LA QUESTIONE CONTADINA

Nel I libro del Capitale (cap. XXIV, 7) Marx contrappone il capitalismo alla “proprietà privata basata sul proprio lavoro”, in quanto il capitalismo è proprietà privata basata sul lavoro altrui, ed afferma che il socialismo dovrà essere proprietà sociale basata consapevolmente sul lavoro collettivo dei lavoratori-proprietari.

In realtà la proprietà privata basata sul lavoro personale non è mai esistita nelle società divise in classi, se non in termini alquanto ridotti. Là dove era “privata” non era certo “libera” (se non per i proprietari), là dove era “libera” era spesso basata sul lavoro altrui.

La “piccola azienda” di cui parla Marx, quella di tipo familiare o patriarcale, era “libera”, nel mondo romano o feudale, solo per ristrette categorie sociali.

Il capitalismo non si è opposto solo a questa forma di proprietà, ma anche e soprattutto a quella privata basata sullo sfruttamento del lavoro altrui. Esso cioè è passato da uno sfruttamento all'altro, e ha potuto farlo promettendo la libertà a tutti gli sfruttati.

Una proprietà privata libera, che riguardasse la grande maggioranza dei lavoratori, non è mai stata individuale, se si esaminano le formazioni sociali primitive, pre-schiavistiche, ma è sempre stata sociale. La libertà è veramente reale sono nell'uguaglianza sociale, cioè in un regime di comunismo dei beni.

Marx nel Capitale ha considerato astrattamente la proprietà privata libera e individuale, e l'ha giudicata negativamente, appunto perché spontanea e individuale. Una proprietà senza cooperazione, senza concentrazione dei mezzi produttivi, senza divisione del lavoro, senza capacità di dominare la natura, regolandone il rapporto con la società, con una minuta ripartizione della terra e dei mezzi produttivi, non poteva che essere superata dal capitalismo -dice Marx.

Egli qui non si rende conto che una tale proprietà, se mai è esistita, era già stata superata -come forma generale di produzione- dalla proprietà fondiaria della società schiavista e feudale; anzi, la sua stessa esistenza dipendeva da quelle società divise in classi, era un prodotto della proprietà privata usata per sfruttare lavoro altrui.

Marx non ha mai voluto sottoporre a critica l'industrializzazione in sé, il macchinismo in sé, cioè a prescindere dalle esigenze del profitto capitalistico. Il Capitale vuole essere una critica dell'economia politica borghese che considera il capitalismo come una formazione sociale sovrastorica, non vuole essere una critica delle motivazioni sociali che hanno permesso lo sviluppo industriale.

Marx ha sempre dichiarato di accettare le forme della società capitalistica, rifiutandone soltanto l'aspetto pratico-oggettivo, cioè l'organizzazione spontaneistica e lo sfruttamento dei lavoratori. Oggi invece ci chiediamo se davvero l'industrializzazione debba prevalere in maniera così esorbitante sull'agricoltura e sull'artigianato, e se sia più giusto puntare sulla grande industrializzazione e non invece su quella media e piccola.

Se Marx avesse avuto come esempio precapitalistico una formazione sociale non individualistica ma collettivistica, come ad es. l'obscina, avrebbe ugualmente considerato come inevitabile la transizione dal feudalesimo al capitalismo?

Ma anche supposta l'esistenza storica della proprietà privata libera e individuale, Marx era forse in diritto di considerarla come una “mediocrità” destinata ad essere superata dal capitalismo?

Marx naturalmente non poteva allora rendersi conto che l'industrializzazione aliena di per sé l'uomo, in quanto lo allontana da un rapporto equilibrato con la natura, da un rapporto naturale con l'ambiente... Egli non poteva ancora sapere che l'aumento delle forze produttive causato dall'industrializzazione provoca delle contraddizioni dovute non soltanto al capitalismo, ma allo stesso macchinismo, che ha un impatto sulla natura quanto mai deleterio.

Marx tuttavia poteva evitare il pregiudizio nei confronti della società contadina. In tal modo non solo avrebbe creduto possibile l'alleanza operaio-contadina contro il capitalismo, ma avrebbe evitato di considerare come “automatica” la formazione, nella classe operaia, della coscienza rivoluzionaria, in virtù dello stesso sviluppo capitalistico.

Marx non riuscì ad intuire -a differenza di Lenin- che proprio lo sfruttamento dei contadini (ivi inclusi quelli delle colonie) avrebbe permesso ai capitalisti d'influenzare in modo borghese la coscienza operaia, impedendole di diventare rivoluzionaria.

Paradossalmente proprio il Capitale permette, senza volerlo, al capitalismo di sopravvivere grazie allo sfruttamento dei contadini, prima che le proprie contraddizioni interne giungano a piena maturità. Lenin invece ha dimostrato che non occorre aspettare il parto naturale della negazione del capitale: con la rivoluzione politica di operai e contadini lo si può affrettare.

