FRIEDRICH SCHILLER



SCHILLERNell’età illuministica si assiste al convivere della prospettiva moderna del criticismo con quella arcaica della metafisica e della religione, di cui Schiller è espressione in senso pieno: ciò che egli rifiuta duramente è la riduzione dell’uomo a bisogni, ad amor di sé e a ragione calcolatrice (ragione calcolatrice che sul versante etico sfociava nell’utilitarismo, su quello teoretico nella scienza moderna). In una prospettiva in cui l’uomo è ridotto ad un livello così basso – ridotto "alla prosa", dice Hegel -, quale appunto è quello in cui l’avevano proiettato Machiavelli e Hobbes, - si domanda Schiller (ma non solo lui) - che spazio può esserci per attività quali l’arte? Ad essa vengono assegnate le funzioni del divertimento e della distrazione oppure quelle dell’istruzione dei cittadini, mettendo in luce come il miglior modo di perseguire il proprio interesse particolare è subordinarlo a quello collettivo (ed è ciò a cui mira lo stesso patto sociale). Ma l’uomo non può esser ridotto a mero animale, ancorchè come il più lungimirante fra gli animali, e ciò vuol dire rigettare il fondamento della machiavellica e hobbesiana immagine dell’uomo, anche se non in vista di un fantomatico ritorno alla tradizione metafisico/religiosa, bensì in direzione tale per cui fiorirà una nuova metafisica che tiene conto delle istanze del moderno: pensiamo all’idealismo tedesco e, in certo senso, a Marx, il quale, con la sua pretesa di assolutezza, presenta i caratteri veritativi tipici del pensiero metafisico. Viene invece prospettata una diversa immagine che tiene conto dei mutati tempi e si oppone alla tradizione critica imperante nell’età della Ragione, pur condividendone certe critiche alla metafisica antica: basti pensare a Kant (che di Schiller è maestro), il quale resta fedele alla scienza moderna (newtoniana) ma è pienamente consapevole dei limiti della ragione metafisicamente intesa, rifiutando l’immagine illuministica dell’uomo come mero agglomerato di interessi e pulsioni passionali. Dal canto suo, Schiller è, oltreché uno dei massimi poeti di tutti i tempi, eccellente filosofo, tragediografo e storico, compendiando entro di sé le caratteristiche tipiche del genio universale, alla cui conoscenza nulla sfugge. Vissuto a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, egli dirige dapprima i suoi studi verso la medicina e, divenuto medico nel 1781, pubblica il suo primo grande lavoro teatrale, I masnadieri, redatto clandestinamente quando aveva diciott’anni. Nel 1783 compone La congiura di Fiesco a Genova, nel 1784 Amore e raggiro, nel 1785 vede la luce il celebre Inno alla gioia (musicato da Beethoven), nel 1787 il Don Carlos. Nel 1787 Schiller si trasferisce a Weimar e, dal 1788, si dedica assiduamente agli studi storici, scrivendo la Storia dell'insurrezione dei Paesi Bassi contro il governo spagnolo e, nel 1789, su suggerimento di Goethe, viene nominato professore di Storia presso l’università di Jena, dove pubblica la Storia della guerra dei trent’anni. Ma è solo a partire dal 1791 che egli proietta – influenzato soprattutto dal pensiero di Kant e della sua Critica della ragion pratica - tutti i suoi interessi sulla filosofia, componendo tre opere di centrale importanza per la filosofia moderna: Grazia e dignità (1793), Dell’educazione estetica dell’uomo (1795), Della poesia ingenua e sentimentale (1795). Al 1799 risale la trilogia del Wallenstein e nel 1800 Maria Stuarda. Nel 1804, poi, compone la sua opera forse più famosa: il Guglielmo Tell; l’anno successivo muore. L’opera filosofica di Schiller vanta tra i suoi padri, oltre a Kant, Rousseau e Winckelmann: si tratta di tre autori a cui corrispondono tre posizioni diverse, sì, ma accomunate dalla critica severa dell’antropologia illuministica di ascendenza hobbesiana e machiavellica; il pensiero di Schiller – merita di essere ricordato – godrà di grande fortuna per lungo tempo, fino a trovare una sua punta di vigore nel 1968, quando Marcuse – che del Sessantotto mondiale fu il padre spirituale – compose due testi – L’uomo a una dimensione e Eros e civiltà – da cui traspariva palesemente il pensiero di Schiller, abilmente mixato – in Eros e civiltà – con quello di Freud. Dobbiamo meglio chiarire, a questo punto, perché Schiller si ispiri soprattutto ai testè citati autori: Rousseau era stato il primo a protestare contro l’uomo ridotto dai moderni ad animale lungimirante, e aveva condotto la sua critica facendo sue alcune posizioni affiorate in seno al pensiero inglese di inizio Settecento - specialmente quello di Shaftesbury e Hutcheson – che si era inviperito contro Hobbes. Questi due pensatori, aristocratici e dalle condizioni agiate, asseriscono che, lungi dal ridursi a mero sforzo di autoconservazione, l’uomo è naturalmente simpatia per gli altri suoi simili: viene in questo modo fondato il Settecento "sentimentale" che protesta e rompe con il razionalismo e l’intellettualismo all’epoca dilaganti; l’uomo non è solo ragione, ma è anzi anche e soprattutto sentimento, tale per cui prova per natura simpatia verso i suoi simili e, seguendo gli slanci di siffatto sentimento, dà vita alla famiglia e allo Stato. Si tratta di un sentimento naturale nel senso che è immediato e spontaneo, è cioè un qualcosa che la natura ci detta al di qua di ogni riflessione e di ogni arte, è un "istinto divino" in tutti presente e a cui tutti tendiam l’orecchio: suoi oggetti sono, innanzitutto, le evidenze preriflessionali quali la benevolenza e la simpatia per i nostri simili, nonché un senso di giustizia volto a realizzare nella società un’armonica convivenza (rispecchiante quella della natura) fra gli individui. Ciò che nello specifico Shaftesbury predica è un umanesimo della simpatia, il cui fine naturale consiste primariamente nel raggiungere la virtù e la felicità che ne scaturisce. Hutcheson, esprimendosi in termini affini, va dicendo che l’uomo è animato da un immediato sentimento morale, che è sentimento del bene comune e che noi proviamo inintenzionalmente, a prescindere da ogni riflessione: tale sentimento si sostanzia del desiderio che ciascuno sia felice, sicchè l’uomo non si muove esclusivamente per promuovere e tutelare i suoi individuali interessi, ma, viceversa, per garantire quelli di tutti e non agisce così in vista del proprio bene: se per Machiavelli e Hobbes il perseguimento dell’interesse comune era la cornice per meglio perseguire quello individuale, per Hutcheson e Shaftesbury quello comune vien prima di quello individuale, e anzi quest'ultimo è a al primo subordinato. E questo sentire, configurato come disinteressato, non si colloca né sul piano della razionalità né su quello delle passioni, bensì su un altro e più elevato livello: di esso la metafisica classica non era ignara, e anzi in buona parte tanto l’eros platonico quanto la meraviglia aristotelica – che della filosofia è il motore – ne erano una prima precisa formulazione, quasi come se in essi si presentisse per via arazionale la verità a cui la ragione perviene solo secondariamente. La grande importanza di Rousseau, poi, risiede soprattutto nell’aver per primo affrontato certi temi, influenzando col suo pensare intere generazioni di filosofi (da Kant a Marx), essendo lui il primo moderno ad interrogarsi con serietà sulla modernità in quanto tale e a domandarsi se essa sia realmente positiva o meno. Il filantropismo che alimentava l’illuminismo è reale o fasullo? E la cultura e la società così come si sono evolute presso i moderni rendono per davvero felice e perfetto l’uomo o, piuttosto, lo allontanano sempre più dalla felicità e dalla perfezione? Rousseau è, in altri termini, il primo a problematizzare la cultura moderna, guardandola con occhio critico e contrapponendo l’uomo colto e moderno a quello originario e naturale (il buon selvaggio) nella sua immediata e spontanea naturalezza; e, così facendo, egli elabora una nuova e dirompente concezione dell’uomo: se per i moderni l’iter positivo è quello che guida l’uomo dalla sua condizione originale – attraverso la ragione – alla civiltà, al cui interno sviluppare le proprie facoltà e soddisfare i propri bisogni signoreggiando sulla natura, Rousseau mette in dubbio una tale concezione, chiedendosi se davvero un tale viaggio finisca nell’accogliente porto della felicità e del benessere o, se piuttosto, non si risolva in un naufragio che fa smarrire all’uomo la sua armonia e la sua tranquillità originaria. La ragione, per Rousseau, è sì in grado di smascherare le imposture ordite dalla metafisica e dalla religione (e in ciò essa svolge una funzione altamente positiva), ma non sa comunque essere una guida affidabile e capace di pilotare proficuamente l’uomo, producendo solo un inestricabile caos di opinioni filosofiche contrastanti e poco convincenti che portano generalmente allo scetticismo. Il che, anziché migliorarci, sconcerta e svia la voce naturale della nostra coscienza e riduce i princìpi etici che da essa promanano a pretesto per giochi di opinioni e di sofisticherie di filosofastri. Se ne evince che, quanto più la nostra esistenza si è fatta colta, tanto più è andata persa quella calorosa immediatezza in cui è racchiusa la nostra felicità, giacchè il processo di acculturazione ci ha trasformati da organismi naturali certi del proprio sentire in artificiosi meccanismi razionali: dal naturale e originario timore di Dio siam giunti non solo alla desolante giungla del cristianesimo, ma addirittura – come reazione ad esso – ad un deleterio e pernicioso materialismo ateo, cosicchè l’innata bontà della natura umana è stata rovinata dai sofismi dei sistemi etici eudemonistici, ribaltandosi così nel suo opposto: un’avida macchina calcolatrice. Il primo guasto è l’aver disorientato l’uomo producendo una miriade di sistemi filosofici che si elidono mutuamente; il secondo guasto è l’aver tacitato nell’uomo l’ingenua certezza originaria della voce della coscienza; e il terzo, non meno grave, è l’aver fatto sì che egli possa prevedere razionalmente il futuro, il che non fa altro che impedire di vivere nel presente: la snervatezza della riflessione finisce per inibire l’azione stessa, secondo la formula vita ante acta est vita sine acta (la vita prima delle azioni è vita senza azioni), con cui si lumeggia come le riflessioni che facciamo prima di agire finiscano per paralizzare le azioni: quanto più si fantastica il da farsi, tanto meno lo si realizza. L’eccesso di riflessione è dunque, agli occhi di Rousseau, una grave malattia e in ciò – oltreché nel privilegiamento del sentimento sulla ragione – egli apre i cancelli al Romanticismo. La stessa società moderna, che della culturizzazione è il frutto, altro non è se non la progressiva disintegrazione e atomizzazione dell’uomo, giacchè la ragione finisce per dividere il lavoro, le classi, le condizioni sociali e l’uomo (che per natura è un tutto), in questa maniera, diventa uno specializzato, cosicché la sua vita, da piena che era, si fa angusta e delimitata. Avviene così che l’uomo perda la libertà naturale e sia sempre più precocemente sottoposto all’influsso delle categorie sociali nella loro inflessibilità oggettiva: il suo baricentro finisce per coincidere con ciò che la società per lui decide; da libero soggetto è divenuto una componente oggettiva ed eterodeterminata del sistema sociale in cui è inserita. Riflessione e società espropriano dunque l’uomo della sua naturale e armonica felicità: ecco come la protesta rousseauiana è rivendicazione di un uomo nuovo non riducibile a raziocinio e a società, un uomo che sia anche cuore e sentire, nel senso pascaliano del termine. Si tratta, allora, di una rivendicazione della libertà dalle strettoie della ragione calcolatrice, che per un verso ha sì spezzato le catene dell’oscurantismo metafisico e religioso, ma che, per un altro verso, ha anche instaurato – come notano lucidamente Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo – un nuovo ordine oppressivo che conculca la spontaneità umana. Sicchè la critica di Rousseau ai suoi contemporanei è soprattutto una critica al loro costume di intendere l’uomo come mera razionalità e la civiltà attuale come migliore di quella originaria. In questo senso, egli può sostenere che la riflessione razionale è la fonte di ogni male in quanto produce l’amor proprio, facendo ripiegare l’uomo su se stesso appunto perché, riflettendo, egli separa e contrappone le cose: così, appena nato, l’amor di sé è costretto ad un continuo confronto ed è perciò sempre scontento; ne nascono l’invidia, l’avidità, l’ira, l’odio e, soprattutto, l’ostilità reciproca, onnipresente là dove domina la riflessione razionale. Ne segue il trionfo della simulazione per cui gli uomini con cui si parla non sono quelli con cui si conversa, giacchè di essi non vediamo che le loro figure: le loro buone maniere altro non sono se non la vernice che copre magicamente la loro essenza, una vernice che si configura per Rousseau come il "velo perfido e uniforme dell’educazione" e che è tale da coprire la realtà "sotto questa vantata urbanità che dobbiamo ai Lumi del nostro tempo". Presso i moderni le buone maniere sono sempre valutate positivamente come pilastri della modernità (insieme con la legalità), pur senza nascondere la dimensione simulatrice e ipocrita ad esse inerente. Dal canto suo, Rousseau – in rottura con i suoi tempi – contesta radicalmente perfino la funzione civilizzatrice delle buone maniere, rigettandole dunque in toto e non solo per la simulazione a cui inducono. In mezzo a tanta filosofia e a tante massime sublimi, non ci resta che un’apparenza esteriore e mistificatoria: l’errore clamoroso del filantropismo illuministico consiste appunto nel paralogismo in virtù del quale si vuol fare della riflessione – fonte di ogni male – e del calcolo razionale la panacea universale, pretendendo che ciò che dei mali è causa si proponga anche come loro antidoto. La coscienza calcolatrice è dunque assolutamente negativa, mentre buona è la coscienza sensibile, ovvero quella di quei buoni sentimenti che hanno per Rousseau origine in due princìpi anteriori alla ragione: uno di questi si interessa ardentemente al nostro benessere e alla nostra conservazione, l’altro ci ispira una naturale ripugnanza a vedere soffrire e morire qualsiasi essere vivente. Tali princìpi sono l’amor di sé e la pietà, che, immediati e spontanei, vengon prima della ragione: da essi procedono le passioni della dolcezza e della tenerezza, della benevolenza e della commiserazione. Questi due sentimenti sono naturali, ma si vuol forse dire, allora, che la riflessione sia innaturale? Certo che no; naturale, infatti, è ciò che le cose si ritrovano ad essere, e alla natura umana ineriscono la pietà