ALEXANDRE KOYRÉ

 

A cura di D. Romano

 


"Il pensiero umano, anche quello dei massimi geni, non è mai tanto logico e conseguente. Non dobbiamo stupirci, perciò che Copernico, credendo nell’esistenza di sfere planetarie materiali, di cui abbisognava per spiegare il moto dei pianeti, credesse anche a quella della sfera delle stelle fisse, di cui non aveva più bisogno […] Bisogna ammettere l’evidenza. Il mondo di Copernico è finito. Fra l’altro sembra psicologicamente del tutto normale che chi superò il primo gradino, arrestando il moto delle stelle fisse, esitasse poi a salire il secondo, dissolvendola in uno spazio senza confini; era sufficiente, per un uomo solo, muovere la Terra ed ampliare il mondo fino a renderlo non misurabile: immensum; chiedergli di renderlo infinito è ovviamente troppo. […] La bolla del mondo deve gonfiarsi prima di scoppiare".


 

VITA E OPERE

KoyréAlexandre Koyré (1892 - 1964), nato a Taganrog (in Russia) da una famiglia russa di origini ebraiche, uditore a Gottinga dei corsi di Husserl e Hilbert, vicino ai primi circoli fenomenologici, e poi all'epistemologia storica di Emile Meyerson e Léon Brunschvicg, è uno dei maestri riconosciuti della storia filosofica delle scienze francese. Insegnò all'Ecole Pratique des Hautes Etudes a Parigi e durante la seconda guerra mondiale emigrò negli Stati Uniti, proseguendo nell'esperienza di insegnamento presso la New School for Social Research di New York. Fino alla sua scomparsa avvenuta nel 1964 si divise tra l'insegnamento parigino e la ricerca a Princeton. Tra i suoi lavori, Dal mondo chiuso all'universo infinito (Du Monde Clos à l'universe infini), Studi galileiani e La rivoluzione astronomica, e Studi newtoniani. Sotto l'influsso della fenomenologia di Edmund Husserl, Koyré si dedicò alla storia della filosofia e del pensiero religioso medievale, spostando poi i suoi interessi verso l'astronomia, la fisica, la matematica. Rinnovò gli studi di storia della scienza proponendo una visione ricca e complessa del percorso scientifico, inteso quale scontro dialettico tra concezioni globali del mondo e concetti scientifici specifici. Tale idea richiede una storia delle scienze ricca e articolata, che giunge a trovare ampie zone di contatto da un lato con la storia della filosofia, dall'altro con la storia della religione (ma non con quella della tecnica). Nelle sue Lezioni su Cartesio, Koyré  esamina il pensiero di Descartes, inteso come antesignano del concetto moderno di scienza. Lo scritto analizza la portata del filosofo francese attraverso tre lezioni: "Il mondo incerto", "Il cosmo scomparso" e "L'universo ritrovato"; esse ripropongono una riflessione acuta e puntuale, una analisi scientifica che mantiene intatta tutta la verve propria del parlato. Il tributo di conoscenza che secondo Koyré dobbiamo alle analisi cartesiane è enorme; da tre secoli infatti “tutto il pensiero filosofico europeo è orientato e determinato, direttamente o indirettamente, da quello del grande scienziato”. Così, anche se per noi può essere difficile comprendere pienamente la portata dell'opera cartesiana, si tratta senza ombra di dubbio di “una delle più profonde rivoluzioni intellettuali e spirituali che l'umanità abbia conosciuto, vittoria decisiva sull'aspro percorso che conduce l'uomo a quel tipo di libertà che è al contempo liberazione emotiva, razionale e perseguimento della verità”. Koyré ci accompagna in questo viaggio alla ricerca di una chiarezza d'analisi che possa permetterci una comprensione più ricca dell'innovazione che ne è alla base. Le Lezioni su Cartesio ci restituiscono dunque dell'autore, convinto assertore della necessità dell'interazione tra cultura filosofica, matematica e storica, quell'immagine di convincente e accattivante oratore che è stata una delle sue caratteristiche peculiari.