Marx ed Engels non hanno mai creduto nella possibilità che in Europa orientale si potesse sviluppare una rivoluzione socialista prima che nella parte occidentale, o che, anche avvenendo prima essa potesse sopravvivere senza l'aiuto di una rivoluzione socialista occidentale (questa tesi verrà ripresa da Trotski).

Il loro torto stava:

  1. nel considerare il capitalismo come una formazione sociale superiore sotto tutti i punti di vista a qualunque altra formazione sociale;
  2. nel non considerare che se il capitalismo era davvero una formazione sociale superiore, lo era anche nella capacità d'influire in modo borghese sulla coscienza degli operai;
  3. nel considerare gli operai, appunto perché “operai”, politicamente più maturi di qualunque altra classe sociale;
  4. nel non considerare che la lotta anticapitalistica dev'essere condotta non solo nei momenti di particolare crisi, ma anche nella quotidianità dei rapporti sociali, in modo globale, cioè investendo tutte le contraddizioni del capitalismo, non solo quelle economiche e politiche.

Fu il populismo russo che obbligò Marx ed Engels a rendersi conto dell'importanza dell'obscina (comune agricola), cioè della gestione collettiva e non individuale della terra. Engels, da allora, iniziò a rivalutare anche la “marca” tedesca, ed entrambi -grazie alle opere di G. von Maurer, che dimostrò l'esistenza della comune rurale tedesca e di L. Morgan, che dimostrò l'esistenza del comunismo primitivo- cominciarono a ripensare le formazioni sociali precapitalistiche.

Tuttavia né Marx né Engels arrivarono mai a credere che le masse contadine russe, unite agli operai, avrebbero fatto la rivoluzione socialista prima che in Europa occidentale o senza una contemporanea rivoluzione in occidente. Al massimo Engels arrivò ad accettare l'idea di una “cospirazione blanquista”.

Engels, nel migliore dei casi, era convinto che senza l'aiuto della rivoluzione socialista occidentale, l'obscina si sarebbe disintegrata dall'interno, dando il via allo sviluppo capitalistico. Nel peggiore dei casi riteneva l'obscina già dissolta o comunque uno strumento utile solo all'autocrazia zarista.

Marx ed Engels non si rendevano conto che se per quanto riguardava l'istanza di liberazione il proletariato occidentale poteva sentirsi più intenzionato a volere la rivoluzione, poiché da tempo sperimentava il peso delle contraddizioni antagonistiche (sebbene tale peso fosse sempre più alleviato dal colonialismo), per quanto invece riguardava la memoria di liberazione che nell'Europa orientale si voleva conservare contro il capitalismo emergente, i contadini e gli ex-contadini divenuti operai si sentivano molto più rivoluzionari del proletariato occidentale.

Marx ed Engels non escludevano il passaggio dall'obscina al socialismo: escludevano che tale passaggio potesse avvenire prima della rivoluzione socialista occidentale. Ancora non potevano immaginare che proprio con il colonialismo, il capitalismo avrebbe potuto tenere alti i salari degli operai delle metropoli corrompendo la loro coscienza rivoluzionaria.

Abituati a convivere coll'individualismo delle formazioni sociali occidentali, Marx ed Engels si sentivano indotti ad ammettere che il capitalismo dovesse avere anche in Europa orientale il suo corso naturale, inevitabile. Siccome in Europa occidentale non ci fu modo di contrastarlo efficacemente, nel momento in cui nacque (XVI sec.), essi pensavano che la medesima difficoltà avrebbe dovuto esserci anche in Europa orientale, all'interno della quale -dicevano Marx ed Engels- le contraddizioni sarebbero state ancora più pesanti, poiché il capitalismo vi si sarebbe imposto già nella sua fase più matura, quella monopolistica.

In altre parole, l'industrializzazione, per Marx ed Engels, non poteva essere che “capitalistica”. Tale loro fatalismo storicistico rispecchiava la cultura tedesca, protestante e idealistica.

Sarà il leninismo a dimostrare che le possibilità del socialismo erano migliori non nei Paesi altamente sviluppati dell'occidente, ma in quel Paese dove le contraddizioni create dal capitalismo si scontrassero con una forte coscienza di classe.

La differenza tra il marxismo e il leninismo qui è rilevante. Il marxismo riteneva possibile la rivoluzione solo quando il capitalismo avesse esaurito tutte le proprie potenzialità. Il leninismo invece la riteneva possibile nella misura in cui le contraddizioni antagonistiche risultavano insopportabili alla coscienza rivoluzionaria.

Il primo a credere nella possibilità di una transizione dall'obscina al socialismo non fu però Lenin ma Chernyshevski.