e l’amor di sé, ma anche la riflessione, che però non è da Rousseau definita come naturale in quanto, a differenza di quei sentimenti immediati e spontanei, essa procede e diviene nel tempo, non è immediatamente data una volta per tutte. Dal concetto di natura come essenza delle cose, definiremo ora come naturali quegli aspetti che presentano i caratteri della natura nella sua immediatezza mentre postnaturale sarà ciò che interverrà in un secondo tempo (tale è appunto la riflessione): mentre l’uomo si trova immediatamente ad essere pietà e amor di sè, diventa riflessione solamente a seguito di quell’attività che è il pensare discorsivo, così come l’artista è tale sia perché dotato di doti naturali sia perché ha saputo sviluppare attraverso l’esercizio il proprio talento. L’amor di sé, anteriore alla riflessione, non è però indotto a far paragoni e non entra perciò in contrasto con gli altri, bensì la sua massima è "vivi e lascia vivere"; a sua volta la pietà precede l’uso di ogni riflessione: ma l’amor di sé è opposto all’amor proprio, in quanto quest’ultimo è deviazione e corruzione del primo, sbandamento causato dall’insorgere della riflessione. Ecco che amor di sé e pietà configurano uno stato di natura buono, di contro ad un pessimo stato di riflessione, giacchè cattiva è la riflessione che trasforma l’uomo in un animale depravato. Ciò vuol dire che ad esser buona è la coscienza che non si lascia sviare dalla capziosità dei sofismi, ma sa ascoltare il proprio sentimento interiore, che non è altro se non la naturale voce della coscienza, soffocata ma non repressa dal sovrapporlesi della riflessione: basta tacitare il blaterare della riflessione ed ecco che torna a farsi sentire la voce della coscienza, pietosa e disinteressata, chiara e spontanea. "Dispensati dallo studio della morale, noi disponiamo a minor prezzo di una guida più certa in questo immenso dedalo delle opinioni umane": la coscienza è, per l’appunto, la guida a cui qui allude Rousseau. E per questa via l’uomo scopre di essere naturalmente buono e di poter dar vita ad un’etica - alternativa a quella utilitaristica – del disinteresse e dell’universalità. Nella sua accesa polemica contro gli Illuministi, Rousseau non si limita a mettere alla berlina la presunta bontà della cultura illuministica, ma anche la sua fantasticheria di migliorare l’uomo e di renderlo davvero felice: "la riflessione non serve che a rendere infelice l’uomo, gli fa rimpiangere i beni passati e gli impedisce di godere del bene presente"; essa, insomma, è destinata a culminare ineluttabilmente in un calcolo previdenziale deleterio e destabilizzante che impedisce di godere del presente, portandoci senza tregua al di là di noi, moltiplicando i desideri e le speranze e, in questo modo, travolgendoci in una spirale di attese e quindi di tormenti: "mi è vietato identificare semplicisticamente la felicità del genere umano con la prosperità derivante dalla soddisfazione ora di questo, ora di quel bisogno". Ed è qui che il discorso di Rousseau – dopo aver abbattuto i capisaldi dell’Illuminismo utilitaristico - si fa propositivo: se la riflessione impedisce di raggiungere la felicità, è forse possibile intervenire sulla riflessione stessa non per eliminarla, ma almeno per attenuarla, in modo tale che il presente diventi almeno in parte godibile. Nella misura in cui si depotenziano i bisogni e i desideri, allineandoli alle risorse disponibili e quindi rendendoli soddisfabili, il presente si fa più vivibile e meglio usufruibile. Tale dovrebbe essere la condizione che vige nello stato di natura, ove è assente la sproporzione fra desideri e capacità di soddisfarli (sproporzione che causa l'infelicità regnante nella nostra società). Nello stato di natura, l’uomo ha pochi e semplici desideri in un contesto in cui può sempre soddisfarli, raggiungendo dunque con grande agilità la felicità: i suoi desideri non oltrepassano mai la possibilità di soddisfarli, giacchè la ragione non prospetta ancora le sue chimeriche immagini che spingono a volere sempre di più cose che, essendo difficilmente raggiungibili, creano infelicità. La sua anima s’abbandona unicamente al sentimento della sua esistenza attuale: ma lo stato di natura, più che una realtà concreta andata perduta, è un’ipotesi di quel che l’uomo potrebbe essere a prescindere dalla riflessione; tuttavia, non di meno, nella realtà concreta la riflessione è componente dominante nell’uomo ed è capace di pervenire ad un autentico autocontrollo, giacchè è essa stessa a rendersi conto dei danni da lei provocati. Essa può dunque indurre alla rinuncia a perseverare nel calcolo e può spingere a desistere dall’amor proprio, dando spazio all’amor di sé e ai sentimenti naturali, adottando la riaffiorata prospettiva non antagonistica e non competitiva dell’amor di sé che si accontenta di provvedere ad un’amministrazione delle risorse disponibili per supplire ai bisogni naturali di ciascuno e non di ampliarsi ossessivamente secondo la logica di una spietata concorrenza. Può così instaurarsi un ordine di cose che si limiti ai bisogni naturali, in cui l’uomo si scopre autosufficiente e "trova nel proprio stato tutto ciò che gli occorre per essere contento e per non volerne uscire". Nella quinta parte della Nuova Eloisa, Rousseau tratteggia una tenuta in Svizzera abitata da uomini "sensibili" (cioè capaci di sentire la voce della coscienza) e saggiamente amministrata dal suo tenutario, la cui saggezza consiste precipuamente in una riflessione che trascura di inventare artifizi e che si mette al servizio dell’amor di sé: è una comunità che modera i propri bisogni e vive quindi stabilmente felice. Proprio perché a loro non manca nulla, possono stabilizzarsi appagati nel loro presente ed è questa la felicità di un essere bastevole a se stesso, felicità paragonabile a quella di Dio. Ma quello che Rousseau descrive è un idillio utopistico, non una realtà fattualmente esistente: la sua è la proposta di un correttivo che muti l’uomo dell’età utilitaristica per poter lasciar spazio al sentimento e alla naturalità. Sulla formazione di Schiller incide profondamente la lezione rousseauiana, soprattutto attraverso la ripresa che di Rousseau fa Kant in sede etica: quest’ultimo, infatti, scopre grazie a Rousseau l’originale autonomia della legge morale e la "ragion pratica" non è altro che l’immediata e profonda voce della coscienza di cui aveva parlato Rousseau. L’uomo non è buono in forza del suo sapere, ma in forza dell'immediata presenza in lui dell’imperativo categorico che può essere sì non seguito, ma mai messo a tacere. Rousseau – nota Kant – scopre, sotto le implicazioni storiche, geografiche ed economiche che condizionano l’uomo, la legge morale che fa dell’uomo un essere morale, segnalando la sua superiorità su tutti gli altri esseri viventi. Anche Kant combatte la tesi illuministica dell’uomo come agglomerato di passioni e sensibilità, e propone come antidoto la prospettiva di un uomo come razionalità universale e libera, sicchè quella di Kant è la proposta di un’etica della libertà nel senso che la grandezza dell’uomo è scorta nella sua capacità di scegliere da chi (l’imperativo categorico oppure le sensazioni) farsi determinare nelle sue azioni. Gli imperativi ipotetici sono appunto quelli in cui la ragione calcolatrice fornisce i mezzi in vista del soddisfacimento dei bisogni dettati dall’amor proprio: su di essi non si può fondare un’etica universalmente valida; Kant asserisce che l’uomo sente sempre in sé la voce della ragion pura pratica, la quale gli chiede senza tregua di universalizzare il proprio comportamento e di atteggiarsi in maniera tale da considerare gli altri mai come meri mezzi e sempre anche come fini (viene così smentita, ancora una volta, l’etica utilitaristica). Nello sforzarsi di conformare le proprie azioni all’imperativo categorico, rifuggendo alla lusinghiera voce della sensibilità animalesca, l’uomo esercita pienamente la propria libertà, sollevandosi per tale via al di sopra degli altri animali: il valore squisitamente umano dello sforzo morale è da Kant messo all’ordine del giorno, scalzando così la stolida ricerca della felicità utilitaristicamente intesa. Allo sforzo morale spetta la felicità come doveroso riconoscimento (il che porta – come è noto – Kant a postulare l’esistenza di un Dio che premi la virtù), ma tale felicità non è quella utilitaristica né è il motivo dell’osservanza della legge: è, piuttosto, un qualcosa che corona la virtù, la quale è e resta disinteressato perseguimento della legge morale. E il sommo bene è proporzionale connessione tra massima felicità e massima perfezione, il che non ha nulla a che vedere con la ricerca della felicità. In un passo del primo Schelling – quello ancora influenzato da Kant e da Fichte -, viene con forza ribadita la filosofia trascendentale, di contro alla ricerca della felicità condotta stoltamente dagli utilitaristi, e per far ciò Schelling parla espressamente dello Streben, ossia dello sforzo etico all’osservanza della legge morale: "l’uomo in cui opera la libertà della ragion pratica ripudia la felicità sensibile. Quanto più diventiamo liberi, quanto più diventiamo conformi alla ragione, tanto meno necessitiamo della felicità" (Lettere sul dogmatismo e sul criticismo), perché "l’uomo libero arriva a sentirsi innalzato dall’ideale sensibile di felicità" in quanto diventa mera ragion pratica, "pura e illimitata libertà" e, perciò, gode della beatitudine. In quanto agisco moralmente, tendo all’identità del mio essere, ma è una condizione ideale, poiché l’uomo resta sempre e comunque un animale: si tratta allora di un ideale a cui tendere – potremmo dire: un’idea nel senso kantiano – e a cui indirizzare il proprio sforzo morale; sicchè per Schelling la destinazione dell’uomo morale è un costante tendere, così come lo intende Fichte, ed è in tale conato che l’uomo trova la propria eccellenza, e non già in ciò che cerca di far credere l’illuminismo utilitaristico. Tuttavia, le vedute di Kant e di Rousseau, pur vicine in alcuni punti, non possono essere certo intese come sinonimiche: per Rousseau è sufficiente lasciar riaffiorare il lato naturale dell’uomo (l’amor di sé e la pietà) e far sì che questi si abbandoni all’empito dei sentimenti; in tale prospettiva, il selvaggio è buono perchè meno soggetto alla riflessione e per ciò stesso più naturale e maggiormente abitato da buoni sentimenti rispetto a quell’uomo civilizzato che colonizza il mondo sconosciuto per esportare la sua pretesa civiltà. Del resto, la pedagogia di Rousseau – delineata nell’Emilio – si muove in questa sfera testè delineata e la sua ricetta consiste nel lasciar agire la natura in maniera tale che i fanciulli crescano naturalmente, cosicché la ragione è riequilibrata dall’emergere della dimensione naturale. Sull’altro versante, Kant è meno ottimista del suo collega francese ed allestisce una vera e propria gigantomachia, giacchè le inclinazioni sensibili sono a suo avviso in continua conflittualità con la legge morale: le passioni non sono mai del tutto debellabili, poiché i buoni sentimenti di cui parla Rousseau sono pure chimere prive di riscontro nella realtà; l’uomo – se vuole essere tale – è dunque tenuto a forzare la propria natura animalesca per conformarsi alla legge morale che gli detta la sua coscienza. Si tratta di un'autentica scalata alle vette dell’eroismo. Schiller fa a sua volta proprio questo punto di vista di derivazione rousseauiana e kantiana, e non lo abbandonerà mai, pur non accettandolo in toto e coniugandolo con la lezione di Winckelmann, che fu il primo – nel pieno infuriare della cultura illuministica – a guardare alla statuaria greca e a vedere qualcosa che già avevano visto i Rinascimentali: un’umanità profondamente diversa da quella contemporanea. La scultura greca raffigura "un’umanità nello stato dell’unità e della quiete" e le statue greche ci guardano dalla loro sufficienza, rievocando in noi i concetti di interezza e di perfezione: ci pongono dinanzi ad un’umanità in cui non v’è traccia dell’insoddisfazione tipica dei comuni mortali, ovvero un’umanità che sembra appagata della sua beatitudine e non tormentata dal bisogno né percossa da desideri; nelle statue greche non possiamo non scorgere una "nobile semplicità" e una "serena grandezza", di contro ai meschini affanni che travagliano noi moderni, sicchè quella greca è una "bella umanità" e l’ideale di umanità che Schiller propone si configura appunto come mediazione dell’istanza kantiana – derivata da Rousseau – e di quella winckelmanniana: un’umanità cioè che sia al contempo morale e bella, agli antipodi di quella riflettente, calcolatrice e in preda ai suoi desideri e alle sue angosce, impossibilitata a sostare nel presente perché già sempre proiettata verso il futuro. Nelle Lettere sull’educazione estetica è ben rappresentata quest’esigenza di mediazione fra la moralità kantiana e la bellezza winckelmanniana attraverso un’educazione imperniata sull’arte, di cui Schiller si rivela espertissimo conoscitore. Bisogna però chiarire in via preliminare che cosa effettivamente sia la bellezza e come la intenda Schiller: che cosa essa sia, lo suggerisce il termine latino formosus (che significa appunto "bello"), contrapposto a deformis ("brutto"). La bellezza è forma piena e perfetta, mentre brutto è ciò che è solo in parte la forma che dovrebbe essere. Nelle Enneadi, Plotino si domandava significativamente: "dove sarebbe la bellezza se fosse privata della perfezione?". Sicchè si può dire che essa sia il riverbero della forma perfetta ed è per questo motivo che – prosegue Plotino – "le cose belle ci incantano": la forma seduce e piace allorchè è forma perfetta, ma dobbiamo allora chiederci che cosa si debba intendere per "forma perfetta". Secondo Platone, essa coincide con l’idea, ovvero con quell’ente che esiste realmente – pur nella sua idealità – più di ogni ente empirico; secondo Aristotele, invece, forma perfetta è una certa essenza nella sua piena attuazione, che – in quanto tale – non sussiste mai: infatti, vi è sempre e comunque la materia a limitare la forma, cosicchè l’essenza aristotelica non è mai in pieno atto e dunque la forma perfetta è un ideale irraggiungibile. In entrambi i casi resta vero che la forma è l’universale che troviamo presente in una molteplicità di enti che costituiscono una specie a cui la forma conferisce identità; ne segue, allora, che ogni ente empirico è più o meno bello a seconda che sia più o meno se stesso. In una siffatta prospettiva, tuttavia, che ne è del bello artistico? L’arte è esibizione della bellezza e lo è (ciò vale tanto per Aristotele quanto per Platone) in quanto è imitazione della natura. Se così fosse, se ne evincerebbe