KIERKEGAARD

A cura di

TIMORE E TREMORE

L’opera "Timore e Tremore" appare il 16 ottobre 1843. «Dopo la mia morte» scrive Kierkegaard nel Diario a proposito di Timore e Tremore, «si vedrà che basta quest'opera per rendere immortale un nome di scrittore, si inorridirà per il tremendo pathos che contiene». Firmata da Johannes de Silentio (uno dei molti pseudonimi che Kierkegaard ama enigmaticamente adottare), Timore e tremore fa parte delle opere scritte nel 1843, dopo la rottura del fidanzamento con Regine Olsen. Johannes de Silentio vi prospetta la possibilità della «sospensione dell'etica» di fronte all'esigenza religiosa: quel Dio che ha ordinato ad Abramo di sacrificare Isacco ha imposto a lui (Johannes, cioè Kierkegaard) di rinunciare a Regine. Pur attraverso i veli di una sapiente allegoria, questa singolare «lirica dialettica» ci rende partecipi delle tensioni di un'esperienza religiosa profondamente vissuta. Kierkegaard, in Timore e Tremore, si è servito del dramma di Abramo (di cui non ha capito l'intreccio tra colpa morale e interesse politico) per giustificare la sua rottura col mondo sociale e l'insegnamento. Abramo -secondo Kierkegaard- non può essere capito dalla massa perché vive un rapporto speciale con l'assoluto. Apparentemente sembra un assassino, invece egli compie soltanto un sacrificio che gli viene richiesto da Dio. Il dramma di Abramo è che non può comunicare a nessuno la sua angoscia. Kierkegaard si identifica in Abramo come nell'Angoscia lo farà con Adamo, ma in entrambi i casi stravolgendo completamente il senso delle cose. Nella prefazione dell'opera l'autore si dichiara poeta, non filosofo. "Il sottoscritto non è affatto un filosofo; egli non ha compreso il sistema, non sa se esso esiste, se è compiuto; [...] egli è, ‘pöetice et eleganter’, uno scrittore". La filosofia, alla quale si dichiara estraneo, e refrattario, è quella hegeliana, che viene criticata in due punti nodali: nella identificazione radicale dell’interno e dell’esterno (per cui la sfera dell’interiorità perde ogni sua determinante e specifica consistenza); nella risoluzione della fede come momento che va oltrepassato nel divenire dello Spirito. L’opera, poi, si svolge in due tempi:

Stati d’animo e Panegirico di Abramo in cui prevale l’andatura poetica;
Problemata e Problemi (I, II, III) in cui la ragione dialettica riprende i problemi della prima parte e li dispiega in una serrata riflessione.
Stato d’animo

Lo "Stato d’animo" è quello esistenziale, dove si aprono, nel "mistero" della libertà che è il "segreto" dell’esistenza, le varie possibilità, dentro le quali si staglia netta e decisa la fede di Abramo. Le quattro "visioni" che il solitario melanconico e contemplativo riferisce a Johannes de Silentio, sono le "possibilità" che si sarebbero potute verificare se Abramo non avesse creduto:

la possibilità della finzione di Abramo che si fa credere da Isacco un mostro piuttosto che egli perda la fede in Dio;
la possibilità della perdita della gioia, come conseguenza dell’assurdo vissuto;
la possibilità della tentazione del peccato imperdonabile: Abramo prega Dio di perdonarlo di aver voluto sacrificare suo figlio Isacco;
la possibilità della disperazione di Abramo e della conseguente perdita della fede da parte di Isacco, senza che il padre mai se ne accorga.
Invece Abramo credette.

Panegirico di Abramo
In questa parte dell’opera Kierkegaard mostra la figura di Abramo quale "eroe della fede". Il "panegirico" può essere schematizzato nel modo seguente.
La funzione del "poeta" è quella di essere il "genio della rimembranza".

