Vladimir Jankélévitch

 

 

JankélévitchVladimir Jankélévitch (Bourges 1903 - Parigi 1985) insegnò all’Istituto francese di Praga e all’Università di Tolosa e di Lille. Dal 1951 al 1977 fu titolare della cattedra di Filosofia Morale alla  Sorbona.
Oltre che filosofo, era esperto di musica e pianista. Nel 1944 diresse i programmi musicali di Radio-Toulouse Pyrénées. Durante la Seconda guerra mondiale partecipò attivamente alla Resistenza; in seguito si dedicò con passione alla causa di Israele (Jankélévitch era di origini ebraiche) e alla difesa delle minoranze. Nel '65 sostenne su Le Figaro Littéraire che Heidegger avesse magnificato in un suo discorso l'attacco tedesco alla Russia; contro questa posizione polemizzò François Fédier, professore di filosofia a Neuilly. Francese di lingua e di cultura, nonostante il nome, Jankélévitch è un pensatore di cui si parla poco, anche alla luce del fatto che si tratta di una figura difficilmente inquadrabile in qualsivoglia linea di pensiero. Originale e versatile, egli svolge riflessioni che per lo più assumono la forma della critica musicale. Nella sua riflessione, il problema musicologico è di primaria importanza e costituisce, per così dire, lo sfondo sul quale si possono leggere tutte le sue riflessioni filosofiche, quasi come se il pensiero filosofico del nostro autore germinasse dalla riflessione sulla musica, in una sorta di musicologia dell’essere. Dunque, la riflessione sulla musica è il luogo privilegiato per venire a capo del pensiero di Jankélévitch: ed è proprio sul problema ontologico intorno all’essenza della musica che il nostro autore si misura costantemente con Henri Bergson, uno degli autori che ha maggiormente influito sulla sua formazione. Infatti, la musica – come ha insegnato Bergson – è percezione del tempo, di un tempo despazializzato che permette a Jankélévitch di introdurre il tema dell’intuizione musicale. Del resto, l’influenza bergsoniana è ben presente in tutti i pensatori francesi del Novecento, ancorché in Jankélévitch venga sottoposta a notevoli rielaborazioni. Il punto di vista musicologico del nostro autore si inscrive pienamente nella crisi della metafisica e del sistema tonale: egli ha sempre svolto in parallelo studi musicali e studi filosofici, passando di continuo dal pianoforte alla scrivania. L’evento che sicuramente l’ha più segnato sono state le persecuzioni naziste ai danni degli ebrei, alle quali dedicherà buona parte delle sue riflessioni filosofiche. Tra le sue opere principali ricordiamo Henri Bergson (1931, con prefazione di Bergson stesso), L’ironia, Trattato delle virtù (1949), Debussy e il mistero (1949), Filosofia prima (1954), Il perdono, La musica e l’ineffabile (1961), Il non-so-che e il quasi-niente (1967), L’avventura, la noia, la serietà, Perdonare?, Il paradosso della morale, La coscienza ebraica. Molto apprezzato da Derrida, Jankélévitch elabora una filosofia che si configura come capovolgimento metafisico delle categorie tradizionali, arrivando a rompere i legami con la scienza e coi valori dominanti, i quali, compromessi col potere politico, hanno fatto scaturire le grandi tragedie storiche che hanno costellato il Novecento. Quello di Jankélévitch sembra, a tutta prima, un decostruzionismo sfociante nel nichilismo: eppure il nostro autore non si limita alla pars destrunes, ma anzi cerca di costruire una filosofia fondativa, che addirittura qualifica come “filosofia prima” nella quale senso e non-senso si fondono insieme. Quello di Jankélévitch è allora rifiuto dell’ordine esistente e anelito verso un ordine “altro”, che è pur sempre un ordine. A quest’ordine “altro” egli dà il nome di “ineffabile”, a segnalare che si tratta di una sfera fondante che sfugge alla presa dei concetti e che, a ben vedere, solo