 

DAL MONDO CHIUSO ALL’UNIVERSO INFINITO

IL PROBLEMA DELL’INFINITO

Il concetto di infinito è collegato alle più profonde domande filosofiche dell’uomo e presenta, inestricabilmente intrecciati, aspetti matematici e metafisici, fisici ed etici, astronomici e teologici. È inevitabile, pertanto che il rinnovamento anche di un solo lato del concetto (per esempio quello matematico) costringa a una revisione complessiva dell’intero sapere scientifico, filosofico e religioso. È quello che avviene, appunto, con la moderna rivoluzione copernicana, che porta a rinnovare profondamente non solo la disciplina astronomica ma l’intera immagine della realtà.

Il nome di Copernico è, in verità, più che altro un simbolo. Se Copernico ebbe, infatti, il merito di rimettere in discussione una modello astronomico venerando, sostenuto non solo da una tradizione scientifico-filosofica e religiosa millenaria ma anche dal senso comune, egli rimase, tuttavia, ancora legato all’idea di un universo finito. Per questo aspetto decisivo, pertanto, lo stesso rivoluzionario astronomo risulta ancora un "conservatore". A Copernico, tuttavia, durante il secondo Cinquecento, si rifece il filosofo Giordano Bruno (1548-1600), vedendo in lui l’"aurora, che doveva precedere l’uscita di questo sole de l’antiqua vera filosofia". Bruno, rifacendosi anche alla filosofia di Cusano (1401-1464), sviluppò per la prima volta, a partire dalla teoria copernicana, la nuova dottrina di un universo decentrato, infinito e infinitamente popolato, dottrina che sarà destinata a influenzare profondamente non solo l’immagine del cosmo ma anche quella dell’uomo e del suo destino.

1.     L’infinito nella filosofia antica e medievale

Il pensiero greco assume il concetto di "infinito" prevalentemente in un senso negativo, come sinonimo di "indefinito", "incompiuto", "illimitato", "informe" e lo contrappone alla positività dell’essere finito, determinato e perfettamente compiuto.

È questa la concezione che troviamo prima in Parmenide, che paragona l’essere necessario alla totalità finita e compiuta della "massa di una ben rotonda sfera", e, successivamente, in Platone e soprattutto in Aristotele. Platone vede nel finito e nell’infinito due componenti di tutte le cose e, nel Filebo, li distingue l’uno dall’altro osservando che "in certo modo l’infinito è molteplice" in quanto esso è ciò che è privo di misura e di limite, è "senza fine" e, perciò, indeterminato.

Come tale, l’infinito è ciò che appare sempre suscettibile di un "più" e di un "meno", di un accrescimento o di una diminuzione illimitata e si contrappone radicalmente alla precisa determinatezza del finito, che è il solo possibile oggetto di conoscenza vera.

Aristotele nega che l’infinito possa mai esistere come una sostanza o un attributo di essa, come una realtà in atto, e gli riconosce solo un’esistenza potenziale. L’infinito, infatti, è ciò che può venire sia diviso sia accresciuto illimitatamente, ossia ciò la cui divisione o composizione risulta inesauribile e interminabile. In questo senso, per esempio, è infinita una linea poiché la sua divisione non può mai raggiungere un termine, dato che ogni segmento, per quanto piccolo esso sia, risulta ancor sempre divisibile. Di conseguenza, l’infinito non è un ente reale, in atto, ma solo un processo potenzialmente inesauribile perché lascia sempre qualcosa fuori di sé: è una "parte" che non arriva mai a essere un "tutto" compiuto.

L’infinito è, dunque, ciò che non ha una fine raggiungibile, ciò che non è determinato, e come tale non ha un’esistenza ontologicamente attuale e positiva. Ciò che, dal punto di vista metafisico, è più vicino all’infinito potenziale della matematica è, pertanto, la materia potenziale che, essendo l’opposto della determinatezza formale, risulta quasi un "non-essere" e, comunque, resta qualcosa di inconoscibile.