Descrizione dell’eroe della fede
Il tempo della fede.
"Il tempo passava" (tempo cronologico);
"c’era la possibilità" (permanere del possibile);
"Abramo credette" (la forza della fede). La forza della fede è:
recupero del tempo come "presenza esistenziale". "Abramo credette e mantenne la promessa";
recupero del transeunte nell’adesione all’eterno. "È una cosa grande il rinunciare al proprio desiderio ma è più grande il mantenerlo dopo averlo abbandonato; è una cosa grande afferrare l’eternità, ma è più grande mantenere la realtà temporale dopo averla abbandonata".
La fede è giovinezza spirituale: "Abramo credette, perciò egli è giovane; poiché colui che [...] crede, conserva un’eterna giovinezza". Proprio perché riscatta il tempo dalla precarietà del divenire nella sporgenza dell’eterno, la fede è giovinezza spirituale.
Il "combattimento" con Dio è la vera "passione" dell’uomo.
"Abramo tuttavia credette e credette per questa vita. [...] Egli credette l’assurdo".

Problemata
I "Problemata" si aprono, quasi per stabilire una sorta di continuità "ideale" tra il momento lirico e il momento dialettico, in cui si delinea la figura del "cavaliere della fede". Abramo è il "cavaliere della fede" e non l’eroe tragico della rassegnazione infinita.
Il segreto del dramma di Abramo è l’angoscia di fronte alla determinazione religiosa, quella del sacrificio del figlio, che è qualitativamente diversa dalla determinazione morale e richiede la decisione della fede: insomma, bisogna "fare della fede un valore assoluto". Il percorso indicato da Kierkegaard è il seguente.

Polemica contro la predicazione dei pastori
L’angoscia. "L’espressione etica per l’azione di Abramo è ch’egli voleva uccidere Isacco, l’espressione religiosa è ch’egli vuol sacrificare Isacco; ma in questa contraddizione si trova precisamente l’angoscia che può certamente rendere un uomo insonne – Abramo però non lo è, egli non ha quest’angoscia".
La determinazione religiosa (il Sacrificio) non è quella morale. "Se infatti si sopprime la fede riducendola a zero o al nulla, non resta più che il fatto crudo, che Abramo voleva uccidere Isacco".
La decisione di fede. "È solo con la fede che si ottiene la somiglianza con Abramo".
Combattimenti dialettici della fede (polemica con Hegel):
Abramo è il "cavaliere della fede" e non l’eroe tragico.
Abramo non è neppure il calcolatore umano. "Egli credette in virtù dell’assurdo, poiché ogni calcolo umano era da tempo stato abbandonato".
Abramo amò Dio con la fede.
Non bisogna andare oltre la fede.
Ricerca del "cavaliere della fede". "si è rassegnato infinitamente a tutto ed ecco che ha riavuto tutto in virtù dell’assurdo.".
Carattere del "cavaliere della rassegnazione infinita".
Il "cavaliere della fede". "Egli fa una rinuncia infinita all’amore, ch’è il contenuto della sua vita, è riconciliato nel dolore; ma allora si compie il prodigio, egli fa ancora un movimento più meraviglioso di tutti, poiché dice: io però credo che riuscirò ad averla in virtù cioè dell’assurdo, in virtù del principio che a Dio tutto è possibile. [...] Egli [Abramo] conosce l’impossibilità e nello stesso tempo crede l’assurdo".
Ecco dunque, riassumendo, i momenti dialettici della fede:
riconoscimento dell’impossibilità secondo i criteri umani;
simultaneamente si crede che ogni cosa è possibile a Dio. Si crede ciò che, secondo la pura razionalità, è l’assurdo.
La fede, perciò, non è un impulso di carattere estetico, né l’istinto immediato del cuore, ma è "paradosso" di vita, che con umile coraggio afferra "tutta la temporalità in virtù dell’Assurdo". Per cui "ogni tempo può essere felice se possiede la fede".

