte. La seconda coincide con quella che, scolasticamente, viene definita didattica, e comprende l’insieme degli interventi scolastici operosamente praticati dai docenti sugli educandi. La terza è la vera e propria filosofia dell’educazione, e riflette a livello teorico sullo scopo della formazione, relativamente ai mezzi, alle tecniche, alle strategie operative, anche e soprattutto rapportandosi agli obiettivi finali che ogni metodo educativo voglia realizzare. L’azione formativa che si esplica in famiglia, attraverso l’intervento involontario dei genitori sul soggetto in età evolutiva, comprende tutti quegli interventi volti a rafforzare il senso della trasmissione ereditaria del patrimonio di valori e di consuetudini accumulate nel tempo. Generalmente fa affidamento ai precetti categorici che costituiscono il bagaglio indispensabile della formazione religiosa e morale della persona umana. Spesso, questo tipo di educazione familiare tende a trascurare l’aspetto dell’istruzione e dei contenuti, fortemente privilegiato, invece, dall’istituzione scolastica, a partire dalle programmazioni disciplinari che i docenti predispongono ad inizio d’anno. La differenza sostanziale che intercorre tra il programma e la programmazione disciplinare consiste proprio nel fatto che mentre il programma traccia gli elementi sostanziali di contenuto che si vogliono percorrere insieme in classe, la programmazione prevede anche che vengano indicati i mezzi, le tecniche e le strategie operative delle scelte didattiche. L’insegnante, dopo aver individuato gli obiettivi disciplinari, deve anche saper rintracciare le metodologie più efficaci attraverso le quali pensa e crede di poter raggiungere gli scopi della programmazione proposta al consiglio di classe. Il programma fa, perciò, riferimento agli aspetti di contenuto dell’istruzione, laddove la programmazione contempla gli elementi didattico-metodologici della formazione educativa. Sebbene la metodologia didattica sia, allo stato, una scienza euristica ed empirica, che procede per prove ed errori, è anche lecito aspettarsi che il docente non debba pretendere di verificare la bontà o meno del proprio metodo, esclusivamente soppesandolo attraverso i tentativi effettuati in classe. Si rende necessario, allora, fare affidamento ad un insieme di principi filosofico-teoretici cui si possa ispirare la gamma degli interventi metodologici e didattici da adoperare. Questo complesso di nozioni, che fa riferimento ai valori e al significato dell’educazione, intesa come formazione, oltre che come istruzione, costituisce la filosofia dell’educazione propriamente detta. Essa risulta patrimonio irrinunciabile ed imprescindibile dell’educatore e del docente. Punto di riferimento iniziale e finale di ogni azione formativa, che debba necessariamente commisurare scopi e obiettivi, ma anche mezzi e strategie metodologiche, a partire dai principi teorici da quella fissati e legittimati. Chiarita la distinzione dei differenti ambiti di competenza, è naturale approdare in questa sede a parlare del concetto di educazione, attorno al quale ruota tutta la nostra ricerca. Si potrà comprendere appieno la differenza tra educazione involontaria e spontanea, didattica e filosofia dell’educazione, solo quando ci saremo intesi perfettamente su cosa significhi educare. Domandandoci se sia possibile, attorno all’idea di educazione, far convergere i vari punti di vista e le opinioni dei molti in una sola dottrina pedagogica che veda tutti gli operatori della formazione concordi nell’affermare una definizione comunemente accettata dalla comunità scientifica. Certo è che la pedagogia non può qui assolutamente disfarsi della filosofia. Ma anzi deve far ricorso a quella costantemente, per meglio scegliere, definire, ed operare. Si può concordare che educazione sia sinonimo di cultura. Perché l’una e l’altra sono prodotto dell’uomo. Ma questa somiglianza può essere scorta secondo due modalità. Per la prima, l’educazione[1] è cultura in quanto trasmette da una generazione all’altra l’intera tradizione familiare, religiosa, morale e storica di un gruppo sociale e di un popolo. E siamo d’accordo che non si possa fare a meno di considerare questa tipologia di intervento formativo con il suo carattere di priorità, dal momento che chi non conosca gli usi, le tradizioni, le abitudini sociali della sua famiglia e della sua nazione, viene immediatamente stigmatizzato ed allontanato, finendo per vivere