che l’arte è mera riproduzione della bellezza naturale: in realtà, però, essa è piuttosto raffigurazione della bellezza in sé, è cioè imitazione delle forme universali. L’elaborazione classica del concetto di arte come mimhsiV della natura non comincia forse proprio con quell’aspra condanna platonica ai danni dell’arte stessa, imputata di essere copia di una natura che è a sua volta copia di un mondo intelligibile? L’arte, così intesa, va aborrita in quanto copia di una copia (mimhsiV mimhsewV): su tal concetto, Platone insiste nel libro decimo della Repubblica, in cui l’arte è condannata come mimhtikh tecnh: per un verso, essa è mera copia delle cose – e dunque non fa che allontanare dalla verità delle cose -, per un altro piace solamente perché ha funzione evasiva e titilla i sensi: quest’arte sortisce dunque un’inutile duplicazione del mondo empirico; eppure, accanto e parallelamente a questa concezione, ne troviamo un’altra in Platone, diametralmente opposta: e del resto – domandiamoci – non era forse egli stesso un artista di prima qualità? Leggendo certi suoi dialoghi (soprattutto il Simposio e il Fedro) non si ha forse l’impressione di essere di fronte ad un filosofo che fa della filosofia un’arte raffinatissima? Soprattutto nello Ione e nel Fedro, Platone fa balenare un’altra concezione dell’arte, per cui l’artista sarebbe ispirato direttamente – e anzi posseduto, in uno stato di mania – dalla divinità stessa, che dirige dall’alto la sua attività artistica. L’arte, così intesa, è vero e proprio contatto col divino: sicchè pare che possano in Platone convivere due antitetiche concezioni, cosicchè da una parte troviamo una pseudo-arte che imita un’imperfetta realtà, e perciò va condannata in quanto distoglie dalla conoscenza del vero; dall’altra, un’arte autentica, che, sotto la tutela della divinità, porta al contatto col divino. Solo questa seconda tipologia di arte imita la fusiV in quanto tale, ovvero la natura naturans, principio delle cose, e finisce così per imitare in forme sensibili (poesie, dipinti, ecc) qualcosa che sensibile non è. Nel De oratore (II, 7), Cicerone ci dà una ben riuscita descrizione di questo tipo di arte: "secondo me, nessuna cosa di qualsiasi genere è bella come il suo originale, ma quest’originale noi non possiamo percepirlo né con l’occhio né con l’orecchio, ma solo con lo spirito e col pensiero; perciò possiamo immaginare cosa tale che superi in bellezza le stesse sculture fidiache, giacchè quando Fidia creava lo Zeus o l’Atena non contemplava alcun uomo reale, ma il suo spirito era abitato da un’eccelsa forma di bellezza e questa egli contemplava dirigendo la mano e l’arte in base a siffatto modello". Cicerone ci sta dicendo che l’artista non è mero copista e che l’opera d’arte è qualcosa di divino e di più rispetto alla realtà empirica preesistente alla quale l’opera d’arte fa riferimento. Da un lato, l’arte è inferiore alla natura, di cui è una pura e semplice copia – arrivando a sortire, nel migliore dei casi, una perfetta illusione -, dall’altro è superiore agli enti naturali in quanto corregge i limiti e le deficienze di tali enti, raffigurando qualcosa di più bello rispetto a ciò che esiste in natura. A tal proposito, così si esprime Quintiliano (Institutio oratoria, XII, 10, 70): "le opere di Policrate hanno dato alla figura umana grazia superiore al vero", il che permette a Quintiliano di biasimare Demetrio per aver anteposto la somiglianza alla bellezza; ancora Senofonte – nei Memorabili di Socrate – sostiene che "la pittura sceglie, perché non è facile individuare un individuo del tutto esente da imperfezione". Lo stesso Aristotele (Politica, III) asserisce che "un dipinto sommamente pregevole si distingue dalla realtà perché in essa è disperso ciò che nel dipinto è unitariamente raccolto": se ne ricava che l’arte è emulazione e, insieme, superamento della natura, le cui imperfezioni sono prontamente corrette ed eliminate dalla mano divina dell’artista. Così Dione di Prusa ricorda che "nemmeno uno stolto crederebbe che lo Zeus olimpico di Fidia somigli per grandezza e beltà ad un comune mortale", in quanto l’artista ha sì in certo modo raffigurato la natura, ma modificandola del tutto e cogliendola nella sua solenne perfezione. Nella metafisica platonica occupa un posto assolutamente centrale – come abbiam visto – la nozione di mimhsiV, che peraltro finisce per coincidere con quella di partecipazione: il mondo sensibile è immagine di un esemplare intelligibile corrispondente all’essere pieno e i singoli enti empirici sono quel che sono grazie all’idea a cui fanno capo. Il partecipare all’idea è ciò che fa sussistere gli enti sensibili, sicchè l’idea, pur restando se stessa, diventa gli enti partecipandosi e restringendosi. In questo senso, gli enti sono ideam diversimode imitantem, ciascuno di noi è imitatore dell’idea di umanità; mentre il mondo sensibile è ab alio, le idee sono ab se, cosicchè solo esse sono veramente e, se c’è qualcos’altro oltre ad esse, c’è solamente perché le idee lo fanno essere. Dobbiamo dunque presupporre le idee perché da sé il mondo sensibile non si spiega: così Caio, Tizio e Sempronio non possono essere assunti a spiegazione di ciò che essi stessi sono, giacchè ciascuno è di volta in volta solo il proprio modo di esser uomo e quindi non può mai esser la causa degli altri infiniti modi d’esser uomo: non avendo in sé la loro ragion d’essere, essa dovrà essere ricercata altrove, e più precisamente nell’iperuranico mondo delle idee, eterne, immutabili e corrispondenti al pieno essere, a differenze degli enti sensibili, che invece sono anfibi tra l’essere e il non essere, in quanto nascono e periscono. Se ne evince – se il ragionamento platonico non è zoppo – che i tanti enti sono quel che sono in virtù del fatto che l’idea corrispondente si partecipa, tramutandosi in essi pur restando se stessa, cosicchè finisce per esistere al contempo come eterna pienezza e come limitatezza empirica: gli enti empirici altro non sono, allora, che diverse varianti dell’idea, la quale, partecipandosi, si mima: significativamente, Tommaso d’Aquino asserisce che "in verità le cose superiori stanno alle inferiori secondo una certa qual deficiente similitudine", giacchè l’idea, partecipandosi, crea dei suoi imperfetti imitatori: da grande che è, si fa piccola. Su quale sia l’obiettivo di questa partecipazione in forza della quale trae origine il nostro mondo, Platone tace. Certo è però che le idee, in quanto perfezione assoluta, corrispondono alla bellezza, ed è per questa ragione che i Neoplatonici propongono un’autentica forma d’arte che sia imitazione diretta dell’idea nella sua accecante perfezione: in questo senso, l’artista intuisce i princìpi stessi dell’essere, e a differenza del filosofo riesce ad incarnare sensibilmente quest’intuizione. Stante questa superiore forma d’arte – superiore appunto a quella condannata da Platone nella Repubblica, imputata di esser mera copia di una copia -, bello naturale e bello artistico potranno essere distinti come due diversi modi di empirizzazione dell’idea del bello, in cui decisivo è che il bello artistico supera di gran lunga quello naturale, poiché non v’è dubbio alcuno sul fatto che l’idea sia più presente nelle opere d’arte che non nella natura e ciò conferisce all’artista lo speciale statuto di creatore, in quanto quella che egli produce è una seconda e migliore partecipazione delle idee nell’imperfetto mondo sensibile, idee che sono da lui colte in maniera più vivida ed è proprio in ciò che risiede il miracolo dell’arte: essa è più reale – e dunque più bella – della realtà naturale stessa. Da qui scaturisce il carattere rivelativo dell’arte: a tal proposito, Plotino dice nelle Enneadi che "le statue rappresentano divinità o uomini; se sono statue di uomini, allora sono non di una qualunque persona da noi prediletta, ma di una tale persona che soltanto l’arte possa ritrarla". Troviamo, da un lato, un’arte mimetica – e falsa – e, da un altro, un’arte euretica, che trova e scopre le idee, senza macchiarsi della colpa di imitazione della natura sensibile. Più in generale, all’arte compete dunque una natura ancipite: per un verso è apertura e svelamento del mondo delle idee, ma dall’altro presenta sempre il rischio di essere un velo alle idee e perciò la filosofia – priva di tale rischio – resta comunque ad un livello superiore. Con Aristotele la prospettiva estetica va incontro a radicali trasformazioni: convinto che per spiegare questo mondo quale appare ai nostri sensi siano sufficienti le sue eterne componenti – la materia e le forme -, egli sostiene che non è necessario far riferimento ad un presunto mondo iperuranico: al contrario, per comprendere davvero il nostro mondo, non bisogna uscire da esso, in quanto è pienamente comprensibile in se stesso. Nella fattispecie, Dio – l’atto puro, il pensiero di pensiero – è il magnete che mette in moto il mondo nella sua eternità, e tutte le cose che lo popolano si sforzano di essere pienamente se stesse imitando la perfezione di Dio, cosicché gli enti sono in un interminabile cammino verso la loro piena attuazione. Dal canto suo, in un siffatto mondo, l’imitazione ha funzione operativa: essa descrive un produrre proprio degli animali e specialmente dell’uomo, che di essi segna il punto più alto in quanto equipaggiato di ragione; in particolare, l’uomo è naturalmente portato ad imitare, in quanto trae diletto dal riconoscere e dal comprendere. Ne segue che – come nota Aristotele nella Poetica - l’arte è mimhsiV e lo è in senso positivo, giacchè imita sì il particolare, ma universalizzandolo. In particolare, l’arte rappresenta non già che cosa singolarmente è accaduto, bensì il verosimile: ci mette dinanzi non a cosa si è verificato una sola volta, ma a ciò che può verificarsi sempre e comunque in ogni individuo e in ogni tempo. Pertanto Achille ed Ettore non sono mai esistiti, ma non di meno Omero ha detto la verità, giacchè essi esistono in vario grado in ciascuno di noi. Dell’universale quale è colto dall’arte, poi, possiamo abbozzare un’idea in questo modo: essa ci suggerisce che ad un individuo di tale natura ( o toioutoV) accade di fare e di dire cose di tale natura, in corrispondenza alle leggi della verosimiglianza; proprio a ciò mira la poesia, sebbene poi ai suoi personaggi metta dei nomi che sembran farle perdere quel carattere di universalità che le è peculiare. Sull’altro versante, si ha il particolare quando, anziché dirmi le cose quali potrebbero accadere (oia an genoito) ad un uomo come Edipo o come Aiace (come fa l’arte), mi si dice che cosa concretamente fece (ti epraxen) Alcibiade in quel determinato momento storico. Viene in questo modo da Aristotele segnata la spaccatura tra l’arte, mirante all’universale, e la storia, saldamente ferma ai particolari, enunciati in via cronachistica: di contro ad un’arte che ci dice cosa potrebbe accadere a noi che siamo affatto simili agli uomini che vediamo in scena nelle tragedie, la storia raffigura l’individuo nella sua accidentalità e nella sua particolarità, ed in ciò essa si rivela incommensurabilmente inferiore rispetto all’arte, che è – dice Aristotele – "più filosofica" di essa e, dunque, più veritiera. Stando così le cose, l’ira di Achille altro non è se non l’ira in tutte le sue sfumature, nella sua generalità universale. Sia per Platone sia per Aristotele, dunque, l’arte è tale nella misura in cui imita l’universale: quest’ultimo, poi, per i Platonici coincide con l’idea, per gli Aristotelici con la forma che l’artista raffigura nella sua piena e ideale attualità, in tutte le sue molteplici sfaccettature. In questo senso, l’arte è trasfigurazione della natura tale per cui se ne mostra una perfezione che la natura stessa, di per sé, non avrebbe: è, in altri termini, l’ideale perfezione cui la natura tende e che l’arte anticipa. Quando Aristotele asserisce che l’artista raffigura l’universale, sostiene che a cogliere tale universale egli perviene nello stesso modo in cui vi perviene il filosofo: per un tratto questi procede per induzione, considerando cioè svariati casi individuali; successivamente, egli passa all’astrazione, chè se restasse al livello dell’induzione il suo processo andrebbe avanti all’infinito. Grazie all’astrazione, egli ricava dai tanti casi singolari presi in esame la forma comune. Similmente, l’artista – che al pari del filosofo mira all’universale – paragona fra loro i tanti uomini empirici e poi, per astrazione, riesce a scorgere in essi la forma uomo. Con dire aristotelico, Vasari così si esprime: "perché il disegno padre delle tre arti nostre procedendo dall'intelletto, cava di molte cose un giudizio universale; simile a una forma ovvero idea di tutte le cose della natura, la quale è singolarissima nelle sue misure; di qui è che non solo nei corpi umani e degli animali, ma nelle piante ancora, e nelle fabbriche e sculture e pitture, conosce la proporzione che ha il tutto con le parti fra loro e col tutto insieme. E perché da questa cognizione nasce un certo concetto e giudizio, che si forma nella mente quella tal cosa che poi espressa con le mani si chiama disegno, si può conchiudere che esso disegno altro non sia che una apparente espressione e dichiarazione del concetto che si ha nell'animo, e di quello che altri si è nella mente immaginato e fabbricato nell'idea" e il disegno altro non è se non la traduzione del concetto nel sensibile. Similmente, parecchi secoli prima, Dionigi di Alicarnasso aveva raccontato le vicende dell’artista Zeusi e delle vergini di Crotone: incaricato dagli abitanti di Crotone di dipingere Elena in maniera da rappresentare il canone della bellezza femminile, egli da più corpi di donne trasse quanto di perfetto essi avevano; sotto questo profilo, la sua è una costruzione dell’intelletto frutto dell’induzione e dell’astrazione, in quanto, partito da cinque corpi femminili empirici, arriva alla bellezza femminile nella sua piena attuazione. Ancora Federico Zuccari così scriveva nella sua L'Idea de'scultori, pittori e architetti (1607): "se io voglio intendere che cosa sia il leone, è necessario che il leone da me conosciuto sia termine di questa mia intellezione; non dico il leone che corre per la selva […] ma dico una forma spirituale formata dall’intelletto mio". L’artista viene allora a configurarsi come un visionario che vede la bellezza, ovvero la perfezione della forma, e la fissa su materiale sensibile, cosicché le opere d’arte non sono che visioni della bellezza offrentisi alla contemplazione dei fruitori: e la dottrina dell’arte classica – che va dall’umanesimo al romanticismo – poggia su tali presupposti. Plotino dice che "se si disprezzano le arti perché imitatrici della