Problema I
Si dà una sospensione teleologica dell’etica?
La seconda parte dell’opera intende ricavare la dialettica della fede, la quale si configura come "inaudito paradosso", che trasforma ciò che sul piano della norma morale generale è un delitto in un atto santo e gradito a Dio.
Esiste una sospensione teleologica della morale? Per rispondere affermativamente a tale domanda bisogna rilevare le connotazioni seguenti.


Connotazione della morale intesa come il Generale, che vale per tutti, dentro un orizzonte di immanenza, giacché la morale ha in sé il suo "telos".
Connotazione dell’Individuo come essere immediato, sensibile, psichico. Ora il problema sta nel rapporto tra l’Individuo e il Generale come norma morale. La morale richiede che l’individualità si risolva nel Generale. Rivendicare infatti la propria individualità di fronte, cioè contro, il Generale è peccato e la riconciliazione può avvenire solo riconoscendo il Generale. La crisi morale sta proprio nel tentativo di rivendicare la individualità di fronte al Generale e la liberazione dalla crisi è il pentimento.
Nel rapporto tra Individuo e Generale si configura la connotazione della fede come paradosso. Per la fede, infatti, per cui l’Individuo si rapporta con l’Assoluto in un rapporto assoluto, l’Individuo si pone sì al di sopra del Generale, ma in maniera tale da essere, radicalmente, in regola con il Generale, in quanto proprio per la fede, l’Individuo come tale è in rapporto assoluto con l’Assoluto. La fede, perciò, non è integrabile con il sistema: è "scandalo" per la ragione del sistema.
A questo punto Kierkegaard fa seguire esempi di "eroi tragici" quali: Agamennone, Jefte e Bruto; ma di fronte alla vicenda di Abramo non si può piangere, come si può fare nei confronti dell’eroe tragico, si ha invece l’ "horror religiosus": la fede è "timore e tremore".

Problema II
Esiste un dovere assoluto verso Dio?
Come si è appena constatato, Abramo ha varcato tutti i confini della sfera etica: il suo "telos" è più in alto, al di sopra dell’etica. Quindi, dal punto di vista etico, sorge una "nuova categoria": il dovere come espressione della volontà di Dio, a cui ci si rapporta in un rapporto assoluto. Ma esiste un dovere assoluto nei confronti di Dio? La risposta è affermativa. Passando attraverso la critica della filosofia hegeliana che pone il "das Aussere" (la manifestazione) superiore al "das Innere" (l’interiore), si giunge ad affermare che il "paradosso della fede" si basa sulla incommensurabilità dell’interiore all’esteriore, per cui è l’"interno" – il "divenire soggettivo" – ad essere superiore all’esterno.
Il rovesciamento della fede nei riguardi della morale è questo: che la morale non è abolita, ma riceve un’espressione diversa, quella del paradosso, che non si presta ad essere mediato.
È questa la "terribile responsabilità" che deve accollarsi il "cavaliere della fede".
Il "cavaliere della fede" deve rinunciare al generale per diventare il Singolo e questo lo fa in forza dell’assurdo; non può chiedere aiuto a nessuna mediazione, neanche a quella della Chiesa; egli è completamente solo.

Problema III
Dal punto di vista etico si può scusare il silenzio di Abramo con Sara, Eliezer, Isacco sul suo progetto?
Il "pathos" è il protagonista delle ultime pagine dell’opera dove viene esaminato il "silenzio" di Abramo. Nel "silenzio" di Abramo, Johannes de Silentio vede configurato il silenzio emblematico della fede, lo "stupore assoluto" dell’uomo. Emerge ancora il caso di Abramo. Il suo "silenzio" non è "estetico" né "etico", ma "religioso".
Un silenzio fatto di sofferenza e di angoscia, che vive e si nutre nella "terribile responsabilità della solitudine".

"Allora «aut - aut»: o esiste il paradosso che il Singolo come Singolo sta in un rapporto assoluto all’Assoluto, oppure Abramo è perduto".

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