emarginato da tutto il consorzio umano di cui fa parte. Ma il concetto di educazione come cultura comprende anche, unitamente all’insieme dei vissuti storicamente tramandati, il prodotto finale di ogni intervento umano sul mondo, che deriva alla società dall’impegno di tutti i suoi membri che abbiano proficuamente utilizzato a loro vantaggio quei precetti morali e religiosi, e tutto il patrimonio culturale ricevuto in eredità, per produrre nuovi orientamenti, valori, sensi e significati, adattamenti intelligenti, in vista del cambiamento attivo ed operativo sulle interazioni con gli altri e sull’ambiente. La prima possibilità coincide con la formazione, la seconda con la civiltà. Il passaggio dall’una all’altra modalità di interpretazione avviene nel XVIII secolo, in pieno Illuminismo, ad opera di Kant, che scrive «La produzione, in un essere ragionevole, della capacità di scegliere i propri fini in generale (e quindi di essere libero) è la cultura. Perciò la cultura soltanto può essere l’ultimo fine che la natura ha ragione di porre al genere umano»[2]. Ed Hegel avvalora dicendo «Un popolo fa progressi in sé, ha il suo sviluppo e il suo tramonto. Ciò che anzitutto si incontra è qui la categoria della Cultura, della sua esagerazione e della sua degenerazione: quest’ultima è per un popolo prodotto o fonte della sua rovina»[3]. Qui davvero la cultura, come prezioso derivato della formazione educativa di un popolo, si fa presupposto certo della storia dei popoli, nel bene e nel male. Bisognerebbe riscoprire questo valore intrinseco dell’educazione civica, senza la quale non esiste al mondo civiltà che sia in grado di competere con nessun’altra. Ad un popolo barbaro e incivile nei modi, e gretto nei comportamenti, quale tipo di contenuti di civiltà potranno mai essere proposti? Ogni cultura, che sia veramente tale, non può che risiedere primariamente in un animo gentile. Solo uno spirito ben educato saprà accogliere e coltivare in sé i germi del sapere, della conoscenza e della sapienza. Perché ogni apprendimento significativo dovrà poi divenire nuova fonte di saggezza dei popoli. E per divenire tale deve contemporaneamente formare la persona educando. I Greci chiamavano paidéia, l’educazione. Mentre per i Latini essa coincideva con la humanitas. E Maritain ne L’Educazione della Persona scrive a proposito del bisogno impellente di scuole di umanità. Volendo intendere con ciò la necessità, per ogni civiltà, di possedere dei riferimenti obbligati nei valori educativi che fondano ontologicamente l’uomo e la donna di cultura. Siamo erroneamente abituati a considerare abbinati nella medesima persona il titolo di studio con il suo livello di civiltà e di educazione. Spesso, tuttavia, ci dobbiamo dolorosamente ricredere. E ci rendiamo poi conto che non necessariamente la gentilezza dei modi e le lauree coesistono amabilmente. Eppure dovrebbe essere reputato molto più grave assistere alla mancanza di decoro in chi ha avuto la fortuna di studiare, pregiandosi di un titolo accademico, rispetto a chi ha dovuto misurare la fatica quotidiana del tirare a campare, provando sulla propria pelle quanto sia duro e arduo barcamenarsi con l’ingiusto destino di chi non possiede il presupposto della liberazione della coscienza dalla schiavitù del padrone. Proprio Hegel, con la sua dialettica servo-padrone[4], mostra come i rapporti tra gli uomini siano sempre stati improntati, sin dagli albori della storia, alla risoluzione del conflitto inevitabile tra colui che possiede beni e mezzi di produzione, e che perciò comanda in virtù del suo potere economico, e colui che deve di necessità assoggettarsi perché privo di ricchezze e di terre di proprietà. Solo la cultura, il sapere, costituiscono strumento di riscatto della condizione servile di chi non ha potere economico sufficiente per imporre all’altro il suo dominio. Ma la cultura è pace, nonviolenza, dialogo, interazione, confronto, gentilezza, educazione. Non esiste cultura che si possa imporre eteronomamente con la forza. Perché la cultura rifiuta in sé ogni espressione coatta dell’agire. Perché solo chi la persegue sa cosa voglia significare e rappresentare il suo prezzo, che è premio a se stesso. Perché cultura, educazione e virtù sono sullo stesso medesimo piano, e l’una dall’altra inscindibili. Perché tutte concorrono alla formazione complessiva della persona umana. E non esiste uomo che sia tale senza educazione, senza virtù, senza cultura. Poesia, eloquenza