natura, bisogna dire che la natura stessa imita; quindi si deve riconoscere che esse non riflettono solo il visibile, ma si richiamano ai princìpi [le idee] da cui la natura trae per proprio conto le sue origini": la natura è, in quest’accezione, sensibilizzazione delle idee e l’arte altro non è se non una diversa e migliore apparizione sensibile delle medesime, tanto più che le arti sono per loro stessa natura detentrici della bellezza. Da ciò scaturisce la celebre tesi plotiniana secondo cui "Fidia non ha creato il suo Zeus secondo una realtà visibile, ma così come Zeus stesso apparirebbe se si volesse manifestare ai nostri occhi": per l’appunto, Zeus si è manifestato agli occhi di Fidia, dando prova di come l’arte superi la natura ed in ciò consista il miracolo dell’arte. Nel Quattrocento, Leon Battista Alberti, nel suo trattato Della pittura, si esprimeva aristotelicamente dicendo: "et di tutte le parti, gli piacerà non solo rendere similitudine ma più aggiungervi bellezza", a sottolineare come la bellezza stessa non risieda in una pedestre imitazione della natura quale appare ai nostri sensi; tanto più che "nella pittura la bellezza non è tanto gradita quanto richiesta". D’altro canto, Giovan Pietro Bellori – con il suo L'idea del pittore, dello scultore e dell'architetto (1672) – è il fautore della dottrina classica in Italia e la trasmette fino al neoclaccisismo tedesco: "ciò che l’artista raffigura nelle sue opere è l’idea che originata dalla natura supera l’origine e fassi l’originale dell’arte", come se l’originalità dell’arte stesse nel suo superare la natura e nel perfezionare ciò che in essa è imperfetto. "L’idea costituisce il perfetto della bellezza naturale e unisce il vero al verosimile delle cose sottoposte all’occhio" dell’artista che ne vede la perfezione, "sempre aspirando all’ottimo e al maraviglioso", onde non solo emula, ma si fa superiore alla natura "palesandoci le opere sue eleganti e compite quali essa non è solita dimostrarci perfette in ogni parte". E Bellori, sulla scia dell’esempio addotto da Dionigi d’Alicarnasso a riguardo delle vergini crotonate, porta due esempi significativi: per dipingere una bella donna se ne devono vedere diverse, che sian tutte belle; ma, in assenza di belle donne, occorre saper vedere la bellezza in sé, saltando la fase dell’induzione e passando direttamente a quella astrattiva. Così Guido Reni – narra Bellori – dipingeva la bellezza non quale si offriva agli occhi, ma quale la vedeva nell’idea, poiché in natura le cose non possono mai esser perfette. In questo senso, l’artista vede l’enteleceia, il fine perfettamente attuato delle cose ch’egli raffigura; la famosa battuta di Wilde, secondo cui non è l’arte che imita la natura, ma è la natura che imita l’arte, ben si inquadra nei princìpi di questa specie di koinh platonico/aristotelica di cui stiam parlando: l’arte raffigura infatti le idee e il teloV, e la natura non può che imitare l’arte. Similmente si esprimono Ovidio (Metamorfosi, III, 158) e Torquato Tasso (Gerusalemme liberata, XVI, 10). Per Bellori, dunque, l’arte raffigura gli uomini non quali sono, ma quali dovrebbero essere, sicchè mentre l’imitazione riproduce le cose empiriche, l’arte ci fa veder con l’occhio intelligibile le cose che ancora non si vedono. In sintonia con questi princìpi, Bellori dà una precisa definizione della bellezza classica, asserendo che essa non è altro che "quella che fa le cose come sono nella loro propria e perfetta natura, la quale gli ottimi pittori si eleggono contemplando la forma di ciascuno": tale bellezza è dunque "la perfetta cognizione della cosa cominciata sulla natura", cioè iniziata induttivamente e conclusa per via astrattiva. Nel 1584, Gerolamo Fracastoro pubblica il Navagero, ovvero della poetica, un dialogo in cui tratta delle affinità e dei contrasti tra il filosofo e l’artista: mentre il filosofo ha di mira solamente l’apprendimento, il poeta "non è mosso da alcun altro fine che di esprimere bene assolutamente ciò che si è proposto"; ciò che questi cerca nel raffigurare le cose è la bellezza, quella dell’universale. Perciò quel che i pittori e i poeti aggiungono non è estraneo all’oggetto considerato, ove lo si consideri perfetto e animato quale lo considerano i sommi artisti. Al 1561 risale la Poetica di Giulio Cesare Scaligero, che presenta i poeti come coloro che trovano cose che restano celate agli altri e, a tal proposito, Scaligero cita Virgilio, additandolo come altera natura, ovvero come una "seconda natura", giacchè nelle sue opere troviamo una natura perfezionata: ne segue allora che il mare lo vediamo meglio nei versi di Virgilio che non quando siamo in spiaggia. Il succo del discorso di Scaligero è che non dobbiamo accontentarci di apprendere dalla natura le cose quali essa ce le fornisce, ma dobbiamo interpretarle come se dovessimo noi darle una legge. Dai molteplici aspetti della natura, dobbiamo trarne una perfezione inesistente in ciascun singolo, cosicchè per esser poeti non basta saper verseggiare, bensì occorre essere scopritori di cose mai viste ed è qui che si insidia il precetto – di derivazione oraziana – della doctrina iucunda, incentrata sul docere attraverso il delectare: si tratta, appunto, di insegnare la verità dilettando, in quanto si raffigura quella bellezza coincidente col buono e col vero. In questo senso, ars est simia veri ("l’arte è scimmia del vero"), oltrechè simia naturae, ed è questo un motto che si trascina dagli antichi fino ai moderni. Il senso originario di tal motto è negativo e si riferisce a quegli attori che praticavano un naturalismo esasperato: Aristotele stesso (Poetica, 26) cita beffardamente un tale Callipide che recita in questo modo scimmiesco, calandosi del tutto nella parte assegnatagli: ancora una volta, qui affiora la concezione dell’arte come deteriore imitazione della natura, quella concezione contro cui si era apertamente scagliato Platone. Un altro motto sulla linea dei suddetti è quello secondo cui simia est morum hypocrisis ("l’ipocrisia scimmiotta i buoni costumi"). La prospettiva viene però ribaltata già a partire da Dante, il quale afferma (Inferno, XXIX, 139): "com'io fui di natura buona scimia"; lo stesso Filippo Villani – nella sua Cronaca di Firenze – definisce Stefano, l’allievo di Giotto, come simia naturae, facendo propria la valenza positiva attribuita da Dante a tale espressione. Il classicismo è così detto dal latino classis, che designa la "classe", ciò che pertiene ad una classe eccellente, sicchè l’arte, se è tale, è sempre classica, poiché propone sempre modelli e gli artisti son tutti dei classici (in ciò risiede la loro esemplarità), con conseguenze latamente etiche: il classicismo finisce per essere al contempo un’estetica e un’etica, è la teoria dell’arte classica ma anche dell’uomo classico. In quanto raffigurazione della natura, l’arte è caratterizzata né da un’assoluta originalità né da un’irripetibile individualità: è, allora, una relativa originalità dell’artista, capace di una visione preclusa agli uomini comuni e che egli condivide solo col filosofo. Nella variante aristotelica, poi, l’arte imita il verosimile, la perfezione della natura è un eterno da scoprire, giacchè è sempre iscritto come possibilità nella natura stessa, senza che si crei nulla di nuovo: semplicemente, si esplicita qualcosa di già implicito nella natura e rispetto a cui l’artista ha funzione maieutica. Sia i Platonici sia gli Aristotelici parlano di meraviglie paradisiache dell’arte, senza però far riferimento ad una meraviglia che trascenda la natura: al contrario, tale meraviglia resta inscritta nel suo orizzonte. Pertanto l’artista è costretto dal modello, e questa è la precettistica inerente all’arte. Il momento inventivo è contenuto in quello imitativo, cosicché la vera creatività è possibile solo come imitazione dell’esemplare e, in tale prospettiva, non v’è posto per un’irripetibile individualità come requisito indispensabile dell’artista: l’intuizione artistica presenta, allora, qualche analogia con l’anamnesi platonica, oltrechè con l’induzione aristotelica; si è artisti in quanto si accede al punto di vista universale, non ci si lascia imprigionare dalla propria personalità, ma ci si svincola da essa, manca ogni arbitrio e ogni stranezza. Deve essere oculatamente bandito dalle opere d’arte ogni eccesso e i particolari che sviano dall’universale, altrimenti si finisce per mimare la natura nella brutalità dei suoi dettagli, abbandonandosi ad un rozzo naturalismo. Lo scopo dell’arte non è dunque quello di stupire e di colpire, in quanto lo stupore è l’effetto prodotto da ciò che supera le nostre capacità (esempio tipico di stupore è quello prodotto dal prestigiatore); al contrario, lo scopo autentico dell’arte è di destare in noi la meraviglia, il qaumazein che – a dire di Platone e di Aristotele – accende la filosofia, un po’ come il motto cristiano del "timor Domini, initium sapientiae"; è cioè qualcosa che ci sbalordisce sempre in forza della sua infinitezza. In quanto raffigurazione dell’universale, l’arte deve evitare le intromissioni soggettive, le quali recherebbero danno alla sua universalità; l’artista deve dunque essere in funzione dell’opera d’arte, e non viceversa: ciò spiega il mancare delle firme nei quadri fino a fine Settecento, quasi come se la firma nuocesse all’universale e permettesse all’artista di fare una deleteria irruzione nella sua opera. Ne segue la "normatività" dell’estetica: l’artista prima deve scoprire il modello della sua raffigurazione e poi deve attenersi ad esso; ciò significa che l’opera d’arte raffigura sempre qualcosa. La prima regola è la verosimiglianza con il meraviglioso, la seconda sarà quella della convenienza, ossia l’attenersi alla naturalezza (se devo raffigurare un vecchio, deve essere un vecchio e non un giovane), la terza sarà invece la norma delle tre unità, tale per cui se l’opera d’arte deve essere un tutto compiuto, allora deve avere unità di tempo, di luogo e di azione. Infine, la quarta regola sarà quella dell’umanesimo, tipico del classicismo: l’uomo è il più alto soggetto dell’opera d’arte, il più degno da imitare, giacchè egli è in natura l’ente più complesso e, in virtù della sua razionalità, compendia l’universo intero entro di sé. In quanto più ricca, la forma umana è anche la più bella: ciò si traduce però non tanto in ritratti (dove si indulge all’eccessiva somiglianza), ma nella pittura di storia, l’epica, la scultura raffigurante divinità. Stando così le cose, i due nemici dell’arte classica sono il manierismo e il naturalismo. Il dipingere di maniera è un dipingere soggettivo sottraentesi all’imitazione della natura (così Parmigianino dipinge le Madonne raffigurandole con un collo oltremodo lungo), fa prevalere il fantasticare soggettivo, mettendo in luce – a dire di alcuni critici – la debolezza della mano e dell’intelligenza dell’artista. In origine, maniera era il modo di procedere di un certo artista, sicchè si parla di maniera francese, italiana, inglese; nel classicismo, tuttavia, diventa un termine negativo che indica il dipingere di polso, più con la mano che con la testa. A tal proposito, scrive il già citato Bellori: "gli artefici, abbandonando lo studio della natura, viziarono l’arte con la maniera o, vogliamo dire, con la fantastica idea"; in questo senso, allora, la poesia lirica è la forma d’arte che più rischia di scadere nel soggettivismo. Per quel che riguarda l’altro grande nemico di ogni arte – il naturalismo -, si può con certezza dire che Caravaggio fu il primo esempio di questa pittura fuorviante, corrotto – stando a quel che attestano i critici – dai pittori olandesi raffiguranti i "bamboccianti" (lo spazzacamini, il dentista, ecc), tratteggiati con gretta aderenza al vero. Dal canto suo, l’arte classica si situa aristotelicamente a metà fra naturalismo e manierismo: di ciò è infallibile prova l’arte degli antichi, naturale e al contempo più che naturale, in quanto attiene alla natura colta nella sua perfezione; ecco perché è opportuno, ad avviso dei neoclassici, imitare gli antichi, questi maestri nella corretta imitazione della natura; imitarla significa procedere secondo ragione, in maniera simile a quella del filosofo – seppure senza la consapevolezza che di esso è tipica -, e secondo quel buon senso identificantesi con la razionalità stessa. E’ infatti la ragione a distinguere il sostanziale dall’accidentale, l’eterno dal temporale, il necessario dal contingente, cosicchè imitare gli antichi equivale ad apprendere la lezione di ragionevolezza e di buon senso estetico che essi ci hanno lasciato, in senso sia etico sia teoretico (in virtù dell’identità fra buono, bello e vero). Sotto questo profilo, gli antichi ci hanno tramandato una precettistica basilare e insormontabile: essi furono i primi ad aver correttamente sviluppato la ragione anche in sede artistica, riuscendo in quella perfetta imitazione della natura che insieme diletta e stupisce; ne segue che il richiamo ad essi come modelli da seguire diventa automaticamente richiamo all’eterna ed universale ragione, con l’inevitabile conseguenza che tra antichi e moderni non v’è frattura, sempre che questi ultimi non si abbandonino ai capricci e alle stravaganze del loro arbitrio soggettivo. Così Racine – nella prefazione all’Ifigenia in Aulide – constata un’assoluta identità fra l’antichità e la modernità e, paradossalmente, fra l’attuale Parigi e l’antica Atene: "ho avuto modo di compiacere grazie all’effetto che ha prodotto sul nostro teatro tutto ciò che ho imitato da Omero e da Euripide; il buon senso e la ragione erano gli stessi in tutti i secoli: il buon gusto di Parigi è risultato conforme a quello di Atene". Anche il grande teorico del classicismo francese Boileau – nell’Arte poetica – così scrive: "amate la ragione: nulla è bello se non il vero"; lo stesso Diderot diceva: "non mi stancherò mai di gridare ai nostri Francesi: la verità, la natura, gli antichi". Tesi del tutto analoghe troviamo nel Saggio sulla critica (1771) di Pope e nelle Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti (1708) di Ludovico Antonio Muratori, il quale va sostenendo che il buon gusto dell’artista altro non è se non la retta ragione, quasi una sorta di istinto di essa. Se ne ricava, allora, che il buon gusto è l’attitudine al vero e al bello che gli uomini di gusto (filosofi e artisti) possiedono innatamente, senza che sia possibile apprenderli. Ben si può capire, allora, di qual rilevanza siano gli esiti etici dell’estetica così intesa: l’arte raffigura la perfezione della natura e, dunque, l’uomo – che della natura è il vertice – nella sua universalità, come modello a cui tendere e a cui conformarsi, cosicchè l’arte non fa che mettere