Bisogna qui tuttavia precisare, contro le idee populistiche, che l'obscina non avrebbe mai vinto contro il capitalismo se non ci fosse stata la rivoluzione d'Ottobre. L'obscina infatti non rappresentava l'unica formazione sociale della Russia precapitalistica. L'altra era il servaggio, che, per quanto abolito giuridicamente, restava sempre in vigore sul piano sociale. Marx questo l'aveva capito perfettamente. Nella contraddizione tra servaggio e obscina si era insinuato il capitalismo, il quale, senza rivoluzione socialista, avrebbe sicuramente avuto la meglio sull'obscina.

Purtroppo però se l'obscina sopravvisse grazie all'Ottobre, venne sistematicamente distrutta dallo stalinismo. Oggi con la perestrojka si cerca di recuperarla.

Se non ci fosse la possibilità di realizzare un plusvalore non ci sarebbe neanche l'industria. Essa infatti è nata come tentativo di accumulare profitti da parte di un proprietario privato intenzionato a sfruttare lavoro altrui. Si dirà: questo veniva fatto anche dal feudatario attraverso il servaggio. Ebbene, la differenza sta proprio in questo, che il capitalista, prima di sfruttare il lavoro dell'operaio, sfrutta l'illusione di una libertà, quella dell'emancipazione dal servaggio.

La rivoluzione industriale è nata sulla base di una falsa libertà giuridica. Essa ha aumentato lo sfruttamento in proporzione all'aumentata libertà formale. Se in Occidente non ci si accorge di questo aumentato sfruttamento, è perché il capitalismo l'ha trasferito nel Terzo mondo. Senza sfruttamento delle colonie il capitalismo non potrebbe sussistere in alcun modo.

Viceversa, nel servaggio feudale la dipendenza personale comportava sì lo sfruttamento del lavoro, ma entro i limiti imposti da un rapporto non meccanizzato con la natura. L'industria rappresenta l'illusione di poter creare una libertà personale del lavoratore attraverso un rapporto meccanizzato con la natura: il che effettivamente comporta un notevole aumento delle forze produttive.

La libertà del lavoratore è però fittizia in quanto in tale rapporto chi trae i maggiori profitti è il proprietario dei mezzi produttivi, cioè soprattutto il capitalista, il quale, sulla base dei propri profitti, tende a costruire un modello di società che invece di emancipare il lavoratore lo aliena sempre di più (non solo sul luogo del lavoro ma anche in ogni manifestazione della vita sociale).

Marx credette di aver trovato la soluzione a questo problema nella socializzazione dei mezzi produttivi (peraltro senza mai parlare di statalizzazione). In realtà, oltre a ciò, va ridiscusso il primato concesso all'industria rispetto all'agricoltura. L'industria dovrà, in futuro, essere considerata come “parte integrante” dell'agricoltura, e non come pilastro fondamentale cui anche l'agricoltura deve adeguarsi.

Anche perché se il destino dell'industria è quello di diventare completamente automatizzata, tanto da escludere la presenza rilevante dell'operaio, l'esubero di manodopera risulterà catastrofico, poiché nessuno vorrà né potrà tornare all'agricoltura o all'artigianato, e non tutti potranno essere rioccupati nel terziario.

L'industria libera potenti energie ma a scapito dello stesso lavoratore, che ogni giorno di più si vede sostituire dalle macchine. Il lavoro industriale crea ricchezza solo per il capitalista, non assicura un futuro ad alcun lavoratore (che non abbia una grande specializzazione), né garantisce una vera creatività nelle mansioni che si svolgono (se non a livelli intellettuali, tecnico-progettuali). E non si dica che l'automazione permetterà al lavoratore maggior tempo libero che potrà impiegare secondo la propria creatività, perché questo è in contrasto col noto principio che il lavoro deve diventare un principio vitale d'esistenza, non solo per la sopravvivenza o la riproduzione del lavoratore ma anche per la sua personale realizzazione. Le macchine non potranno mai sostituire completamente l'uomo.

Nel “socialismo reale” la situazione, fino a ieri, non era migliore: i profitti andavano allo Stato, che poi dall'alto li redistribuiva secondo criteri estranei alla volontà dei lavoratori; il futuro era assicurato, ma solo perché in realtà le mansioni svolte erano poco qualificate, i prodotti di scarsa qualità, i deficit di bilancio coperti dallo Stato, ecc.

Una nuova società industriale dovrà creare un'industria legata ai bisogni della comunità locale; dovrà quindi essere un'industria tendenzialmente esaustiva, con capacità globali, in grado di soddisfare molteplici esigenze. Non quindi un'industria specializzata in un settore, sempre più sofisticata perché preoccupata di non reggere la concorrenza straniera, ma un'industria multilaterale, competente in tutti quei settori richiesti dalla comunità locale (elettrodomestici, trasporti, trasformazione dei prodotti ecc.).

