JOSIAH ROYCE



JOSIAH ROYCEFilosofo statunitense (Glass Valley, California, 1855-Cambridge, Massachusetts, 1916), Josiah Royce studiò alle università di California e John Hopkins e fu allievo di W. James, quindi si recò in Germania, dove si perfezionò con Lotze. Insegnò a Harvard. Centrale nell'idealismo di Royce è la ridiscussione dei rapporti tra idea e realtà. Royce distingue tra un significato esterno di idea (il riferimento a una realtà altra di cui essa è appunto idea) e uno interno (il fine che ci si propone formulando l'idea stessa): l'unico rapporto concepibile tra idea e realtà è l'assimilazione della realtà esterna dell'idea all'intenzione che ne costituisce il significato interno; l'idea non ha così una realtà, ma tende a essa nel realizzarsi, si determina precisando il proprio significato e fine eliminando le possibilità marginali. Ma tale realizzazione può effettuarsi solo nell'ambito di una coscienza totale, in cui ogni coscienza individuale sia integrata. Royce concepisce la totalità assoluta come compatibile con le sotto-totalità rappresentate dalle coscienze finite, utilizzando il concetto di numero come sistema autorappresentativo (un tutto le cui parti sono a loro volta totalità in corrispondenza con esso) sviluppato da Cantor e Dedekind. É così possibile eliminare l'aporia in cui cade il finito secondo Bradley. Nell'ultima fase del suo pensiero Royce riaffronta il problema dei rapporti fra finito e assoluto concependo un processo di unificazione dei singoli soggetti, nell'interpretazione da essi data del mondo come sistema di segni, e che conduce alla costituzione di una comunità cui il singolo deve una fedeltà esplicantesi nella realizzazione del proprio compito. Scritti principali: The Religious Aspect of Philosophy (1885; L'aspetto religioso della filosofia), The World and the Individual (1900-01; Il mondo e l'individuo), The Philosophy of Loyalty (1908; La filosofia della fedeltà), W. James and Other Essays (1911; W. James e altri saggi), The Sources of Religious Insight (1912; Le fonti dell'intuizione religiosa), The Problem of Christianity (1913; Il problema del cristianesimo). Josiah Royce è il maggior esponente del neo-idealismo americano. Egli concepisce anzitutto l'idealismo come quell'"analisi che consiste semplicemente nel mettere in luce che il mondo della conoscenza, checché esso contenga, è materiato della stessa sostanza di cui son fatte le idee", cioè nel mostrare che tutto il reale "non è per ognuno di noi che un sistema di idee". Consideriamo, egli dice, "il nostro cosí reale mondo dei sensi, pieno di luce, di calore, di suono"; la sua "solidità", la sua "esteriorità", ce lo fanno apparire, a prima vista, come "ostinato", "semplicemente rigido", "irriducibile" alla volontà dell'uomo. Eppure noi sappiamo che possiamo in qualche misura modificarlo. Ciò significa forse ch'esso, nonostante l'apparenza, sia sostanzialmente duttile all'azione dell'uomo? No, esso ci sembra rimanere pur sempre in qualche modo irriducibile: "La materia, ad esempio, è irriducibile quando ci sta contro in dure muraglie"; e che dire della irriducibilità delle "menti", come ad esempio di quella di una fanciulla riluttante all'amore? Dunque tutto il mondo di cui abbiamo esperienza, appare non dipendere da noi; appare avere una sua "realtà" non conferita da noi. Ma si consideri meglio. Soprattutto il mondo sensibile, quello delle cose. Nel rapporto che noi istituiamo con esso, è esso cosí "oggettivo", cosí indipendente dalle nostre "idee"? È veramente cosí "reale" da non poter essere in alcun modo "ideale"? No; non c'è dubbio che colori, sapori, suoni del "reale" sono "ideali". Si prenda ad esempio una sinfonia; certo le onde sonore nell'aria hanno una loro realtà; ma il loro significato sta nella nostra percezione della musica; la sinfonia non è una proprietà delle onde sonore, né degli strumenti musicali. Pertanto il reale è sí "reale", ma anche in qualche modo "ideale".
Il mondo reale non è in sé indipendente dagli occhi, dalla lingua, dagli orecchi, dal tatto di qualcuno, né colorato né sapido, né freddo né caldo, né luminoso né oscuro, né sonoro né silenzioso. Tutte queste qualità appartengono alle nostre idee, senza che per ciò siano meno fatti veri, pur essendo sin qui fatti ideali.
(Lo spirito della filosofia moderna)

