KANT E LA FINE DEL MONDO

 

Di Luca Maria Valzesi

 

 

La fede in un Dio e in altro mondo è talmente intessuta col mio sentimento morale, che io non ho da preoccuparmi che la prima possa mai essermi strappata, nella stessa misura in cui non corro pericolo di perdere il secondo”  (Critic. R. Pura, 537, 2-6)

 

 

Casella di testo:  
Illustrazione: Michelangelo, Giudizio Universale 1536-1541, affresco, Cappella Sistina, Città del Vaticano, Roma.
Immanuel Kant affronta il problema dalla fine del mondo, dell'Apocalisse e del giudizio universale in un piccolo trattato spedito dal filosofo nel 1794 all'amico editore Johann Erich Biester intitolato “La fine di tutte le cose”.

In questo testo Kant affronta un tema che è presente in ogni cultura, in ogni tempo e che in ogni cultura e in ogni tempo crea dubbi e terrore proprio chiedendosi il perché di questo fenomeno.

Perché da sempre e ovunque gli uomini non solo sono convinti che un giorno il tempo finirà ma sono per di più terrorizzati da questa immagine? Si può forse, come scrive Jacob Taubes, parlare di una sorta di  escatologia trascendentale?

Il primo sforzo kantiano che troviamo nella lettura di questo trattato consiste nel trovare un significato all'idea che dopo la fine del mondo,come si usa dire,si passerebbe “dal tempo all'eternità”: questa frase sembra suggerire, ipotizza il filosofo di Königsberg, un'immagine secondo la quale da un certo momento (l'ultimo momento propriamente inteso) in poi si entrerebbe in una diversa dimensione temporale, una dimensione inconoscibile per il nostro intelletto ma non certo quella di un tempo che procede semplicemente all'infinito ([...]questa espressione non vorrebbe dir nulla, di fatto, se qui per eternità si dovesse intendere un tempo che si protrae all'infinito. In tal modo l'uomo non uscirebbe mai dal tempo, ma si limiterebbe sempre solo a passare da un tempo a un altro tempo.[328]).

Questo pensiero indefinito di una “grandezza del tutto incommensurabile rispetto a quella del tempo” trova perfettamente il suo posto all'interno della conosciuta concezione kantiana del sublime e così questo abisso dell'eterno viene visto in questo trattato come un pensiero terribile e immenso, dove la nostra mente sprofonda senza poterne uscire e verso il quale è continuamente attirato.

Questa sensazione davanti alla fine del tempo è inoltre, sottolinea Kant, identica in tutte le epoche e in tutte le regioni de mondo  e questo porta Kant a porsi un'altra domanda: perché tutti gli uomini aspettano la fine del mondo? E perché la spettano con terrore?

Prima di risponde a questa domanda Kant decide però di soffermarsi sul “dopo”: secondo il senso comune cosa succerà al genere umano dopo l'ultimo giorno?

Vengono identificate due correnti fondamentali dal filosofo: quella dai monisti e quella dei dualisti.

In questa differenziazione il filosofo sembra riassumere e ridurre a all'essenziale in quanto a dottrina e significato la lunga lotta religiosa-morale che ha diviso l'Europa tra il XVI e il XVII secolo.

Kant riconosce nei monisti coloro i quali immagino per le anime umane indifferenziatamente  un futuro di beatitudine e nei dualisti chi sostiene che l'ultimo giorno sarò un giorno di Giudizio in cui saremo tutti chiamati a rendere conto della nostre azioni in vita e che non spetterà a tutti la beatitudine ma solo a color che avranno condotto una vita moralmente ineccepibile, per gli altri non ci si prepara ad altro che ad un'eterna dannazione.

Si legge quindi una veloce considerazione sulla natura delle due dottrine, e quella dualistica, nonostante le sue irrisolvibili difficoltà sul piano teologico-religioso, appare a Kant quella per lo meno più utile ad un fine pratico.

Non è ovviamente nelle intenzioni di Kant disquisire riguardo la natura della divinità o le sue regole divine e si limita a riconoscere nella concezione dualistica quella eticamente più utile al fine che ogni uomo sia in grado, in vista di un Giudizio futuro, di fare i conti con la propria coscienza e riconoscere il bene  e il male, il morale e l'immorale tra i suoi comportamenti e usufruire nel migliori dei modi della propria libertà.

Dopo questa parantesi intorno le diverse concezioni del destino dell'anima Kant ritorna sulle questioni che più gli stanno a cuore e più rimandano a quella escatologia trascendentale di cui parla Taubes: perché gli uomini si aspettano la fine del mondo e se la aspettano terrorizzante?