Rispetto a questa concezione classica il pensiero tardo-antico conosce una svolta fondamentale, sia attraverso il neoplatonismo sia attraverso il cristianesimo. Già Plotino distingue chiaramente dall’infinito potenziale della matematica, inteso come "inesauribilità" del numero, l’infinito metafisico, inteso come "illimitatezza della potenza" dell’Uno, ossia come l’assenza di limitazione del principio produttivo. Su questa scia, il pensiero cristiano assume il termine in un senso totalmente positivo per indicare la pienezza della divina perfezione.

Tommaso d’Aquino distingue la infinità negativa della materia, e cioè la sua incompiutezza e indeterminatezza ove si prescinda dalla forma, dalla positiva infinità divina che indica la perfetta autosufficienza del creatore rispetto alla realtà finita creata. L’infinito si presenta in tal modo come l’ens perfectissimum, oggetto della teologia.

2.     Tolomeo e Aristarco

Che l’universo debba essere di dimensioni finite e avere un centro, non è l’unica teoria cosmologica elaborata dai Greci. È però la concezione vincente. Questa idea poggia su osservazioni empiriche, ma anche su principi filosofici altrimenti fondati. Ad esempio, si basa sul fatto che – per quanto l’uomo può osservare – il Sole, la Luna e le stelle ruotano intorno alla Terra, mentre non è immediatamente percepibile dall’uomo alcun segno della rotazione terrestre (dunque: la Terra è ferma e i cieli le ruotano intorno con movimento costante). Inoltre la perfezione divina dei cieli impone un movimento perfetto e matematicamente definito, come è quello circolare, ed impone allo stesso tempo che il cosmo sia una realtà finita, in sé conclusa. Infatti per la mentalità greca solo il finito – ciò che è compiuto in tutte le sue parti – può essere perfetto. L’infinito è l’indeterminato, ciò che non giunge mai a compimento. L’universo non può che essere perfetto, perché dominato da forze divine, dunque non può essere infinito, aperto, senza limiti.

Che vi sia un centro dell’universo è, d’altra parte, concezione strettamente connessa con la sua finitezza. Si supponga infatti che l’universo fisico sia infinito. È ancora possibile parlare di un centro? Evidentemente no, ed è questa la concezioni di quanti – come Epicuro, ripreso da Lucrezio nel De rerum natura, pensano che la materia che compone l’universo sia infinita e così lo spazio che la contiene.

Quest’ultima concezione non potrà affermarsi, e il dibattito sull’infinito si aprirà nuovamente solo in età moderna, da Cusano e Bruno in poi. Nel mondo greco, prevalsa la tesi della finitezza del cosmo, si confrontano due teorie, l’una che vuole che al centro dell’universo fisico vi sia la Terra (teoria geocentrica), l’altra che vuole vi sia il Sole (teoria eliocentrica).

a.     Tolomeo e la teoria geocentrica

Già a partire dall’età classica prevale nettamente la teoria geocentrica, definita poi matematicamente nei dettagli da Tolomeo in un libro – tramandatoci con il titolo di origine araba Almagesto – che è una delle grandi conquiste del pensiero scientifico antico, nonostante il fatto che la teoria in sé sia errata.

Tolomeo è un astronomo vissuto nel periodo dell’ultima fioritura della scienza alessandrina. Non si hanno dati certi sulla sua vita, se non il fatto che nel suo libro compaiono le date delle osservazioni astronomiche da lui compiute, comprese tra il 127 e il 151 d.C.