E non sono ideali anche altri caratteri del reale, come ad esempio la forma, la grandezza, il movimento? È possibile che il reale sia conosciuto secondo la forma, la grandezza, il movimento, senza quelle "grandi idee formali" del soggetto pensante che sono lo spazio e il tempo? Certo, possiamo ammettere pure una grandezza o un movimento "reale"; ma il significato di grandezza o movimento di una cosa è "ideale" per me che conosco. E che cosa dire delle altre qualità delle cose? Ad esempio della bellezza. Contempliamo un bel quadro; la sua bellezza è, certo, soprattutto "sua"; in tal senso la bellezza è "reale"; ma, infine, quel quadro non è bello "per noi"? Anche della bellezza del quadro bisogna dire che è sí "reale", ma soprattutto "ideale". Ma fermiamoci per un attimo a riflettere sul fatto che la bellezza del quadro è "sua". Si vedrà meglio che anche la bellezza "reale" è, in sostanza, oggettivamente "ideale". E si potrà ricavare quindi che tutti i caratteri oggettivi del reale (qualità, forma, grandezza, ecc.) sono in se stessi ideali. Che significa che la bellezza del quadro è "sua"? Significa che il quadro "incorpora" quella bellezza ch'era un'idea nella mente del suo autore; idea che questi voleva trasmettere al contemplatore. Dunque anche la bellezza propria del quadro è un fatto ideale. Pertanto:

In quanto il mondo dei sensi è bello, è maestoso, è sublime, questa bellezza e questa elevatezza esistono soltanto per l'osservatore che apprezza. Se esse esistono fuori di lui, esistono soltanto per qualche altra mente, ovvero come pensiero e fine, incorporato, di qualche universale anima della natura... Qui dunque vi è almeno tanto del mondo esterno che è ideale quanto precisamente la moneta o il gioiello, o la banconota, o la polizza, hanno il loro valore non solo nella loro presenza fisica, ma nell'idea che simboleggiano per la mente dello spettatore o per il pensiero relativamente universale del mondo commerciale.
(Lo spirito della filosofia moderna)

Dunque la "realtà" degli oggetti che ci attorniano sta comunque nella loro "idealità"; essi incorporano un'idea attribuita loro da una mente universale, idea che li rende significativi per noi che li percepiamo. Ecco perché il mondo reale è "ideale" e tuttavia "irriducibile" al nostro pensiero e al nostro arbitrio, tanto da apparirci totalmente estraneo a qualunque pensiero, eterogeneo rispetto al pensiero.

Fin qui si è dunque acquisito che ho delle esperienze che sembro obbligato ad avere (di una cosa "dobbiamo" vedere i colori, sentire il suono, ecc.); queste esperienze ci presentano un ordine che sembra oggettivo; la natura di quest'ordine tuttavia è essenzialmente ideale; dunque devo supporre che ci sia una mente universale che dispone "idealmente" la realtà. Ma esiste questa mente? Per rispondere a tale quesito bisogna che si approfondisca il discorso sulla "idealità" dell'ordine oggettivo delle cose. Nell'esperienza immediata noi abbiamo "fede" nell'esistenza di un mondo oggettivo da cui deriviamo l'esperienza stessa. Abbiamo fede che vi sia realmente qualcosa "fuor di noi" che corrisponda a ciò che avviene "in noi". Ma si tratta solo di fede? È fede, ma ben fondata. "Deve" esistere qualcosa fuor di noi, altrimenti non ne avremmo esperienza. Se allora alla nostra esperienza corrisponde una realtà, affinché essa corrisponda alle mie idee bisogna ch'essa sia strutturata come un "sistema di idee"; tale sistema tuttavia è comunque "esteriore" alla mia mente; ma ciò significa solo che non l'ho prodotto io; allora se è esteriore alla mia mente, e se è un sistema di idee, esso non può essere esteriore a tutte le menti; dunque esiste una mente universale per la quale quel sistema non è esteriore.