Alla prima domanda Kant risponde così: la ragione umana è spinta alla continua ricerca di una teleologia nel mondo fenomenico (sappiamo che questa è una delle matrici fondamentali del pensiero del filosofo) e questo ha come conseguenza che questa si trovi costretta ad accettare la durata del mondo solo qualora “gli esseri razionali siano  all'altezza, in essa, dello scopo finale della loro esistenza (331)”. Altrimenti, continua Kant, la creazione stessa sarebbe come un'opera teatrale senza finale, e come tale senza scopo, senza ragione.

Passando poi alla seconda questione il filosofo risponde sostenendo che è propria del senso comune l'idea che il genere umano sia per la sua stessa natura corrotto e che non ci si possa quindi aspettare altro che una fine drastica, anzi, una fine tremenda, per lo meno da parte di una forza creatrice infinitamente saggia a giusta. Si spiegano così le immagini terrificanti che preannuncerebbero secondo l'Apocalisse l'avvento del Giudizio universale; ma in questo trattano di fianco a terremoti, cataclismi, meteore e uragani trovano il loro spazio tra le fila dei segni della fine del mondo anche “l'ingiustizia, l'oppressione dei poveri a causa della smodata tracotanza dei ricchi e la generale perdita di lealtà e fiducia (331-332)”.

Con queste considerazioni Kant si prepara il territorio per le sue ultime considerazioni che non possono non aprirsi ( è proprio il caso di dirlo, kantianamente) con una valutazione sulla crescita morale dell'uomo. E così poche righe dopo aver visto nel degrado della civiltà umana un comprensibile segno dell'avvento dell'Apocalisse Kant valuta la possibilità che in realtà la fine di tutte le cose possa coincidere con IL FINE DI TUTTE LE COSE: ovvero il momento in cui la moralità umana sarà riuscita con fatica a superare la necessità di soddisfare i bisogni combattendo il rischio di una eccessiva opulenza. Saprebbe questo, secondo il filosofo, un degno finale dell'esistenza del mondo, dell'uomo e del tempo, soprattutto se alla guida di tutto questo si trova una guida infinitamente saggia.

Non è questo, però il finale di quest'opera kantiana: il filosofo infatti prede in considerazione altre due possibilità di interpretazione della fine del tempo.

La prima di queste è una fine mistica dove il tutto esistente finisce, nel vero senso del termine, e diventa un nihil. Il nulla sarebbe la fine di tutte le cose, si entrerebbe in una dimensione temporale dove  non ci sarebbe più mutamento (e quindi neanche tempo), dove ogni pensiero rimarrebbe sempre lo stesso e uguale a se stesso perdendo ogni capacità di intendere la proprio esistenza e la propria grandezza. Una prospettiva del genere sfugge totalmente alla ragione, ritrovandosi però in diverse concezioni filosofiche e teologiche: Kant va con ordine e invita il lettore prima a pensare alla concezione di Lao Tze (secondo cui il sommo bene coincide con la sensazione del nulla dovuta alla perdita della propria identità nella grandezza divina) e lo porta poi a valutare il panteismo e lo spinozismo fino ad arrivare ai filosofi neoplatonici dell'emanazione la cui tendenza è ovviamente quella di ricercare il bene in un tutto che è anche nulla.

La seconda possibilità, che Kant trova ancora più difficilmente immaginabile e definisce per questo innaturale, è quella che farebbe coincidere la fine di tutte le cose con LA FINE DI OGNI MORALITÀ.

Questa possibilità consiste nell'immagine di un cristianesimo che perde la sua qualità fondamentale (ciò quella di essere amabile) imponendo la propria etica: in questa immagine il cristianesimo non è più un maestro che insegna la moralità e l'amore ai suoi discepoli ma impone tanto di fare una cosa quanto di farla volentieri facendo venire meno la liberalità che lo caratterizza e l'amore e il rispetto di chi lo segue. O ancora questa immagine potrebbe essere quella di un cristianesimo in cui punizioni e ricompense per le azioni mondane diventino i fini di tali azioni facendo perire il profondo significato della capacità dalla guida morale che ogni uomo deve essere per se stesso.

Qualora dovesse verificarsi una condizione simile si assisterebbe ad una nuova immagine della fine de mondo in cui gli animi degli uomini diventerebbero avversi ad un cristianesimo non più amabile “e l'Anticristo,[...], comincerebbe il suo pur breve regno(presumibilmente fondato sulla paura e sull'egoismo)(339)”.

Il cristianesimo (che sembra essere considerato qui unica e vera religione) quindi, nelle battute finali di queste considerazioni kantiane, sembra racchiudere i dentro di sé i semi della realizzazione del regno di Dio quanto del suo annientamento, e sembra intrecciarsi con una forza irresistibile  nella vita e storia morale di ogni uomo avendo il compito di nutrire la moralità umana, di guidarla alla sua più completa autorealizzazione per far coincidere in ultima istanza la “fine di tutte le cose” con il FINE proprio dell'uomo: LA LEGGE MORALE.

 

 

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