Tolomeo, venendo al termine del lungo processo di elaborazione filosofica e scientifica dell’antichità, non è certo l’inventore della teoria geocentrica. Egli però raccoglie un’enorme massa di informazioni astronomiche da tutta l’antichità, la arricchisce con nuove osservazioni e interpreta tutto questo materiale alla luce di complesse strutture matematiche, destinate a rendere ragione, in un quadro ordinato e non contraddittorio, di tutte le osservazioni. Si tratta infatti per lui, come sarà per gli astronomi moderni, di elaborare una teoria, matematicamente definita, che sia in grado di salvare i fenomeni, come si dirà nel Seicento, cioè di essere sempre in accordo con i dati desunti dalle osservazioni.

Va qui ricordato che Tolomeo, come poi faranno gli studiosi del Rinascimento, nel suo studio della struttura del cosmo contempla anche la ricerca della corrispondenza tra il moto dei cieli e quanto accade sulla Terra: gli astri, infatti, si supponeva fossero in grado di influenzare anche la vita e il carattere dell’uomo e fosse dunque importante scrutare i cieli per comprendere l’uomo. Astronomia e astrologia ancora per molti secoli saranno strettamente connesse.

b.     Aristarco e la teoria eliocentrica

La prima definizione della teoria eliocentrica risale agli ambienti del Liceo. Aristotele non ne è per nulla responsabile, avendo sostenuto una visione del cosmo fondata sul postulato della immobilità della Terra al centro dell’universo. Ma alla sua scuola, attenta alle ricerche di tipo naturalistico, proprio in conseguenza di queste ricerche poterono svilupparsi, dopo la sua morte, teorie nuove.

Già Eraclide Pontico (vissuto circa tra il 390 e il 310 a.C.), un ricercatore della cerchia dell’Accademia platonica, aveva sostenuto che Mercurio e Venere ruotano intorno al Sole, ma non si era spinto più avanti. Aristarco di Samo, vissuto nel III sec. a.C. e appartenente alla scuola peripatetica, è il primo scienziato a formulare compiutamente la teoria eliocentrica, prima di Copernico. Questa dottrina si scontrava contro difficoltà di diversa natura, non ultima la sua grande originalità e la sua distanza dal senso comune (il Sole appare effettivamente ruotare intorno alla Terra, di cui non percepiamo invece alcun movimento). Inoltre l’eliocentrismo di Aristarco non era fondato su un’elaborazione matematica compiuta. Questa teoria, dunque, finiva col salvare i fenomeni meno del geocentrismo. Di fatto non ebbe seguito nel mondo antico.

1.     La teoria eliocentrica di Copernico

La teoria eliocentrica di Niccolò Copernico, nome italianizzato dell’astronomo polacco Nikolaj Kopernik (1473-1543), venne presentata dal suo autore nel celebre saggio De revolutionibus orbium coelestium (1543) come un’elaborazione matematica, uno studio puramente teorico.

Alla data di pubblicazione del suo saggio, Copernico era ormai un uomo anziano (sarebbe morto di lì a poco), con grande esperienza. Sapeva bene quali problemi avrebbe suscitato la sua tesi. Ne aveva avuto sentore diversi anni prima, quando una sua breve memoria nella quale era descritto in sintesi il modello eliocentrico aveva incontrato sfavorevole accoglienza presso gli ambienti protestanti. Spostare la Terra dal centro dell’universo e porre il Sole al suo posto si accordava male con la lettera del testo sacro e sembrava un attacco all’autorità della Bibbia. Non lo era, ma lo sembrava, e comunque la circolazione di queste idee avrebbe inevitabilmente avuto l’effetto di rimettere in discussione la "verità" delle Scritture.

Copernico scrive dunque che la sua teoria nasce dalle difficoltà incontrare dai matematici e che a questo ambito deve essere ristretta.

La discussione, strettamente riservata ai matematici e agli astronomi, verte quindi esclusivamente sul migliore sistema matematico per salvare i fenomeni.