Che cosa può, in definitiva, cosí bene accordarsi con un'idea come un'altra idea? A che potranno le cose che passano nella mia mente conformarsi, se non è con un'altra mente? Se, quanto piú la mia mente aumenta in chiarezza intellettuale, tanto piú s'avvicina alla natura della realtà, allora certamente la realtà a cui la mia mente cosí rassomiglia dev'essere in se stessa mentale.
Dopo tutto, se io dicessi che questo mondo, che esiste esternamente alla mia mente e ad ogni altra mente umana, esiste in e per una mente tipica e
universale, il cui sistema di idee costituisce il mondo; se io dicessi ciò, forse che questo priverebbe di realtà il mondo che mi circonda, o non piuttosto conserverebbe e assicurerebbe la realtà e la conoscibilità del mio mondo d'esperienza? Voi conoscete in realtà il vostro mondo come un sistema di idee circa le cose, tale che di momento in momento riscontrate che questo sistema vi è imposto dall'esperienza. Anche la materia la conoscete appunto come una massa di idee coerenti che non potete fare a meno di avere. Lo spazio e il tempo quali li pensate, sono certamente vostre idee. Ora, che c'è di piú naturale che il dire che, se ciò sta cosí, il mondo reale fuori di noi dev'essere in sé un sistema di idee di qualcuno? Se ciò è, allora voi potete comprendere che cosa la sua esistenza significhi. Se ciò non è, allora, poiché tutto quello che di essa voi potete conoscere è ideale, il mondo reale deve essere completamente inconoscibile, una nuda x.
(Lo spirito della filosofia moderna)

Cosí Royce è giunto ad ammettere una Coscienza universale che racchiude in sé, in forma piena, ciò che l'individuo umano cerca di conoscere. Essa è la sede dell'essere e della verità. In essa sono comprese tutte le menti finite. Ma mentre queste soggiacciono alla legge del tempo, la Coscienza universale è fuori del tempo. In tal senso questa Coscienza è Dio. Dio non trascendente, ma immanente nel tutto. Dio che, nella sua eternità intemporalità assolutezza e perfezione, non esclude la storia, come non esclude l'ignoranza, l'errore, lo sforzo delle menti finite; questi elementi caratterizzano infatti la vita degli individui umani che in Lui sono "compresi". E anzi, il fatto che questi siano compresi in Lui, dà all'uomo la fiducia che al problema ci sarà pur sempre una soluzione, che allo sforzo corrisponderà pur sempre il conseguimento di un obiettivo. E quando l'uomo agisce moralmente realizza nella sua finitezza consapevole la pienezza di Dio: non "annulla" la sua finitezza. L'uomo è per natura finito e infinito. Infatti il rapporto uomo-Dio è, secondo Royce, come quello che esiste, nella teoria dei numeri di Cantor e Dedekind, tra parte e tutto: la parte è uguale al tutto. Come il numero è un "sistema autorappresentativo", cioè un sistema in cui ogni parte rappresenta il tutto, cosí Dio. Dio infatti è una realtà che contiene in sé le infinite menti umane in modo che ognuna rappresenta la totalità del contenente. In tal senso Dio è infinito, ma infinito è anche ogni singolo spirito umano; e tale infinità non nullifica la finitezza e la molteplicità dei singoli. Quanto all'universo, esso è l'insieme di "segni reali"; per l'uomo esso è l'"interpretazione" di quei segni; proprio tale interpretazione rende gli uomini una "comunità spirituale" di natura universale e divina. In e per questa comunità l'individuo conosce il vero e pratica il bene; vero e bene che non sono quindi accessibili all'individuo in quanto tale, ma in quanto membro di quella comunità che dà la sua "interpretazione" dei "segni reali". L'idea di una tale comunità è ciò che rende fecondo il cristianesimo, che appunto indica nell'amore proprio la "fedeltà" dell'individuo alla comunità, e, insieme, il criterio per valutare fini compiti e azioni.


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