il contemplatore dinanzi al proprio paradigmatico modello, ossia di fronte ad un’umanità pienamente attuata, in cui razionalità e sensibilità hanno trovato una così perfetta composizione che la ragione riesce a trasformar le passioni in virtù, con la conseguenza che in esso la ragione può temperare le passioni e conciliarle. Questo è, in sostanza, il modello aristotelico dell’arte e della sua funzione catartica: un po’ più complicata è invece la questione relativa alla variante platonica, in cui la dimensione sensibile finisce per essere enigmaticamente sussunta in quella razionale; l’eros, che inizia come amore sensibile e fisico, si trasforma gradualmente in amore per la bellezza intelligibile, innalzandoci dall’eros per le singole cose sensibili a quello intelligibile per la bellezza in sé. Ciò per Platone non significa che la sensibilità sia stata o debba essere repressa – tale è invece l’amor platonico quale è inteso in età medioevale -, ma, semplicemente, che si sia trasfigurata, giacchè la vita sensibile altro non è se non una deficiente modificazione della vita intelligibile, cosicchè, nella sua ascesa dal sensibile all’iperuranico, non viene in alcun modo repressa la dimensione sensibile, ma la si riconduce a quella – di più alto livello – intellettuale. Sicchè è facile capire perché le statue greche non ci raffigurino mai l’uomo perfetto colto nel suo sforzo, ma, viceversa, sempre oltre ogni tensione, in una perfezione ormai raggiunta: è questo l’emblema del trionfo riportato dalla ragione sulle passioni, sue accanite nemiche ormai debellate, cosicchè la ragione quale trasuda dalle statue greche è colta al di là di ogni antagonismo con esse: l’uomo perfetto così inteso è un tutto armonioso ed è perciò espressione di una bella umanità perfetta, in uno stato di beatitudine che si è sviluppato solo in forza della ragione stessa, infallibile vincitrice delle passioni. Ci troviamo pertanto di fronte ad un uomo autosufficiente ed appagato, che è tale stabilmente, senza essere travagliato da sforzi, bisogni o disagi: questa bellezza dell’anima non può non riverberarsi anche sul corpo. A tal proposito, Schiller dirà che la bellezza interiore traspare anche all’esterno in veste di grazia, attraverso un corpo spiritualizzato e transumanizzato: cosa, questa, segnalata nelle statue antiche dall’assenza di peli o di vene; è, in certo senso, l’antico ideale del kaloV kagaqoV che ritorna, quell’ideale per cui ciò che è buono non può non essere bello, e viceversa. Ciò spiega anche perché, nella statuaria antica, torni con tanta frequenza la figura dell’eroe e non dell’uomo comune: l’eroe è l’uomo perfetto nella realizzazione di se stesso ed è perciò mirabile, un uomo quale nella natura sensibile non esiste né mai potrà esistere; sicchè, entro qualche misura, questi eroi affascinanti e beati, più divini che umani, possono destare in noi – imperfetti mortali – una certa antipatia, dovuta all’inumana astrattezza che li avvolge nella loro quieta imperturbabailità; e così finiamo per provare maggior simpatia per l’umanissima Didone, preda di un’insana passione del tutto umana, che non per l’iperuranico ed eroico Enea, perfetto, sì, ma troppo lontano da noi per essere francamente apprezzato. La definizione di Winckelmann delle statue greche come espressione di "nobile semplicità e serena grandezza" calza allora a pennello: semplicità nel senso di essenzialità, universalità e non esagerazione, naturalezza e spontaneità, naturale sviluppo di una forma verso la sua perfezione; grandezza, invece, nel senso di onnicomprensività, magnanimità, frutto di un animo lungimirante che tutto abbraccia e nulla esclude, una grandezza serena che è tale poiché di nulla abbisogna. Ciò si traduce nello sguardo di beata introversione con cui queste statue ci osservano, paghe della propria perfezione, in antitesi con la lacerazione che caratterizza gli uomini comuni. L’interruzione medievale – con il suo temporaneo smarrimento del mondo antico - non implica tuttavia una frattura nella continuità che lega antichi e moderni grazie alla ragione di cui essi sono parimenti dotati; ed è per questo motivo che il neoclassicismo settecentesco condivide, per un verso, la concezione del ritorno agli antichi come riattualizzazione della ragione, ma, per un altro verso, presenta spiccate varianti nazionali: così in Francia e in Germania esso si rivela particolarmente interessato alla sfera etica, prendendo gli antichi a modello di comportamento. Ma – chiediamoci – da dove trae origine questo improvviso interesse per il mondo greco? Soprattutto dagli scavi di Ercolano e di Pompei che si stavano a quei tempi realizzando e che inducono a far cambiare radicalmente i gusti per quel che concerne l’arredo: dal barocco si passa rapidamente alla linea dritta, con un maniacale attaccamento allo stile greco. I Francesi, poi, guardano soprattutto alle virtù civili e repubblicane degli antichi, che sono una "scuola di costumi" (Diderot) da prendere come esempio per il proprio comportamento; così gli eroi di cui parla Plutarco nelle sue Vite parallele (Muzio Scevola, Attilio Regolo, ecc) assurgono ora – grazie soprattutto ai capolavori di David - a modelli comportamentali imprescindibili per i Francesi; è, in certo senso, la borghesia che rivendica i suoi diritti di contro ad un’aristocrazia sempre più antiquata e soffocante, che si ostina a conservare un ruolo che più non le compete, coprendosi sempre più spesso di ridicolo, come lascia trasparire Parini in Il giorno. Il proposito è dunque quello di edificare con l’arte il cittadino, ed è in questo clima che nasce e si sviluppa a dismisura il museo, come luogo di conservazione e di tesaurizzazione di questi modelli greci che non finiscono mai di istruirci. Sull’altro versante, il neoclassicismo tedesco non guarda tanto alle virtù civiche quanto piuttosto all’uomo greco in quanto tale, oggetto di ammirazione, imitazione e nostalgia: la bella umanità dei Greci suscita un profondo senso di nostalgia e di rimpianto, e ad attirare i Tedeschi non è la filosofia o l’arte greca in quanto tali, ma è l’uomo greco stesso, nella sua perfezione stupefacente, di contro al classicismo rinascimentale che invece si proponeva di riattualizzare innanzitutto la cultura antica. Ciò implica un’accesa polemica contro il cristianesimo in favore della cultura greca (o, meglio, dell’uomo greco), sfociante in un generalizzato tentativo di tornare ai greci imitando le loro opere: la cosa forse più interessante è che i Tedeschi imitano le opere greche in maniera funzionale, e, più precisamente, per cercar di essere Greci, quasi come se ciò fosse il tramite che conduce all’imitazione di quell’umanità. La stessa bellezza dell’arte greca è del tutto dovuta alla bellezza di cui gli uomini greci rifulgevano in modo abbagliante: un’arte che ci presenta in maniera sorprendente l’uomo quale deve essere, forse quale veramente è stato e, magari, quale potrebbe tornare ad essere. Là dove interviene la nostalgia, essa non fa che segnalare che c’è stata una frattura tra il presente ed il passato, a cui si vorrebbe tornare, consapevoli di quanto esso fosse diverso (e migliore): da ciò si evince come gli antichi fossero altri rispetto ai moderni; in particolare, la differenza è data da una diversa esperienza della finitezza. Infatti, quella greca è un’umanità capace, pur nei propri limiti, di una pienezza d’essere pressoché divina in cui trovare appagamento, sicchè a quell’umanità resta completamente estranea la percezione della propria finitezza come di un limite al raggiungimento della propria perfezione (cosa peraltro su cui Nietzsche avrà da ridire): ai Greci manca, dunque, quell’anelito all’infinito che caratterizza la dilacerata umanità dei moderni, consapevoli della propria limitatezza e, perciò, infelici. Ciò che ai greci manca è la consapevole distinzione tra finito e infinito, distinzione di cui solo la filosofia greca è conscia: ma la filosofia greca, per quanto importante, non può essere in alcun caso fatta coincidere con l’uomo greco in quanto tale, quale lo troviamo nell’epoV omerico. Si tratta in certo senso di un’autentica greco-mania dilagante nella Germania di quegli anni, in cui i più vivaci ingegni avvertono la propria finitezza di moderni come un doloroso limite al raggiungimento della perfezione, onde il loro anelito all’infinito. Così scrive Herder: "i greci non ammettevano nessuna sfrenatezza, si fosse anche trattato di indagini su Dio; ritenevano anzi che queste ultime fossero contrarie alla natura dell’uomo, alla misura delle sue forze, alla durata della sua vita […]. Ciò che s’aveva da fare era riconoscere la propria dimensione umana […]. Si direbbe che noi abbiamo alquanto perso di vista i placidi contorni di questa esistenza umana, giacché a quei limiti preferiamo di gran lunga l’infinito e crediamo che l’unica occupazione della Provvidenza debba essere di sottrarci a quei limiti". Nel 1805, Goethe scrive un saggio su Winckelmann e il suo secolo, in cui afferma: "mentre l’uomo, moderno quasi in ogni sua meditazione, si lancia verso l’infinito per poi far ritorno - quando gli riesce - ad un punto delimitato, gli antichi, senza perdersi in ulteriori deviazioni, si sentivano immediatamente e pienamente a proprio agio entro gli amabili confini di questo che era un mondo bello". Augusto Gustavo Schlegel così si esprime in merito: "presso i Greci, la natura umana era autosufficiente e non aspirava ad altra perfezione che non fosse quella realmente raggiungibile con le proprie forze […]. Nella prospettiva cristiana tutto si è capovolto […]. La poesia degli antichi era poesia del possesso, la nostra della nostalgia". Scrive ancora Federico Schlegel: "l’antichità è compiuta rappresentazione della vita, reale conciliazione di finito e infinito, e, perciò, immune dal loro conflitto" e quindi da ogni tensione del finito verso l’infinito; nel mondo greco viene ravvisato un autentico teomorfismo in cui l’uomo, perfetto, può bearsi di se stesso, in quanto egli è, in primis, pieno e armonico sviluppo di tutte le parti umane, cosicchè "solo l’armonica temperanza di tutte le facoltà può produrre uomini felici e perfetti" (Schiller) ed è appunto in ciò che risiede la perfetta natura dei greci di cui parla Winckelmann. Federico Schlegel così si esprime: "come nell’animo del Diomede omerico tutte le forze si accordano perfettamente, così l’intera umanità si sviluppò in Grecia in maniera armonica e perfetta", poiché risultato dell’armonia di tutte le facoltà. In secundis, il prodursi di siffatta armonica perfezione non poteva che essere naturale, ossia immediato e irriflesso. "Il moderno ebbe assegnato dall’intelletto che tutto separa le proprie forme", nota Schiller, e di conseguenza "il moderno non sviluppa mai l’armonia del suo essere" a causa della riflessione, sicchè mentre il moderno è dominato dal nefasto intelletto, "l’individuo greco ebbe assegnate le sue forme dalla natura che tutto unisce". Federico Schlegel asserisce a tal proposito che "l’arte greca è libera dalla signoria dell’intelletto" e perciò non è impacciata dalla riflessione intellettuale e può svilupparsi liberamente alla stregua di un organismo; infatti – prosegue Schlegel - "in Grecia la bellezza crebbe senza cure artificiali e – per così dire – allo stato brado. Sotto questo cielo felice, l’arte figurativa non fu abilità appresa, ma natura originaria; la sua formazione non fu che il liberissimo sviluppo di una felicissima disposizione". La contrapposizione tra la cultura naturale degli antichi e quella artificiale dei moderni non può non richiamare alla memoria Rousseau e la sua tesi, seppur qui arricchita dal mondo greco. L’intelletto produce infatti indebite divisioni e mescolanze, cosicchè all’armonia dell’uomo greco doveva corrispondere una coscienza in cui la riflessione discorsiva ancora non spadroneggiava ed egli si trovava sospeso in una percezione beatifica della propria perfezione naturale, a tal punto che – per dirla con Schiller - "quell’uomo era uno con se stesso e felice nel sentimento della propria umanità", di contro alla riflessione che distingue e contrappone finito ed infinito, dando all’uomo la dolorosa percezione della propria limitatezza. Tale riflessione mancava ai greci e, quindi, presso di loro non vi era contrapposizione tra sensibilità e ragione né, di conseguenza, il prevalere dell’una sull’altra, come invece avviene ai moderni, divisi o per un unilaterale sviluppo del sensismo materialistico o per via di un unilaterale razionalismo sfociante nel rigorismo etico a cui era approdato Kant. I Greci di cui qui Winckelmann, Schiller, Schlegel e Goethe parlano non sono tuttavia quelli della filosofia – anch’essi già alle prese con la riflessione -, ma piuttosto quelli di Omero e della statuaria, cosicchè la filosofia greca subentra come un elemento di disturbo proveniente dall’Oriente, e non tanto come una componente che porta all’apice il mondo greco. Già nella tragedia e nella poesia lirica, del resto, si palesa la contrapposizione tra finito e infinito, quella contrapposizione che porterà alla morte dell’umanità greca. Per i filosofi greci – perfettamente consapevoli della distinzione tra finito e infinito – la perfezione dell’arte è già un ideale, e non qualcosa di realmente esistente nella natura, tant’è che l’artista è da essi concepito come colui che raffigura una perfezione fittizia, che mai potrà darsi in questo mondo. Secondo Winckelmann, invece, l’artista greco non faceva altro che cogliere l’umanità greca nella sua reale (e non ideale) bellezza, dando vita a statue raffiguranti un uomo perfetto che è tale perché non ancora signoreggiato da quella riflessione che, dove presente, rende insicuri e sofferenti. Merito storico di Winckelmann è soprattutto la scoperta e la rivelazione della grecità e della sua perfezione; egli intende se stesso, più che come archeologo o storico dell’arte, come pedagogo che rivela l’uomo greco e tale è lo scopo che affida alle sue veementi descrizioni delle opere greche; la grecità quale egli la concepisce non è un passato ineluttabilmente trascorso, ma è piuttosto una forza viva e presente, un modo d’esser uomini che può e che deve tornare ad essere operante, educando l’uomo a raggiunger la sua vera umanità. Nei suoi scritti – soprattutto in Storia dell’arte e dell’antichità (1764) -, Winckelmann attacca duramente il barocco e sostiene che l’arte greca racchiude in sé un’etica e una pedagogia, cosicchè all’opera d’arte spetta – in quanto veicolo dello spirito greco – uno statuto e una funzione sacramentale, e tale è l’esperienza personale che Winckelmann ha avuto, vivendo in sé l’accendersi di una interiore e latente grecità che torna a rivivere al contatto