Questo era infatti il punto. Copernico aveva studiato per un decennio presso diverse università italiane (Bologna, Padova, Ferrara), che erano i più avanzati centri di ricerca scientifica del tempo. Era dunque molto bene a conoscenza dei problemi di calcolo cui andava incontro il sistema tolemaico di fronte alle osservazioni raccolte in età moderna con la massima precisione possibile.

Una delle ragioni per cui la teoria geocentrica aveva nettamente avuto la vittoria per oltre un millennio era il fatto che Tolomeo era riuscito ad elaborare un modello matematico capace di salvare i fenomeni in modo migliore di quanto non fosse stato fatto per il sistema eliocentrico dai suoi sostenitori. Il modello tolemaico permetteva di prevedere il movimento apparente (cioè il movimento osservato dal punto di vista di un osservatore sulla Terra) dei corpi celesti con maggiore precisione. Osservazioni recenti però hanno messo in luce dei difetti del modello tolemaico. Si trattava di correggerlo nei dettagli oppure di abbandonarlo in favore di un sistema completamente diverso.

Copernico opta per questa seconda soluzione. Non lo fa, però, perché questo gli consente di salvare i fenomeni in maniera migliore. Il modello eliocentrico si dimostra, in realtà, impreciso come l’altro. Le ragioni che glielo fanno preferire sono di natura diversa.

SEMPLICITÀ E LOGICITÀ DELL’ORDINAMENTO DIVINO DEL COSMO

Copernico è fermamente convinto che l’universo abbia un ordine rigoroso e risponda perfettamente al piano semplice e logico con cui Dio governa ogni cosa in natura.

Tutto in natura, infatti, è semplice, nel senso che nelle leggi di natura non vi sono mai complicazioni che non abbiano un preciso scopo. Non c’è nessun organismo ridondante nella struttura del corpo umano e ogni parte risponde ad un preciso scopo. Non ci sono movimenti superflui nell’universo, ma tutto è coordinato con essenzialità per concorrere alla perfezione del cosmo. Le leggi che spiegano il movimento complessivo dei corpi celesti devono dunque essere le più semplici che sia possibile ipotizzare.

Che l’universo, poi, sia regolato in modo logico, secondo un rigoroso logos, è tesi che a Copernico giunge dalla lunga tradizione del pensiero greco. La mente dell’uomo e la realtà cosmica stanno l’una davanti all’altra rispecchiandosi in modo perfetto, almeno in linea di principio. Sono realtà omogenee: mente e universo fanno parte dell’unica realtà del creato, pensiero e materia si corrispondono. Ordo et connexio rerum est idem ac ordo et connexio idearum. Che poi l’uomo non sia ancora giunto alla perfetta definizione delle leggi che governano la materia, ebbene questo dipende solo dall’incompletezza della ricerca e dalla sua difficoltà, non certo dall’incapacità della mente o dal fatto che l’universo sia strutturato in modo non logico, cioè differente dai principi logici che governano la mente.

Se applichiamo queste riflessioni sulla semplicità e logicità dell’universo all’analisi del problema cosmologico, il modello tolemaico risulta perdente. Come è possibile, infatti, che l’immensa macchina del mondo sia in costante rivoluzione intorno a quel minuscolo punto (su scala cosmica) che è il pianete Terra? Non è assai più agevole pensare che occupi la posizione centrale il Sole, che è il corpo più grande?

LA PERFEZIONE DEL SOLE

Su Copernico hanno poi peso decisivo considerazioni di natura filosofica, che derivano dalla tradizione pitagorica.

Che il Sole debba occupare il posto centrale è convinzione che nasce dalla considerazione dell’eccellenza del Sole. Il centro è per Copernico – al contrario che per la tradizione medievale – la posizione eccellente dell’universo, ed essa è propria del corpo dal quale tutti gli astri dipendono. E non è forse dal Sole che dipende tutto l’universo per la luce, per il calore e, in ultima istanza, per la vita stessa?