e filosofia sono per gli antichi le arti fondamentali da esercitare per garantire il sapere. Un sapere che deve necessariamente essere condiviso, spendibile e fruibile in comunità. Se quindi è impossibile un’educazione senza filosofia, è altrettanto inconcepibile una conoscenza che non passi attraverso l’espressione della comunità dialogante nella polis. L’uomo è animale politico, per Aristotele, perciò l’educazione deve essere formazione alla socialità, al saper stare assieme, condividendo. Ma si deve anche poter nutrire degli ideali di umanità, che facciano riferimento a Platone, immaginando l’uomo come poter essere, come non-ancora, e fornendo esempi di modelli educativi, che coincidono con quelli che vengono oggi normalmente riconosciuti come principi di filosofia dell’educazione e metodi didattici, facendo uso di strategie applicative che orientino al successo verso il fine conseguito. Dopo quanto detto si capisce che il ruolo della famiglia rimane fondamentale. Perché se educare vuol dire anzitutto formare ai valori della tradizione, e non soltanto trasmetterli in modo passivo; se educare vuol dire compiere opera di civilizzazione e di progresso culturale, non è possibile per un popolo un’idea di educazione che non passi per i modelli spontaneamente utilizzati nella pratica pedagogica della gestione familiare. La famiglia è così la prima agenzia educativa, non solo in senso temporale, ma anche dal punto di vista strettamente ideologico. Secondariamente viene la scuola, con la sua didattica e le sue metodologie, ispirate a fini e principi della filosofia dell’educazione, ma affinate nella gestione della pratica della situazione d’aula. In classe le strategie operative si scelgono di volta in volta, ma soprattutto si rendono compatibili con il gruppo degli allievi e con le situazioni che ci si trova a dover fronteggiare nell’immediato e sui tempi lunghi. Il buon insegnante, che è anche un valido educatore, è abile nel programmare interventi a lunga scadenza, ma non si perde d’animo di fronte all’emergenza. Soprattutto, comprende appieno il valore del lavoro di squadra, nel quale si tende ad interagire progressivamente con i colleghi, gli operatori sociali, se necessario gli psicologi, chiamati in causa. Uno dei problemi maggiormente sentiti e vissuti dalla attuale classe docente è quello del bullismo, inteso come una costante manifestazione di comportamenti aggressivi e devianti, posti in essere da uno solo o da più allievi nei confronti di altri compagni o degli stessi insegnanti, ed in alcuni casi eclatanti diretti persino contro la dirigenza, i collaboratori del preside o i vicari. Le espressioni di questo manifesto disagio cui tutti, più o meno disarmati, assistiamo nelle scuole, vanno dall’uso di un linguaggio forbito di epiteti poco gentili, ad azioni violente nei riguardi degli altri, allo scopo di ottenere ciò che non si è in grado di realizzare attraverso il linguaggio ed il dialogo pacato, con modi assai poco legittimi dal punto di vista strettamente scolastico. Entro questa concezione di educazione che si cerca qui di proporre, è ben chiaro che questi comportamenti sicuramente censurabili sono il frutto di una grave carenza culturale. Intesa qui come profonda ignoranza delle regole basilari dell’atteggiamento corretto e civile, che la società si impone per realizzare il benessere della collettività, e la convivenza pacifica all’interno del consorzio umano. Le regole, le norme, sono fondamentali per un buon vivere. Quando non si riconoscono i giusti presupposti dello stare assieme in modo democratico si sfocia, prima o poi, nell’anarchia, nell’illegalità, nel disprezzo della legge, nel rifiuto dell’interazione dialogante come presupposto di ogni convivenza democratica. Al contrario, il concetto di umanesimo espresso dalla cultura, contempla sia il suo carattere aristocratico, di attività prevalentemente intellettuale e spregiativa nei confronti degli impieghi manuali, sia il suo essere indagine di tipo naturalistico, che esula l’uomo e le sue attribuzioni. In entrambi i casi, la cultura così intesa si conferma speculazione teoretica, conservandosi con queste medesime caratteristiche, eccetto l’espressione del naturalismo, per tutto il Medioevo, durante il quale vengono predilette le arti del Trivio, grammatica, retorica e dialettica, contro quelle del Quatrivio, geometria, aritmetica, musica e astronomia. Arti dette liberali, cioè adatte agli uomini