la musica sembra cogliere. Accanto alle interessantissime riflessioni sulla musica, Jankélévitch si concentra molto sul tema del perdono, in riferimento alla shoà: soprattutto nei due testi Il perdono e Perdonare. Paradossalmente, si tratta di due testi che approdano a esiti opposti: il primo è un saggio filosofico sul perdono, il secondo è un violento pamphlet contro i crimini di cui si è macchiato il popolo tedesco. Ne Il perdono, Jankélévitch approda a una “etica iperbolica” che ammette il perdono come possibilità estrema: infatti – dice Jankélévitch – il perdono autentico può essere accordato soltanto a un crimine imperdonabile, giacchè non ha alcun senso perdonare il perdonabile. In questa prospettiva, è solo all’imperdonabile che deve rivolgersi il perdono: come ha notato acutamente Derrida, siamo di fronte ad un’aporia, nel senso che tra perdono e impossibilità di perdono viene a crearsi un nesso inestricabile, una tensione dialettica tra possibilità e impossibilità. Il perdono, allora, è un paradosso, proprio perché la possibilità di perdonare si dà soltanto dove c’è l’imperdonabile. A proposito del Nazismo e del popolo tedesco, Jankélévitch è durissimo: “il perdono non è fatto per i porci e per le loro scrofe. Il perdono è morto nei campi della morte” (Perdonare). La shoà è, secondo Jankélévitch, l’inespiabile e, in forza di ciò, non può esserci perdono per essa. L’irrevocabilità, l’incancellabilità, l’inespiabilità della shoà rivelano l’impossibilità di accordare il perdono, l’impossibilità di tornare sul passato e di toccarne la memoria. Il perdono viene a configurarsi come una sorta di eccezione assoluta: già Kant notava che il perdono può essere concesso soltanto da parte della vittima, non da altri; questa convinzione, se applicata alla shoà, diventa assai problematica, nella misura in cui le vittime non ci sono più. In particolare, Jankélévitch attacca quanti vorrebbero cancellare il passato tramite il perdono, facendo ritorno a quel che c’era prima che il misfatto venisse compiuto: accordare un simile perdono sarebbe assolutamente immorale, oltre che assurdo. Un pedonare autentico dev’essere piuttosto inteso come un andare oltre il crimine senza però azzerarne la memoria, ma anzi mantenendola sempre vivissima. Detto altrimenti, il perdono non annulla il male. Alla fine del saggio Il perdono, si parla del “risentimento”, termine che Jankélévitch impiega in senso opposto a quello di Nietzsche: dove non si può fare alcunché, si può almeno ri-sentire inesauribilmente; non è rancore, è piuttosto orrore intramontabile per quanti hanno compiuto il male, per quanti non si sono opposti, per quanti hanno già dimenticato. Nei suoi colloqui col premio Nobel Eli Wiesel, Jankélévitch ha insistito molto sul tema del testimone, che è custode della fiaccola sacra del ricordo, colui che ri-sente le ferite del tempo. Il testimone riattiva la memoria, la quale obbedisce a una logica reiterativa e commemorativa. Dopo la pubblicazione de Il perdono, Jankélévitch – che aveva sostenuto che oggi i Tedeschi dormono bene e hanno del tutto scordato le loro colpe – ha una corrispondenza epistolare con un cittadino tedesco: questi scrive al filosofo che, pur essendo tedesco, non ha ucciso nessuno e non dorme bene la notte, ma anzi si sveglia spesso a pensare con sgomento alla shoà; dice inoltre che se passerà a trovarlo in Germania non gli parlerà di Hegel o di Nietzsche, né gli farà sentire musica tedesca. A questa lettera risponde Jankélévitch, dicendo che erano trentacinque anni che attendeva una simile lettera: dice che è vecchio per andare a trovarlo in Germania ma che se passerà lui da Parigi si potranno mettere a suonare insieme il pianoforte.               

 

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