"Il mondo di Copernico non è affatto privo di caratteristiche gerarchiche: infatti, se afferma che non sono i cieli a muoversi, bensì la Terra, non è soltanto perché gli sembra irrazionale far muovere un corpo enormemente grande, invece di uno relativamente piccolo, "ciò che contiene e situa e non ciò che è contenuto e situato", ma anche perché "lo stato di quiete è considerato più nobile e divino del mutamento e dell’instabilità; la quale ultima conviene perciò alla Terra più che all’universo". Ed è in ragione della sua suprema perfezione ed importanza – fonte di luce e di vita – che il posto da essa occupato nel mondo viene assegnato al Sole: posto centrale che, seguendo la tradizione pitagorica e rovesciando così completamente la scala di valori aristotelica e medioevale, Copernico considera il migliore e il più importante" (A. Koyré).

2.     Copernico e il problema dell’infinito

La concezione astronomica copernicana è una vera rivoluzione del pensiero, non soltanto una diversa ipotesi sul moto dei corpi celesti. Oggi è difficile rendersi conto di questo, ma si deve ricordare che l’universo era concepito dai medievali, sulla scorta di un’antichissima tradizione, che precede di secoli l’affermarsi del Cristianesimo, come un insieme gerarchico: la Terra occupa il posto inferiore perché è sede della materia corruttibile e dell’instabilità dovuta al mutamento; i cieli occupano invece il posto più elevato perché dotati di movimenti costanti e composti di materia incorruttibile. I cieli erano concepiti come sedi degli dèi dagli antichi, come intelligenze angeliche dai cristiani, e in essi il Medioevo ha visto la sede per eccellenza di Dio. La posizione centrale occupata dalla Terra assume per i medievali una valenza negativa proprio in ragione della sua lontananza da Dio. Dante, ad esempio, concepisce l’inferno – secondo una concezione corrente del suo tempo – nel cuore della Terra, e colloca il principe dei demoni nel perfetto centro della Terra perché questo è, in tutto l’universo, il luogo più lontano da Dio.

Lo spostamento del centro dell’universo dalla Terra al Sole compiuto da Copernico implica la dissoluzione di questo modello. La Terra, infatti, diventa essa stessa un corpo celeste, al pari degli altri, dotata degli stessi movimenti costanti. La materia terrestre e quella celeste di mostrano della stessa natura ed ogni gerarchia degli esseri è destinata ad essere sovvertita. Continua però ad esservi una gerarchia degli esseri.

IL MONDO CHIUSO

In Copernico, non c’è la concezione dell’infinità del cosmo, nemmeno nella forma negativa di Cusano, che parla di universo indefinito. L’universo Copernicano è immenso, smisurato, enormemente più ampio, secondo i suoi calcoli, dell’universo tolemaico. Ma è finito.

Copernico pone esplicitamente questo problema. Concepisce la possibilità di un’estensione spaziale indefinita oltre il confine del cosmo, oltre il cielo delle stelle fisse, ma preferisce rimanere nei limiti delle possibilità offertegli dalle osservazioni. I dati che un astronomo può raccogliere parlano di un universo visibile, e in quanto tale collocato a una distanza finita (potremmo forse vedere la luce di una stella, se essa fosse a una distanza infinita da noi?).

Copernico non abbandona la teoria delle sfere celesti, né pone in crisi, come faranno i suoi successori, la concezione che la sfera delle cosiddette stelle fisse, cioè la volta celeste, sia il "tetto del mondo" (ma non ha più bisogno di concepire questa sfera in movimento, poiché è la Terra a muoversi). Non immagine che una simile volta sia solo un effetto ottico e che in realtà il suo spessore sia immensamente ampio, tanto da configurare un universo aperto e non chiuso.

L’universo copernicano è ancora chiuso: un’immensa sfera al cui centro è il Sole, perfezione del cosmo. Tuttavia l’universo copernicano è smisuratamente grande rispetto a quello tolemaico: il diametro è duemila volte maggiore.

 


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