liberi, che avevano lo scopo di indottrinare alla vita ultraterrena, attraverso le attività di natura religiosa, anche grazie alla speculazione filosofica. La filosofia, pur conservando una posizione di centralità nella cultura, divenne ancilla theologiae, nel senso che prestò il suo contributo al perfezionamento dei doveri religiosi, e alla scoperta della verità dogmatica ed eterna. La cultura tornò, così, al suo ideale naturalistico solo nel Rinascimento, che riuscì a far convergere tra loro un’idea di sapere in cui la verità dipendesse dalla ragione umana, emancipandone la ricerca dal dogma di fede, con la convinzione che la storia dell’uomo, autore del proprio destino, coincidesse con la sua responsabilità di azione pratica ed operativa sul mondo, al fine di attuare il cambiamento possibile ed auspicabile. In tal senso, anche la religione acquisì la nuova funzione di tecnica di salvezza, in grado di aiutare a vivere meglio su questa terra, piuttosto che proiettarsi dalla storia esistenziale già nell’esperienza ultraterrena di un eventuale aldilà. Lo spostamento dell’asse dal teocentrismo all’antropocentrismo è evidente nella filosofia di Pico della Mirandola che, nel suo De hominis dignitate, riconosce pienamente all’uomo quella dignità di cui poter andare fiero nei confronti della natura e del mondo animale. Dignità che consiste nell’uso possibile delle due facoltà della libera scelta e dell’intelligenza del pensiero. L’uomo diviene così microcosmo che ripropone, nel suo piccolo, tutta la grandezza del creato, macrocosmo di Dio. Ormai la cultura si fa espressione incontaminata della storia umana, rifiutando il binomio che aveva dominato incontrastato durante tutto il Medioevo, di una verità che potesse presentarsi con i caratteri dell’assolutezza e della certezza eterna e dogmatica. La debolezza esistenziale e la precarietà del peccato, rendono l’uomo soggetto e signore della sua verità. Facendone un individuo responsabile di fronte al suo proprio destino personale ed universale. La stessa interpretazione religiosa di un messaggio divino che prende spunto dalla bontà paterna del Dio del Nuovo Testamento, finisce per rinnegare del tutto quel Giudice duro e severo che puniva i peccatori, relegati al ruolo passivo di penitenti senza coscienza soggettiva, condannati a subire il limite metafisico della loro precaria fragilità ontologica. Nel Rinascimento viene ancora confermato il carattere aristocratico della cultura contemplativa, come di attività riservata ai migliori, i dotti. Ma, allo stesso tempo, comincia a comparire il valore politico del lavoro, come attività che nobilita l’uomo, andando oltre il mero livello teoretico del sapere ideale. La cultura cominciò a perdere definitivamente il suo carattere aristocratico nell’Illuminismo, quando iniziò in Francia la tradizione dell’Enciclopedia del sapere, come di un insieme di conoscenze vissute in quanto patrimonio di tutta l’umanità. «”Essere colto” non significava più possedere soltanto le arti liberali della tradizione classica, ma conoscere in una certa misura la matematica, la fisica, le scienze naturali, oltrecchè le discipline storiche e filologiche che si erano venute formando. Il concetto di cultura cominciò, allora, a significare “enciclopedismo” cioè conoscenza generale e sommaria di tutti i domini del sapere»[5]. Fu questa concezione del sapere enciclopedico che Croce poi lamentò, ritenendola responsabile di formare l’uomo con tante conoscenze e tuttavia privo del possesso della conoscenza vera, che è la sapienza. La cultura positivistica, che aveva finito per dominare incontrastata tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, aveva esaltato la convinzione che tutto lo scibile dovesse essere sottoposto al vaglio della matematica e della fisica, nella certezza che anche le scienze umane potessero essere studiate e interpretate alla stregua di rapporti deterministici, per nessi consequenziali di causa ed effetto, adoperando gli stessi metodi delle scienze della natura. Un armonico ed equilibrato rapporto dell’uomo con se stesso poteva invece essere recuperato, sempre secondo Croce, attraverso lo studio convergente della Storia e della Filosofia, nell’intento di ricostruire quell’approccio educativo alla persona umana, nella sua integralità, anche attraverso una formazione generale e completa dal punto di vista strettamente umanistico. Ma la crescita esponenziale dell’industrializzazione in tutti i paesi del