KAREL KOSÍK

 

A cura di Linda Cesana

 

 

Karel Kosík nasce a Praga nel 1926. Da giovane s’iscrive al partito comunista ceco partecipando alla resistenza durante l’occupazione nazista e, avviatosi agli studi di filosofia e di sociologia presso l’Università San Carlo di Praga, si addottora nel 1950, due anni dopo che un colpo di Stato ha portato al potere il partito comunista ceco. Nel 1956, accusato di tendenze hegeliane a seguito di un articolo su Hegel, viene allontanato dall’Accademia delle scienze di Praga, dove lavora, e punito con un anno di lavoro in fabbrica. Sotto un regime comunista in cui si propaganda la classe operaia al potere è emblematico il fatto che la massima punizione per i dissidenti sia il lavoro in fabbrica. Tornato nel 1963 a lavorare all’Accademia delle scienze, pubblica l’opera Dialettica del concreto, il suo lavoro filosofico più conosciuto. In quest’opera il filosofo, facendo guadagnare al pensiero un’istanza veritativa, spezza il granitico mondo del capitalismo occidentale e dello stalinismo burocratico, portando alla luce la realtà umana come prassi oggettivante e oggettivata. L'immagine dell'uomo che offre (l'uomo come singolo e l'uomo inteso come genere umano) è sorprendente se si considera la data dell’opera nella Praga del governo di Novotý in cui l’uomo è ridotto dal sistema a soggettività eterodiretta. Nel 1968 scrive diversi articoli sulla Primavera di Praga che, sotto il nuovo Presidente Dubček, sembra traghettare la Cecoslovacchia in un “socialismo dal volto umano”, e di cui è uno dei protagonisti. Rispetto agli scritti degli anni venti in questi articoli emerge il congedo dall’idea di un semplice rinnovamento del socialismo esistente e la comprensione del movimento riformatore della Primavera di Praga come tentativo di superare l’alternativa tra i due blocchi, occidentale e orientale, uniti dallo stesso sistema di manipolazione. La fine dell’esperienza della Primavera di Praga a seguito dell’invasione sovietica segna la smentita di questo tentativo. Dopo l’invasione sovietica Kosík viene allontanato dall’insegnamento e indotto al silenzio, controllato dalla polizia. Nella convinzione che il pensiero non può riposare, il filosofo riflette su una alternativa al sistema di manipolabilità del capitalismo e del socialismo burocratico. Nel 1975 l’appartamento di Kosík è perquisito dalla polizia che gli sequestra un manoscritto di mille pagine, che avrebbe dovuto costituire un’opera filosofica. Kosík scrive dunque una lettera aperta a Sartre, per sollevare uno scandalo internazionale e su cui si legge “Sono morto eppur vivo”. Dopo un anno la polizia restituirà al filosofo il manoscritto. Nel 1989 diviene presidente della Repubblica Havel che pone fine alla fase di “normalizzazione”. Kosík ritorna quindi ad insegnare presso l’università San Carlo per essere nuovamente allontanato a seguito del varo della legge “lustrace” che interdice dal pubblico impiego chi si è compromesso in passato con il partito comunista. Il cambio politico infrange ancora la speranza di un cambiamento democratico riconoscendo come unica istanza quella del mercato. Pur avendo la possibilità di insegnare all’estero Kosík preferisce restare a Praga, legato alla Cecoslovacchia da un profondo vincolo, scrivendo articoli sul passato e sul presente storico, come quelli in cui denuncia la guerra in Serbia del 1999. Muore a Praga nel febbraio del 2003.

Kosík è rimasto fino alla morte filosofo marxista, non ha mai abbandonato la prospettiva anticapitalistica, diversamente da molti suoi colleghi che si sono presto riciclati nel liberalismo “vincente” dopo il crollo dell’Urss nel 1991, e nello stesso tempo ha individuato le falle dello statalismo burocratico in quel sistema di manipolabilità generalizzata, di eterodirezione degli uomini, di svuotamento del senso della vita quotidiana degli uomini, che non ne hanno più fatto una reale alternativa al sistema capitalistico (caratterizzato parimenti da una manipolabilità e da una alienazione che svuotano di un contenuto autentico la vita delle persone). Lo sguardo di Kosík sulla realtà presente, quando le aspettative si infrangono e il corso degli eventi apre alla disillusione (come la “normalizzazione” dopo la “Primavera di Praga”) non ha fatto venire mai meno in lui la lucidità, al di là di un semplice ottimismo che prospetta il socialismo come meta vicina e al di là del pessimismo che chiude i conti con il socialismo riconciliando con il tempo presente capitalistico, di non abbandonare la tendenza di fondo al socialismo come appropriazione della genericità dell’uomo nella dialettica con la ricchezza dell’individuo[1].