con quella esteriore delle opere d’arte greche; ed egli invita tutti a rivivere ciò che egli ha vissuto, giacchè la grecità è una possibilità perenne dell’uomo, innata e coltivabile: si tratta di assimilarsi all’uomo greco, facendo rivivere in sé ciò che si imita, cosa possibile appunto perché il greco è virtualmente presente in ciascuno di noi. Si tratta solo di risvegliarlo e, per far ciò, occorre entrare in intimo contatto con le opere greche e con il mondo che da esse trasuda: è, questa, una rivisitazione del concetto cristiano dell’imitazione di Cristo, secondo cui l’incontro col Cristo annunciato dalle Scritture ridesta in noi il Cristo, quella scintilla divina rimasta latente nell’uomo nonostante il peccato originale. Come il vero imitatore di Cristo è colui in cui Cristo rinasce e rivive, così il vero imitatore dei Greci è chi si trasmuta in essi, facendoli rivivere entro di sé, in tutta la loro bella umanità; e in Winckelmann l’imitazione dei greci non fa che scacciare e rimpiazzare quella di Cristo, cosicchè la salvezza dell’uomo è racchiusa nei greci stessi. Ma si tratta di una grecità aspaziale e atemporale (Winckelmann mai giunse in Grecia), che in realtà finisce per identificarsi con Roma; egli contrappone gli antichi e i moderni e, per di più, scalza il cristianesimo, sostituendolo con la grecità, accentuando al massimo l’immanentismo, di contro al trascendentismo a cui porta il cristianesimo: l’uomo è, grecamente, artefice e creatore di sé e della propria humanitas, e la paideia dell’arte antica mira appunto ad educare a questo ideale per cui l’uomo diventa veramente uomo e mito al tempo stesso, tramutandosi in essere prometeico. Nella lirica I segreti così scrive Goethe: "allorchè la sana natura dell’uomo agisce come un tutto, allorchè egli si sente nel mondo come in un grande tutto e allorchè l’armonico equilibrio produce in lui una pura e libera estasi, allora il cosmo, se mai potesse aver sentimento, esulterebbe perché avrebbe raggiunto il proprio fine". L’uomo greco, così inteso, appare come teofania del nuovo dio della religione umanistica quale appare nell’arte. Così si interroga Hölderlin: "perché son legato alle coste della Grecia e le amo più della mia stessa patria? Perché sono il paradiso e il regno di Dio". Così concepita, la grecità non è un mero passato, ma anzi si configura come un possibile futuro: significativamente, Quasimodo ha intitolato una sua raccolta di versi L’antichità come futuro, con un titolo che ben rispecchia la concezione di questi autori, per cui la nostalgia non è sterile, ma produttiva, tesa a ripartorire quell’uomo ideale che visse coi Greci. Un punto nodale del pensiero di Winckelmann è dato dalla sua dura critica ai danni del barocco, età in cui – egli nota amaramente – trionfano i due grandi errori condannati dal classicismo: l’eccessivo naturalismo e il dilagare incontrollato della soggettività dell’artista; nell’arte barocca – l’arte della controriforma, tendente dunque ad una serrata propaganda religiosa – l’uomo è raffigurato nella sua finitezza peccaminosa e, al contempo, nella sua redentrice relazione con Dio: in questo modo, egli è homo viator, colto in tutta la sua contraddittorietà derivantegli dalla sua finitezza, cosicchè ci si trova dinanzi ad un’umanità in lotta tra sensualità e ascesi, tra gioia di vivere e negazione del mondo, in costante tensione e in perenne sforzo. Non è un caso che la cifra dell’arte barocca sia la torsione: così, in torsione sono le statue (pensiamo all’Estasi di S. Teresa del Bernini) ed esse non fanno altro che raffigurare un’umanità contorcentesi in preda a lacerazioni irrisolte, mai in quiete (non a caso i personaggi sono spesso raffigurati col corpo voltato, in preda allo stupore, o col corpo perigliosamente poggiante su di un sol piede): Ninfe rapite e Santi martirizzati ben simboleggiano questo turbinio di movimento incessante di un’arte che è analoga all’umanità che raffigura. Winckelmann asserisce che quest’arte (ai suoi tempi divenuta rococò), lungi dal condurre l’uomo a se stesso, lo perde nel contraddittorio labirinto della sua finitezza, salvo poi predicare la redenzione divina (e qui sovvengono i dipinti barocchi dei cieli divini sulle volte affrescate). La seconda caratteristica deteriore del barocco è il suo soggettivismo, il narcisismo di cui l’autore si macchia, come ben sapeva il Marino quando predicava che "è dell’artista il fin, la meraviglia". Mentre l’artista classico è preso dalla contemplazione e dalla raffigurazione della bellezza, sgombrando l’opera dalla sua presenza, l’artista barocco visibilizza innanzitutto se stesso e non l’oggettiva bellezza, e, così facendo, mantiene il fruitore dell’opera d’arte nella sua soggettiva finitezza. La bella umanità dei Greci è tale perché totalità e armonia delle facoltà e ciò è stato possibile perché tale era realmente la natura greca: in questa maniera, Winckelmann fa proprie alcune notazioni di Montesquieu sull’influenza del clima nell’evolvere delle culture che in esso si sviluppano. Il clima greco è il clima dell’eterna primavera, ottimale per la nascita di una cultura strepitosa: di qui – secondo Winckelmann – i corpi snelli dei Greci che, sotto il loro cielo azzurro e terso, rispecchiante il loro beato stato d’animo, hanno raggiunto in pieno l’umanità. Beffardamente interrogato se tutti i Greci fossero belli quali li si osservano nelle statue, Winckelmann rispose causticamente che magari non tutti eran così belli, ma che comunque davanti a Troia vi era un solo Tersite. Winckelmann identifica di volta in volta la propria concezione dell’umanità greca in diversi topoi, uno dei quali è dato dall’Apollo adolescente, raffigurazione tipica dell’armonia, in quanto nell’adolescente è raffigurata la tipica totalità aurorale di chi è giovane; si tratta dello svelarsi di un cosmo virtuale, che fa sì che l’adolescente sia un plesso di possibilità ancora inespresse, giacchè è ancora un tutto non specializzato, si trova in uno stato di grazia scevro di scissioni e contrapposizioni. In questo senso, è colta l’eterna giovinezza di questa umanità eterna e priva di artificio, poiché la riflessione c’è, sì, ma non domina ancora incontrastata, senza comunque che vi siano eccessi di spontaneità. Tale condizione di puer aeternus appare sì come un dono di quel cielo azzurro e terso che risplende sulla Grecia, ma è un dono coltivato e sviluppato opportunamente, e tal bellezza è massima espressione di benessere; ne emerge quella che Winckelmann definisce come la nonchalance dei Greci, e che ancora Kierkegaard – quando parla di Socrate – battezza come "noncuranza" greca. "Nel contegno delle figure antiche, non si vede il piacere manifestarsi col riso, ma esso mostra soltanto la serenità della contentezza interiore" e – prosegue Winkelmann - "nella quiete e nella tranquillità del corpo si palesa la grandezza posata dell’animo, sublime e nobile immagine di una così perfetta natura"; quello che leggiamo sulle statue greche è l’atteggiamento di chi, lungi dal nuotare faticosamente contro corrente, si lascia portare dalla corrente, galleggiando con leggerezza perché è già compiutamente se stesso. Così, gli eroi greci son sempre colti in posa, stanno e sono se stessi, dunque in riposo, appoggiati, "gli dei e gli eroi sono rappresentati in piedi come nei luoghi sacri ove alberga la quiete, e non come nel gioco dei venti o in una sbandierata", come invece vengono tratteggiati nell’arte barocca (pensiamo ai suoi mantelli svolazzanti). Sono in pace con se stessi perché in loro essere e dover essere coincidono, sicchè siamo lontanissimi da una vita febbrile e fabbrile, con un evidente parallelismo con la polemica rousseauiana condotta contro il modus vivendi della borghesia. Quella dei Greci era una vita trascorsa in ozio (la scolh greca), una vita in cui non ci si occupava che della propria umanità e del resto Winckelmann, nel suo epistolario, ringrazia di continuo i suoi protettori, che gli han consentito l’ozio romano, quel dolce far niente italiano, senza scomposte agitazioni e sfociante nell’olimpica serenità del meridionale (non è un caso che Winckelmann viva in anni che costituiscono i prodromi della rivoluzione industriale). Quando egli parla dell'umanità dei meridionali, intende dire che essi son più uomini di quanto non lo siano i moderni suoi conterranei, sempre più integrati, come ingranaggi, nei ranghi della trionfante borghesia, sicchè il benessere di cui Winckelmann parla non è esente da coloriture epicuree. "A Roma sono vissuto", egli nota beatamente, e non diversamente Goethe dirà: "a Roma sono rinato". E’ infatti l’ozio – nella fattispecie quello vissuto a Roma – ad illuminare sul vero valore dell’esistenza, che deve essere coltivata e non sprecata. Nel paradiso dell’umanità si gioca e non si lavora, perché il gioco – in antitesi col lavoro – impegna e insieme non impegna tutte le facoltà dell’uomo, rendendo la sua vita un po’ come una festa giocosa. Ma le feste, come tutti sappiamo, son sempre minate dagli spettri del passato e da quelli del futuro, cosicchè il loro carattere peculiare è la costante delusione rispetto all’attesa (tematica brillantemente colta da Leopardi). Le feste risultano infatti perennemente insidiate dallo spauracchio del lavoro, di cui sono solo una vuota interruzione; si limitano a soppiantare temporaneamente l’angoscia con il vuoto. E tale vuoto della festa è un vano diversivo, astratto dal lavoro ma ad esso connesso, cosicchè nella festa il lavoratore si sente fuori luogo: l’autentica festa – nota Winckelmann – è l’ozio, reso possibile dalla pienezza e dalla compattezza che fan sì che si sia presenti a se stessi e non proiettati nel passato o nel futuro. Ciò avviene quando si contempla l’opera d’arte e, del resto, l’etimologia stessa di negotium (il termine latino che noi traduciamo con "lavoro", "impegno") è nec otium, il che rivela come il lavoro altro non sia se non la corruzione dell’ozio, quella condizione originaria dell’uomo celebrata anche da Federico Schlegel. Schiller, dal canto suo, cercherà una democratizzazione di quest’ozio elitariamente inteso da Winckelmann, che esalta sempre e di nuovo la libertà di Roma e della Svizzera, di contro al dispotismo nordico e francese. Si tratta della libertà non solo da mode, costumi, educazioni e morali soffocanti, ma anche dallo Stato e da una legislazione oppressiva, sicchè in questo senso Winckelmann apre veri e propri spiragli in direzione liberale; la libertà così intesa era a suo avviso presente presso i Greci, tant’è che la tunica greca non costringeva i corpi e così pure la nudità fisica era orientata ad un libero sviluppo psicologico. Dunque il contatto con quell’arte antica è di importanza vitale, e nell’Ottocento si darà vita ad una variante estetizzante del pensiero di Winckelmann, massimo esponente della quale fu Walter Pater col suo romanzo Mario l’epicureo. Schiller invece darà della visione di Winckelmann un approfondimento filosofico e soprattutto tenterà di coniugarla con la rigorosa prospettiva morale di Kant, fuggendo perciò agli estetismi. Ed è nei drammi che Schiller espone la prima critica – fortemente rousseauiana – indirizzata contro la società a lui contemporanea. Ma, prima di divenire grecomane, egli aderì allo Sturm und Drang ("tempesta e impeto"), quel movimento preromantico - di reazione all’illuminismo e al suo razionalismo dilagante – a cui aderì, fra i tanti, Goethe stesso con il suo I dolori del giovane Werther. C’è chi ha acutamente sostenuto che lo Sturm und Drang è stato per la Germania ciò che la Rivoluzione è stata per la Francia, avendo essi come comune denominatore la rivendicazione di libertà per il singolo: da ciò scaturiscono la netta avversione per l’illuminismo, le spiccate tendenze anarchiche e il culto del genio. Schiller tuttavia occupa in tale ambito una posizione del tutto particolare e a sé stante, giacchè – esente da tendenze anarchiche – fa sua la rivendicazione di libertà per l’individuo, non però nel senso elitario (winckelmanniano) del genio, ma nel senso democratico di far essere uomo ogni uomo, e la libertà che egli rivendica trova nella legge morale della ragione kantiana il proprio vertice. Nei suoi drammi, Schiller rivendica anzitutto la libertà politica in senso antitirannico, in direzione di uno Stato libero e costituzionale, fondato sul patto sociale. Così, nel Guglielmo Tell viene esaltata la libertà svizzera di contro all’opprimente tirannide degli Asburgo, ne La congiura di Fiesco a Genova. Un dramma repubblicano. Fiesco combatte contro la tirannide dei Doria a Genova. Il più importante di questi drammi rivendicanti la libertà resta indubbiamente il Don Carlos, ambientato nel corso delle sanguinose guerre di liberazione dell’Olanda dal dominio spagnolo, dove la lotta di liberazione è anche – e soprattutto – lotta contro l’oppressione religiosa perpetrata dalla cattolicissima Spagna. Mentre in La congiura di Fiesco a Genova il dispotismo è inteso come il frutto della malvagità del tiranno, nel Don Carlos la tirannide si articola in una complessa struttura repressiva che abbraccia l’intera esistenza e che giunge fino alla feroce repressione religiosa. Il deuteragonista di Filippo II – il sanguinario tiranno – è il marchese di Posa, suo consigliere, che, mosso da nobili sentimenti, risponde al suo sovrano e alle sue aberrazioni che la pace di cui egli parla è la pace di un cimitero. Posa ritiene la repressione - vagheggiata e attuata da Filippo II - come propria di un uomo che non sopporta la libertà, nella convinzione che l’uomo medio non sia capace né della libertà di pensiero né di quella d’azione e che, se abbandonato a sé, non perverrebbe né alla fede né ad una morale accettabile. Ne segue che, nella prospettiva di Filippo, l’uomo non è nato per essere libero, ma è anzi schiavo del peccato; è, evidentemente, una prospettiva reazionaria facente capo ad una concezione antropologica a dir poco pessimistica, di remota ascendenza machiavelliana. Il marchese di Posa nutre una concezione antitetica dell’uomo, che, a suo avviso, è fatto per la libertà e solo in condizione di libertà può diventare pienamente se stesso; ove essa manchi, egli diventa ciò che Filippo II crede che sia per natura. Dunque per Posa – vessillifero della veduta di Schiller – l’uomo è rousseaianamente libero per natura ed è il dispotismo a renderlo schiavo, è l’oscurantismo a mantenerlo forzosamente in uno stato di inferiorità e poi ad accusarlo di essere ciò che l’oscurantismo stesso ne ha fatto. Dal dramma traspare la convinzione schilleriana che la libertà sia il presupposto della vera umanità. La trama del Don Carlos non è architettonicamente complessa: l’Olanda rischia di essere ispanizzata dal