mondo ha reso, nel tempo, sempre più difficile la realizzazione di questo ideale educativo. La scuola deve formare competenze e specializzazioni tecnico-scientifiche in grado di immettere nel mondo del lavoro profili specializzati e professionisti capaci di competere a livello internazionale per efficienza e produttività. Tutto questo contrasta apertamente con l’ideale di una cultura umanistica e generale in senso lato. E conferma la tendenza sempre più esasperata della scuola al tecnicismo. Eppure sono sempre più evidenti a tutti le disfunzioni determinate nella società da questo orientamento specialistico della formazione educativa, che finisce per dimenticare la persona come valore intrinseco ed indipendente dalla sua capacità produttiva in termini di efficienza sul lavoro e di reddito procapite. Disfunzioni profonde che vanno ad incidere pesantemente su tutto il fabbisogno mondiale, e che conducono ad una disperata corsa all’accaparramento delle risorse disponibili, si pensi all’acqua e al cibo. «il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità: ‘‘L’uomo infatti è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale’’»[6]. La necessità indifferibile di ritornare ad una cultura che si faccia scuola di umanità, nell’intento di salvaguardare il vero progresso umano, che è sintomo di civiltà per le nazioni, è ampiamente sottolineata anche dall’ultima Enciclica di Papa Benedetto XVI Caritas in veritate, nella quale, facendo costantemente riferimento alla Populorum progressio di Papa Paolo VI, Ratzinger sostiene come il vero progresso risieda nella riscoperta dei valori della persona umana, già propri dell’umanesimo integrale della tradizione cattolica francese, che si trovano, ad esempio, in Maritain[7]. Se, da una parte, vi è sempre più l’esigenza di ottenere profili professionali specialistici di lavoratori in grado di svolgere perfettamente la mansione per la quale sono stati assunti, dall’altra la crisi economica e valoriale cui assistiamo impotenti, suggerisce di fare ritorno all’antico, per porre rimedio agli squilibri di una personalità settoriale e parcellizzata, che crea uomini monchi ad una sola dimensione. Qui il discorso pedagogico ed educativo diventa, di necessità economico-politico, perché l’esigenza di formazione di una civiltà deve finire per collimare con la cultura, le tradizioni, la lingua, i costumi, la religione, la fede filosofica, e con la storia dei popoli, i quali hanno l’urgenza di radicarsi nel passato per poter liberamente progettare il loro futuro. Un futuro degno di essere abitato e vissuto da uomini liberi dalle catene dell’ignoranza e della schiavitù. La stessa specializzazione richiede il confronto costante con figure professionali diverse e differentemente qualificate, per poter realizzare quell’indispensabile sincretismo lavorativo che culmina nella collaborazione dell’équipe tecnica al fine di attuare un’integrazione proficua dei compiti e delle mansioni di ognuno. L’uomo colto è libero e aperto ai cambiamenti. Rivolto al futuro in dimensione progettuale, perché saldamente ancorato al passato. Capace di astrazioni operative che gli provengono dall’abituale consuetudine con l’esercizio del pensiero filosofico. L’uomo colto è, però, anche un individuo che è parte integrante di una civiltà, che ha assimilato modi e comportamenti dalla storia del suo proprio popolo. In questo senso, se ogni educazione è sintomo di un’espressione culturale della civiltà dei popoli, è altrettanto vero che ogni educazione ha presupposti e fini differenti a seconda della tradizione culturale delle persone cui è rivolta. E seppure i fini e i valori di culture diverse dovessero coincidere, sarebbero comunque differenti le strategie applicative, i metodi e i mezzi per ottenere quegli stessi scopi. Ogni modello educativo presuppone una storia differente, ma anche una pedagogia politica in evoluzione e cambiamento continui.



[1] N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, pag. 279, TEA, Milano 1993.

[2] E. Kant, Critica del Giudizio, § 83. d

[3] F. Hegel, Phil. Der Geschichte, ed. Lasson, pag. 43.

[4] Cfr. F. Hegel, La Fenomenologia dello Spirito.

[5] N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, pag. 205, TEA, Milano 1993.

[6]Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, par.25, Roma 29 giugno 2009.

[7]J. Maritain, Per una filosofia dell’educazione, Parigi 1959.



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