In Dialettica del concreto è tematizzato il mondo della pseudoconcretezza, intendendo con ciò, il mondo degli oggetti e delle rappresentazioni di essi, vissuto dagli uomini come indipendente dalla prassi umana. Iscrivendosi nella tradizione filosofica occidentale per cui la realtà è unione di realtà autentica e apparenza, il filosofo ammette la quotidianità dell’apparenza e del senso comune come orizzonte ineliminabile della vita degli uomini in cui le loro azioni si automatizzano per rendere possibile la vita. Gli uomini vivono nella sfera dell’apparenza, dell’opinione, della quotidianità come se fosse il loro ambiente naturale. E' da qui che si apre la realtà autentica in cui l'uomo si riscopre soggetto attivo (soggetto autentico) rispetto all’oggetto colto inizialmente nel suo autonomo apparire e non nella sua essenza di prodotto umano. La pseudoconcretezza sorge quando la sfera dell’apparenza si cristallizza e i fenomeni vengono scambiati per realtà autentica, distaccati dalla prassi umana, cadendo nella feticizzazione.  Essa è dunque il mondo della quotidianità alienata e della prassi alienata in cui il lato umano e quello oggettivo non stanno in un rapporto reciproco. Questo mondo diventa l’espressione della società capitalistica e del socialismo burocratico che riducono il mondo a oggetti autonomi da manipolare. Lo stesso uomo nella pseudo concretezza si riduce a “uomo della cura” e a “uomo economico”. Il primo utilizza gli oggetti per perseguire scopi soggettivi mentre il secondo è un atomo individualisticamente proteso alla ricerca dei propri interessi. È il recupero della definizione marxiana di uomo come “ente naturale generico” che permette a Kosík di ammette l’uomo come genericità, potenzialità mediante la prassi sociale e storica produttrice di oggetti e di spazi sociali nuovi. La natura umana esiste ed è prassi, e in ciò sta la sua diversità rispetto agli animali. La prassi, come per gli idealisti tedeschi, è inserita in un percorso storico che è caratterizzato da una umanizzazione dell’uomo e del mondo, dall’idea di una emancipazione nella storia sulla base dell’autocoscienza storica. L’uomo quindi è un soggetto pratico che agisce creando la realtà umana e sociale attraverso la storia, è un prodotto storico, di una storia da lui creata, ma nello stesso tempo non si riduce alle condizioni contingenti, effettuali. Egli è possibilità ontologica di trascendere le condizioni sociali date, essendo portatore di prassi rivoluzionaria. Nell’opera di trasformazione del mondo sociale, l’uomo costituisce anche se stesso come uomo. È nel corso della realizzazione di sé che l’uomo si può alienare, ossia può decadere a livello degli oggetti dimenticando la sua caratterizzazione ontologica, la prassi come creazione della realtà umano-sociale. La concretezza dunque è data dalla totalità concreta in divenire dialettico attraverso il rapporto tra soggetto e oggetto  umanità e realtà umano-sociale) mentre la pseudoconcretezza è data dal venire meno di questo rapporto attraverso la feticizzazione degli oggetti e la riduzione della prassi degli uomini a mero utilizzo e manipolazione degli oggetti stessi.

È la filosofia, tenuta distinta dall’ideologia (visione antropomorfizzante inevitabile che non può cogliere le connessioni strutturali e l’essenza delle cose) che, giudicata “attività umana indispensabile” avente come oggetto la verità, l’universale, può distruggere la pseudoconcretezza. Essa ha per oggetto, infatti, la verità intesa come rapporto di soggetto e oggetto, per come si crea nel divenire storico (non storicistico) mediante la prassi sociale degli uomini. Per cogliere la verità la filosofia deve distruggere la pseudoconcretezza. La tematizzazione filosofica della categoria di prassi come attività conoscitiva di distruzione della pseudoconcretezza pone le basi per una prassi rivoluzionaria di superamento della pseudoconcretezza stessa. La dialettica come pensiero che smuove le feticizzazioni della pseudo concretezza e la dialettica come prassi rivoluzionaria sono dunque il superamento di una condizione di alienazione per una emancipazione che riconsegni all’uomo le potenzialità di ente naturale generico. L’ontologia dell’uomo di Kosík permette quindi di pensare il superamento della condizione di alienazione dell’orizzonte capitalistico per la creazione di uno spazio sociale emancipato che trova nella storia autentica un termine di riferimento normativo.



[1] L. Cesana, C. Preve, Filosofia della verità e della giustizia. Il pensiero di Karel Kosík, Editrice Petite Plaisance 2012.



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