terribile duca d’Alba e il magnanimo marchese di Posa cerca di impedire che ciò avvenga cercando di convincere Filippo II a rimpiazzare il duca D’Alba con il suo stesso figlio don Carlos, che è da sempre conquistato dall’ideale di libertà. Tratteggiando la nobile figura di don Carlos, Schiller pare avanzar l’idea che la libertà conquisti moralmente, senza far violenze d’alcun genere, e don Carlos descrive appunto questa irresistibile conquista operata dalla libertà, che finisce per lambire perfino lo spietato Filippo II. Così Schiller dimostra abilmente la forza naturale della libertà autoespansiva, ricordando da vicino il Nerone quale sarà tratteggiato da Kierkegaard: chi lo circonda teme il suo potere, ma non rispetta la sua persona. Anche Filippo II, almeno per un attimo, si ribella al proprio dispotismo, vorrebbe essere libero e non più solo, e proprio in ciò risiede la tragicità del suo personaggio, trasceso da quel dispotismo che egli ha sviluppato nel tempo. Il marchese di Posa congiura politicamente contro di lui e avviene così che il passato si vendichi sul re proprio nel momento in cui questi pare convertirsi alla libertà: accecato dal furore, Filippo ricade nel proprio sistema tirannico e consegna il figlio – don Carlos – alla tremenda inquisizione. Filippo è dunque condannato al dispotismo perché troppo tardivo è stato il suo tentativo di liberarsene. Il dramma si chiude male, col trionfo della repressione del corifeo della libertà, ma la certezza interiore del primato egemonico della libertà è assoluta e incrollabile; da una parte si vede come quella del dispotismo sia una non-umanità, e dall’altra si mette in luce l’incontrollabile potenza della libertà. Altro dramma in cui Schiller affronta questa tematica è I Masnadieri, in cui viene rivendicata la libertà del singolo contro una società o ingiusta o troppo opprimente, tale da manifestarsi come profonda simpatia per il delinquente. L’epigrafe dell’opera è – significativamente – "in tyrannos!" ("contro i tiranni!"), ad indicare l’avversione schilleriana contro la tirannide della società, dello Stato e della legge. E la lotta avviene a due livelli: contro la degenerazione di società e Stato, e contro la società in quanto tale, giacchè questa limita e danneggia la libertà delle grandi individualità, imponendosi illiberalmente su di loro. L’eroe dell’opera è Carlo Moor, è il masnadiero protagonista che si è oggettivamente opposto alla legge, ma che soggettivamente è vittima di essa e della società. Egli è uomo forte, a tal punto da sentirsi stretto e ingabbiato nella società, cosicchè – esaltato dalla lettura di Plutarco e delle gesta eroiche dei suoi personaggi – decide di andar contro questo secolo "sporco di inchiostro" che tanto lo nausea; è una fiacca epoca di castrati quella in cui Moor si trova a vivere, poiché la natura umana è in essa stata corrotta con disgustose convenzioni che intrappolano e reprimono ogni impulso eroico, sicchè egli si rifiuta di costringere il proprio torace entro un panciotto e la propria volontà sotto la legge positiva della società. Tale legge non ha mai prodotto grandi uomini, mentre la libertà produce "colossi ed estremismi", quella di Moor è una natura eroica che si trova spaesata nel mondo borghese; respinto dal padre per via dei suoi ideali, si mette in lotta contro la società, facendo proprio un ideale di rivoluzione sociale. Divenuto capo di una banda di masnadieri, immaginandosi vendicatore di un’umanità tradita, egli intende rappresentarla nella sua libertà rousseauianamente concepita, specializzandosi in omicidi, frutto non di un basso istinto, ma di un superiore ideale che Schiller – nella prefazione al dramma – accosta all’idealismo fantastico di Don Chisciotte. Moor uccide tutti i pezzi grossi della società borghese (in primis preti e banchieri), ma poi la soluzione del dramma rientra nell’alveo della tradizione illuministica, in quanto egli, accortosi dell’assurdità del suo agire da masnadiero, si consegna alle autorità per pagare il fio delle sue colpe. In realtà, questo finale è un ingegnoso escamotage dispiegato da Schiller per rendere digeribile il proprio dramma dalla censura, e prova ne è il fatto che, pur concludendosi con la disfatta di Moor, resta in apertura dell’opera l’epigrafe "in tyrannos!". Intrigo e amore narra di una vicenda ambientata nella società borghese contemporanea; Schiller vi rivendica il naturale diritto dell’amore che deve trionfare sull’artificiosa distinzione delle classi sociali. Sicchè al centro dell’opera troviamo un giovane nobile sinceramente innamorato di una ragazza borghese: egli si batte contro le convenzioni sociali che vorrebbero proibirgli il matrimonio in quanto frutto dell’amore e non combinato dalla ragione calcolatrice mirante all’utile; la tematica è evidentemente desunta da Rousseau e dal suo La nuova Eloisa. Di centrale importanza nella formazione di Schiller è il suo incontro con Goethe, e in una lettera del 28 agosto del 1794 egli afferma che ciò che Winckelmann fu per Goethe, Goethe stesso è stato per lui: a colpire Schiller fu soprattutto la grecità di cui Goethe era imbevuto, la presenza in lui di una sensibilità antica che lo rendeva un tutto compiuto e che segnalava in lui e nella sua compiuta bellezza una possibilità greca. Del resto, l’antico quale era concepito da Winckelmann è da Goethe definito come "un tutto bello e compiuto", a segnalare che in lui vi è stata reale esperienza della totalità greca; lo sguardo di Goethe – nota Schiller – si posa quieto e puro sulle cose, rendendolo un uomo tutto d’un pezzo che vive in pieno accordo e in stupenda unità con se stesso, nella sua grecità interiore – scoperta nel suo viaggio in Italia. Se Goethe fosse nato greco o italiano, non avrebbe avuto bisogno di questo peregrinare per riscoprire la propria interiore grecità, ma sfortunatamente il suo spirito fu gettato in una creatura nordica. Oltre al personale contatto con Goethe, Schiller – fin dal 1784 – era entrato in contatto con l’antichità nei musei, ove aveva inteso le statue greche come "scuola di umanità" e nelle Lettere di un viaggiatore danese (1785) dà espressione alla sua ancora estemporanea grecomania dicendo: "mi sento più nobile, mi sento migliore", potenziato e ampliato nella propria umanità, e non solo grazie ad una fruizione estetica, bensì attraverso l’esperienza che egli ha fatto della propria umanità ampliatasi. Notiamo qui affiorare il tema winckelmanniano del teomorfismo: "i Greci rappresentarono i loro dei solo come uomini più nobili e avvicinarono i loro uomini agli dei". Questo è l’invito che i greci rivolgono a tutti gli altri popoli della terra: "siate come noi!". Al 1788 risale la poesia Gli dei della Grecia, un componimento che già costituisce un’ulteriore tappa nella grecofilia schilleriana, giacchè Schiller è ormai entrato in contatto con l’ambiente grecizzante di Weimar (dove erano operativi Goethe e Herder) ed è sprofondato nella lettura delle Vite parallele di Plutarco. Gli dei della Grecia può essere suddivisa in tre parti: innanzitutto, Schiller rievoca l’antica Grecia come età felice, di giocosa armonia dispiegantesi in feste, giochi e danze; da una tal società ogni bruttezza è bandita e perfino la morte non desta orrore, ma è anzi raffigurata nei termini mitigati dei Campi Elisi. Nella seconda parte, vi è invece una lamentazione sull’età moderna e sulla sua religione (il cristianesimo), che ha introdotto angoscia e amarezza nel mondo, con una tetra serietà e un’etica della rinuncia, sottraendo la felicità al cuore degli uomini e sostituendo gli amabili dei col Dio vendicativo della predestinazione. Gli dei, presso i Greci, erano umani, gli uomini erano divini; al contrario, ora l’uomo è meno di un verme di fronte a Dio, cosicchè non può non sentire quella dolorosa distinzione tra finito (umano) e infinito (divino) che ai greci mancava. Proprio perché è un verme, l’uomo moderno non può che dolersi e prostrarsi, provando nostalgia per un’età andata perduta; ma la poesia – e qui entriamo nella sua terza parte – non si chiude con un nostalgico lamento, ma con un’esortazione alla restaurazione e alla rinascita della grecità. Sicchè si tratta di trasformare la nostalgia dell’età dell’oro, una nostalgia che non si riduce a rimpianto di un’Arcadia perduta, ma è aspettativa di un Elisio futuro. Quella Grecia è l’eterna manifestazione di una gaia possibilità di vita ed è basandosi su di essa che Schiller auspica una nuova vita fantastica, che appare impossibile senza rimando al dinamico modello greco, unità di spirito e di natura. In quest’ottica, la dignità dell’uomo si è consegnata nelle mani dell’arte antica ed è solo al contatto con essa che l’uomo può riacquisire la propria umanità, accostandosi a quello che fu "il popolo più armonico che sia mai esistito", come dice Vittorio Alfieri, che in certo modo partecipa della temperie neoclassica. Il riconoscimento del proprio compito e della propria destinazione nasce al contatto con l’arte antica e muove dall’imperativo delfico del gnwqi sauton, sicchè così può affermare Schiller: "ed ecco vedi, il sole di Omero sorride anche a noi". Al 1789 risale un’opera più articolata, il poemetto Gli artisti: in esso, Schiller sostiene che l’arte è peculiarità umana, giacchè esistono, sì, animali industriosi e laboriosi, ma artisti sensu stricto sono solo gli uomini, che producono opere d’arte non funzionali ad altro se non alla rappresentazione della bellezza; quest’ultima è oggetto della sensibilità congiunta alla ragione. E Schiller osserva come l’uomo sia anzitutto appetito, inclinazione sensibile caos di desideri ciechi, e come a lui sfugga "la bella anima della natura". Ciò significa che un tale uomo non è in grado di cogliere la bellezza della natura perché unicamente intento a desiderarvi e ad appetirvi, non vede in essa altro che strumenti. L’uomo coglie la bellezza naturale degli oggetti quando, anziché desiderarli e conoscerli, li contempla; in tal caso, essi cessano di essere oggetti e si palesano come parvenze, come mere figure, appare l’intrinseca bellezza della loro forma. Queste ombre apparenti sono "l’Elisio dipinto con amabile illusione sulla parete del carcere dell’uomo" e qui implicitamente Schiller sta asserendo che quando l’uomo desidera e conosce è chiuso in un carcere, sicchè la sua vita quotidiana è un carcere; l’eventuale evasione è possibile solo nel caso della contemplazione. Nel desiderio appetito si rivela la dimensione sensibile dell’uomo, nel conoscere si palesa invece quella razionale: nella dimensione estetica le due si incontrano e avviene il miracolo della contemplazione, che è sì sensibile ma non appetitiva, è sì conoscitiva ma non aridamente razionale. Accade così che la contemplazione educhi l’uomo realizzando anche in lui quella bellezza che egli coglie contemplando le cose fuori di lui; sicchè la contemplazione lo rende pienamente uomo perché le sue due componenti (la ragione e la sensibilità) trovano un armonico accordo. Nella contemplazione, infatti, la sensibilità è educata alla ragione, ad essa si apre senza però cessare di essere la sensibilità che è, ma perdendo la propria unilateralità possessiva, il suo esser cieco desiderio. Dal canto suo, la ragione è temperata e aperta alla sensibilità, con la quale collabora nella contemplazione. In questa dimensione particolare, il desiderio non esclude la voce della ragione e questa legge (che è la legge morale) si presenta conciliata con la sensibilità stessa. Questa che contempla è l’anima bella, caratterizza dalla spontanea adesione della spontaneità alla legge morale della ragione, che non respinge, ma anzi accoglie la sensibilità stessa, cosicchè – dice Schiller – l’anima bella è anche anima libera e dalle inclinazioni della sensibilità e dal dovere imperioso della ragione. La relazione da Schiller intrattenuta con Kant a livello filosofico è ancipite: da un lato, il pensatore di Köenigsberg ha per lui il merito incommensurabile di aver confutato quella dottrina che concepisce il piacere come unico motivo per cui si agisce razionalmente; senonchè – e qui troviamo il limite che Schiller imputa a Kant – l’esposizione kantiana, tentando di sconfessare l’edonismo, finisce per mettere in posizione altamente negativa l’inclinazione sensibile in quanto tale. Sicchè Kant agisce bene nel mettere in luce come, in sede etica, la ragione calcolatrice non sia la sola, ma come, accanto ad essa (che genera gli imperativi ipotetici), vi sia anche la ragion pura pratica, produttiva dell’imperativo categorico. Tuttavia, il filosofo della "rivoluzione copernicana del pensiero" sbaglia nel momento in cui vede le inclinazioni sensibili come nemico da eliminare. Ciò a cui Schiller mira è, infatti, una rivalutazione della sensibilità, pur concordando pienamente con Kant sul fatto che il valore morale di un’azione dipenda solamente dalla sua diretta determinazione da parte della legge morale. Ma Kant, per tenere fermo questo valido principio, esagera nello svalutare la sensibilità, cosicchè avviene che, per esser certi che l’inclinazione sensibile non partecipi a determinare la volontà, si preferisca vederla in lotta - e non in armonia - con la legge della ragione. Ora, è sì vero che il consenso della sensibilità alla legge morale non è garanzia della conformità della sensibilità al dovere, ma tale consenso non è d’altro canto un segnale della non-moralità della volontà. Kant, nei suoi scritti, va contro lo spirito della propria etica, spirito che è innanzitutto adesione alla legge morale dettata dalla ragione; ciò significa sì che non deve essere la sensibilità a determinarmi, ma non che essa possa in qualche modo non essere coinvolta dalla (e nella) legge morale. Il rigorismo morale che alimenta il pensiero di Kant riguarda la sua esposizione infelice che si oppone allo spirito stesso dell’etica kantiana, e da ciò Kant è indotto dalla sua accesa polemica contro l’edonismo e il materialismo dilaganti ai suoi tempi. Ma – contesta Schiller -, pur essendo necessario attaccare l’edonismo materialistico, tale battaglia non implica un’opposizione alla sensibilità in quanto tale: "nella filosofia morale di Kant, l’idea del dovere è presentata con una durezza che fa indietreggiare spaurita la grazia e che potrebbe facilmente indurre un cervello debole a cercar la perfezione morale sulla via di un ascetismo tenebroso e monacale". Scrive ancora Schiller: "come in Lutero, così anche in Kant c’è qualcosa che ricorda il monaco, un monaco che ha sì aperto il proprio convento, ma che non è riuscito del tutto a cancellarne le tracce". Dire che a determinarmi deve essere il dovere, non vuol dire che la volontà è buona solamente se opposta alle inclinazioni naturali: si tratta, allora, di riaffermare la verità della dottrina etica kantiana correggendone gli eccessi polemici e anti-sensibili, rispettando anche le esigenze e i diritti della sensibilità, la quale deve rientrare nella sfera morale, pur non determinando l’azione morale. Se escludiamo dall’uomo la sua sfera sensibile – come pretende di fare Kant -, egli rimane impoverito e sminuito, privo di una parte di sé: sicchè da Schiller la perfezione morale è intesa nei termini di totalità, una complicità di sensibilità e ragione, per cui l’uomo veramente morale è quello il cui sforzo è anche di educare la propria sensibilità al fine di promuoverne l’accordo con la sensibilità. Ne risulta che l’azione è morale se dettata dal dovere, ma la sfera della sensibilità non è mai del tutto esclusa. Ciò che conta, secondo Schiller, non sono le singole azioni morali, ma la condotta morale nel suo complesso: "l’uomo infatti non è destinato a compiere singole azioni morali, ma ad essere un essere morale", mettendo d’accordo piacere e dovere, obbedendo con gioia ai dettami della ragione: si tratta cioè di fare del dovere un piacere (ma non viceversa). Nel dovere morale è allora racchiusa l’esigenza di un accordo tra ragione e sensibilità, poiché, in quanto costituito da entrambe le sfere, l’uomo non deve separarle, come pretendeva di fare Kant quando voleva estirpare dall’uomo la sua parte sensibile e animalesca: lo spunto schilleriano è qui fortemente anti-ascetico. Finchè per comportarmi moralmente devo obbligarmi con sforzo, il problema della moralità è rimosso ma non risolto, il nemico non è debellato: il nemico in questione è la sensibilità non in quanto tale, ma quella assolutizzata, stante al di sopra della ragione. La vittoria si ha quando la ragione eleva e trasforma la sensibilità, senza indurre diffidenza verso una parte di noi, ma aprendosi e alleandosi ad essa. Questa è veramente un’anima morale: "un uomo che non si fida, ma teme il proprio istinto, anziché abbandonarglisi, non è ancora un vero uomo morale". Schiller, polemizzando contro il rigorismo, attacca Kant ma anche il primo Fichte, in cui il rigorismo kantiano è addirittura potenziato: come e più di Kant, Fichte intende la subordinazione della sensibilità alla ragione nel senso che il fine della morale è l’unità dell’uomo, unità però concepita come risoluzione della sensibilità in razionalità. Per Schiller, la sensibilità dovrebbe diventare il braccio della ragione, evitandole di compiere ogni volta uno sforzo sovraumano che forse non è nemmeno il fine della moralità. Sicchè l’ideale schilleriano è un ideale morale che trascolora in un ideale estetico, in quanto mirante alla bella e armoniosa vita morale dell’uomo, all’anima bella e buona insieme, tale perché armonia delle due componenti umane. Ma si può essere morali senza tuttavia esser belli: è questo il caso in cui la moralità è raggiunta con lo sforzo, sicchè si avrà – dice Schiller – un’anima sublime. La bellezza è allora un di più, è uno sviluppo ulteriore della morale stessa che, coinvolgendo la sensibilità, potenzia se stessa diventando anche bellezza. In Grazia e dignità (1793) appare evidente come il rigorismo kantiano sia del tutto unilaterale, e ciò in base alla sua incapacità di render conto del fattore sensibile quale era stato trattato dalla mitologia greca: la favola greca attribuisce a Venere, la dea dell'amore, una cintura capace di conferire grazia a chi la indossi e di procurare l’amore; non è un caso che Venere venga raffigurata accompagnata dalle Grazie. Per Schiller, grazia è ciò che impressiona piacevolmente, ciò che innamora: e questo fenomeno, a cui allude la mitologia greca, è quella particolare forma di bellezza fisica che definiamo "grazia". E’ una bellezza mobile e contingente ed è perciò distinta dalla bellezza fissa, data necessariamente con l’individuo. Schiller distingue dunque tra una bellezza fissa e una mossa: la prima è prodotta dalle leggi plastiche della natura secondo necessità; la seconda è invece il prodotto dello spirito secondo libertà. Schiller chiama la bellezza fisica anche "architettonica" e la fa coincidere con la bellezza della figura, distribuita dalla natura e data fissamente una volta per tutte, non libera, ma necessitata. L’uomo, però, non è solo un essere determinato dalla natura: viceversa, è anche persona moralmente determinantesi secondo libertà e ciò significa che anche la fisicità è in parte sottratta al dominio delle leggi naturali e necessarie, ed è dunque piegata alla libertà. Di qui, appunto, deriva alla figura umana la possibilità – oltrechè di una bellezza fissa – di una bellezza dinamica, prodotta dalla libertà. Quella architettonica rende onore alla natura, mentre quella in movimento a chi la possiede, giacché è espressione fisica della sua libertà morale: la prima è un talento naturale, la seconda è un merito personale derivante dal manifestarsi nel mondo sensibile dello spirito come movimento: e qui Schiller allude alla gestualità e alla mimica facciale. Se il movimento è manifestazione dello spirito, allora tal bellezza spirituale sarà per forza in movimento, mentre la figura nella sua bellezza naturale resta stabilmente se stessa. Se la grazia, poi, è accidentale, sarà bellezza di movimenti accidentali e non necessari (quale invece può essere la respirazione), in quanto questi ultimi sono tutt’uno con la figura e perciò rientrano nella bellezza strutturale. Ma non tutti i movimenti accidentali sono graziosi: solamente quelli umani, giacchè le membra di un animale o i rami di un albero, anche quando si muovono accidentalmente, non sono graziosi; sicchè la grazia appartiene solo ai movimenti volontari, tali da essere solamente propri dell’uomo: di questo tipo sono i movimenti che esprimono la volontà. Solo questi possono essere graziosi: "movimenti i quali non abbiano altra fonte che il senso appartengono, malgrado ogni volontarietà, soltanto alla natura, che di per sé sola non si leva mai fino alla grazia; se la brama e l’istinto potessero manifestarsi con grazia, questa non sarebbe più in grado né degna di servire da espressione all’umanità". "Natura" è qui inteso da Schiller come tutto ciò che non è umanità e, dunque, razionalità: quei movimenti che all’uomo son suggeriti dalle passioni e dalle inclinazioni sensibili non sono graziosi, poiché – in quanto indotti da passioni – esprimono un bisogno e un desiderio, ovvero disagio e ansia, e dunque sono sempre scomposti e violenti. La grazia, allora, altro non è se non questa bella espressione dell’anima nei movimenti volontari, è il trapelare della moralità dei movimenti, cosicchè, dove c’è grazia, lì l’anima è il principio movente. Si tratta di una bellezza non data dalla natura, ma prodotta dal soggetto morale; ciò significa che essa è l’ulteriore bellezza che il soggetto morale aggiunge a quella naturale, incrementandola. Ne segue che la grazia ha il potere di render piacevoli e amabili anche i brutti: "anche il meno bello può muoversi bene, sopperire con la grazia alla sua scarsa avvenenza"; grazioso è allora chi è mosso da moralità libera (la ragion pratica kantiana), dalla volontà o, meglio ancora, dal carattere morale: perché il movimento risulti grazioso, non è sufficiente che manifesti la moralità, ossia che sia volontario; al contrario, deve anche essere spontaneo e, dunque, per certo verso involontario. I movimenti esclusivamente volontari, esprimenti singoli volizioni della ragion pura pratica – ovvero d’una volontà agonista contro le passioni – esprimono, sì, la moralità, ma anche la costrizione e lo sforzo in cui tale ragion pura pratica è impegnata. Ma sforzo e costrizione non sortiscono certamente movimenti graziosi: la volontà, infatti, si trova di volta in volta affaticata a resistere alle inclinazioni e ciò produce non grazia, ma dignità, frutto della lotta trionfante della ragion pratica contro le inclinazioni sensibili attraverso un’incredibile tensione morale. Ma la grazia, oltre ad essere il trasparire sensibile della moralità, è leggerezza e assenza di costrizioni: "la leggerezza è il carattere principale della grazia", la quale deve quindi essere spontanea e immediata. Graziosi saranno solo quei movimenti insieme volontari e involontari. Involontari sono quei movimenti meramente fisici prodotti nell’ambito sensibile dalle passioni: "se l’uomo soggiogato dal bisogno lascia dominare su di sé l’illimitato istinto naturale, con la sua indipendenza interiore scompare anche ogni traccia di grazia nella sua figura" e a trasparire nel sensibile è solo l’animalità, che è la sola a parlare "dall’occhio languente", "dalla voce soffocata e tremante", "da tutto il corpo rilassato": un uomo in questo stato ripugna al senso morale, ma anche a quello estetico; è un uomo senza grazia. Ci troviamo dinanzi a due forme alternative di rapporto nell’uomo tra razionalità e sensibilità: da un lato, l’uomo può soffocare le esigenze della sua natura sensibile per obbedire alla sua sfera razionale, sottraendosi ad uno sforzo morale che produce non grazia ma dignità; dall’altro, l’uomo può del tutto subordinare la razionalità alla sensibilità e, anziché la grazia, avremo il trionfo dell’animalità più sfrenata nell’uomo, ridotto a pura fiera. Ecco che allora la grazia deve inerire a movimenti volontari (frutto della moralità) e involontari (prodotti dalla spontaneità), per cui il motore della grazia è una razionalità che non è in contrasto, ma anzi in armonico equilibrio con la sensibilità. Nei movimenti volontari dettati dalla moralità vi è sempre anche una componente involontaria che determina il modo in cui si realizza il gesto volontario: la pura volontà decide il gesto, ma non il modo in cui esso avviene; il modo è infatti deciso non dalla singola volizione, ma dal carattere morale, dallo stato morale della persona che decide e compie il movimento. Ogni movimento volontario è accompagnato da una serie di movimenti simpatetici e concomitanti determinati anch’essi dallo stato morale e, per ciò, involontari perché non frutto di una puntuale decisione della volontà, ma necessariamente prodotti dal carattere morale in cui quella morale si è rappresa e che integrano il movimento deliberato: "mentre una persona parla, noi vediamo contemporaneamente i suoi sguardi, i suoi lineamenti, le sue mani, spesso tutto il corpo che parla insieme e non di rado la parte mimica della conversazione è giudicata la più eloquente". Dunque la mimica è quell’insieme di movimenti volontari e involontari in cui può essere ricercata la grazia: volontari perché generati dalla moralità, involontari perché originati dal carattere morale, essi sono i movimenti che accompagnano quella volontà e ad essa fanno da sfondo, sono come la risonanza esteriore e fisica dell’anima di cui sono la manifestazione e di cui rivelano il profilo morale. Tale è l’anima bella, perfetta conciliazione di razionalità e sensibilità, "armonia che è il suggello dell’umanità completa ed è quella che si intende per anima bella: si dice anima bella quando la moralità è riuscita ad assicurarsi tutti i voti dell’uomo, al punto da poter lasciare senza timore all’affetto e alle inclinazioni la guida della volontà"; la sensibilità è dunque guadagnata alla causa della moralità, sicchè "in un’anima bella non sono morali le singole azioni, ma tutto il carattere": agisce come se in essa agisse solamente l’istinto, compiendo "i più penosi doveri dell’umanità e il più eroico sacrificio". La sensibilità non è forzosamente, ma spontaneamente sottomessa alla legge morale, cosicchè non v’è traccia né della tirannide della ragion pratica né dell’anarchia della sensibilità. Di qui la leggerezza del suo agire, sempre morale ma con così tanta facilità da esserne quasi inconsapevole: e, proprio perché tale, l’anima bella si esprime con grazia, cosicchè "sensibilità e ragione, dovere e inclinazioni sono in armonia e la grazia è la sua espressione nel fenomeno". Scrive Schiller: "un’anima bella diffonde una grazia irresistibile anche sopra una figura che manca della bellezza architettonica e spesso la si vede trionfare perfino sui difetti di natura. Tutti i movimenti che da essa provengono saranno leggeri e dolci". Ma – sorge spontaneo chiedersi – la grazia può essere simulata? E Schiller propone – e subito liquida – tale eventualità: se per Baldesar Castiglione il "cortegiano" deve simularla al fine di risultar gradito al signore, ciò per Schiller è assolutamente impossibile, giacché la grazia è lo splendore sensibile della moralità (la quale evidentemente non può in alcun caso essere simulata). "Nessuna tensione si potrà notare nei lineamenti del volto, nessuna costrizione nei movimenti volontari: la voce sarà una musica e commuoverà il cuore col puro fluire delle sue modulazioni; la bellezza architettonica può suscitare compiacimento e stupore, ma solo la grazia affascina": solo i movimenti simpatetici prodotti dall’anima bella sono graziosi, poiché anche i suoi movimenti volontari non sono mai del tutto volontari, poiché prodotti non da una ragione sganciata dalla sensibilità, sicchè tutti i movimenti dell’anima bella sono volontari e involontari e, in virtù di ciò, graziosi, frutto di una spontaneità morale. Diversamente si atteggerà un’anima teatro della lotta tra la ragione eroica e le riottose passioni: "il dominio degli istinti ad opera della forza morale è libertà di spirito, e dignità si chiama la sua espressione nel fenomeno". Già qui si intravede come l’anima bella sia più un ideale – quasi un’idea nel senso kantiano – che non realtà, poiché la moralità è quasi sempre lotta tra passioni sensibili e ragione; all’origine della dignità vi è non l’anima bella, ma l’anima sublime, ovvero quella che si è elevata sulla sensibilità: la dignità si manifesta essenzialmente come compostezza nel dolore e nello sforzo, nell’impedire che ad esprimersi nei movimenti siano unicamente gli istinti. L’esempio che in merito Schiller adduce è la statua di Laoconte che, pur avviluppato e strozzato dai serpenti, mantiene una pacata tranquillità, senza scomporsi e senza emettere urla (Schopenhauer nota come in realtà non urli semplicemente perché è impossibile riprodurre le urla in una statua). La dignità, poi, può estrinsecarsi anche in caso di gioia eccessiva, quando interviene la ragione a sedare la scompostezza: nella dignità, lo spirito si comporta da padrone nel corpo, affermando la propria autonomia di contro all’imperioso istinto che vorrebbe sottrarsi al suo giogo. Nella concretezza della nostra esistenza, l’ideale sarebbe la dignità tradottasi in grazia, nota Schiller: dunque l’anima bella sta al di là dell’anima sublime, sta cioè oltre quel sublime che ha superato e risolto in sé. E in questo modo, Schiller sta in qualche modo anti