LA PICCOLA PROPRIETA' CONTADINA

Nel cap. XXIV del Io libro del Capitale Marx ha parlato di “libera proprietà contadina” non solo per motivi storici, ma anche per un motivo ideologico. Egli ha pensato che dalla dissoluzione naturale, inevitabile, di quella proprietà, dovuta a oggettive contraddizioni interne, doveva per forza nascere, in maniera cioè altrettanto naturale e inevitabile, il capitalismo. Poi dalla dissoluzione naturale di questo sarebbe nato il socialismo. Marx ha più volte affermato che i protagonisti di questa transizione “approfittarono di avvenimenti dei quali non erano assolutamente responsabili”, nel senso cioè che la transizione non fu il frutto di una scelta libera e consapevole.

Ora, la libera proprietà contadina, sorta in Inghilterra verso la fine del XIV sec., anche se era gestita -come dice Marx- dalla “stragrande maggioranza della popolazione”, non era affatto totalmente libera, ma sempre soggetta a un vincolo di tipo feudale con la signoria aristocratica. Marx stesso lo afferma laddove parla di qualsivoglia “insegna feudale” sotto cui si celava questa forma di proprietà.

In questo senso, se si vuole ammettere l'idea che la libera proprietà individuale aveva in sé contraddizioni tali per cui il suo dissolvimento era inevitabile e quindi necessaria era la transizione al capitalismo, allora bisogna anche ammettere che quelle contraddizioni erano dovute al rapporto ch'essa aveva con la proprietà feudale o comunque con i rapporti produttivi di tipo feudale.

La piccola proprietà individuale non era libera né come la intendiamo oggi né come la si intendeva nelle società pre-schiavistiche. In queste società peraltro la libertà della proprietà individuale non era in contrasto con la libertà della proprietà collettiva, anzi era il collettivo che dava la dimensione della libertà individuale. Mentre sotto il capitalismo è “libera” solo la grande proprietà, quella che decide i vari monopoli sul mercato. Tutta l'altra proprietà deve sottostare alle leggi del mercato, per cui è “libera” solo giuridicamente non economicamente.

Dunque se nell'Inghilterra del XVI sec. la prima proprietà ad essere espropriata fu quella libera e individuale, ciò è dipeso appunto dal fatto ch'essa nella società feudale era la più debole, sotto tutti i punti di vista.

Tale libera proprietà era continuamente minacciata dalla forza dell'aristocrazia, e il contadino doveva difenderla con ogni mezzo. Se essa si trasformò abbastanza velocemente in proprietà capitalistica, ciò dipese appunto dal fatto ch'era costantemente minacciata da quella feudale, per quanto, a una spiegazione del genere, bisogna aggiungerne un'altra trascurata da Marx, quella della progressiva emancipazione ideologica dalla religione tradizionale, da parte o dei contadini che, vendendo per il mercato, si erano arricchiti e quindi avevano intenzione di trasformarsi in capitalisti sul proprio terreno, oppure da parte dei ceti mercantili e usurai, i quali, imponendo le leggi del mercato, costrinsero parte della nobiltà a espropriare i contadini, oppure essi stessi, acquistando la terra, si trasformarono in imprenditori capitalistici.

Delle due insomma l'una: se la piccola proprietà contadina è stata così facilmente espropriata, ciò è potuto accadere o perché il capitalismo commerciale e usuraio era già notevolmente sviluppato, oppure, se questo capitalismo ancora non era molto sviluppato, perché esisteva una mentalità religiosa fortemente protenstantizzata, che tendeva a giustificare la prassi mercantile. In entrambi i casi il processo di trasformazione capitalistica della piccola proprietà non s'è imposto senza una buona dose di “odio” nei confronti della rendita feudale e dei privilegi aristocratici.

Spesso il borghese non era che un ex-contadino o un ex-artigiano che, dopo aver concesso il primato al commercio e al denaro, era tornato alla terra dove aveva iniziato a produrre in modo capitalistico. La piccola azienda familiare s'era trasformata in azienda capitalistica solo dopo aver accumulato capitali da una parte e risentimenti e odio nei confronti del feudalesimo, dall'altra. Ecco perché, prima di parlare di “accumulazione originaria”, Marx avrebbe dovuto prendere in esame le lotte di classe dei contadini inglesi medievali e l'evoluzione dell'ideologia religiosa.

In sintesi, quando Marx parla esplicitamente del fatto che il capitalismo è sorto sulla disgregazione del feudalesimo, non offre una spiegazione convincente delle cause interne che hanno disgregato il feudalesimo, poiché, se l'avesse fatto, avrebbe dovuto prendere in esame anche gli aspetti sovrastrutturali (in specie l'ideologia religiosa) che condizionano quelli strutturali dell'economia.

Quando Marx esamina gli aspetti sovrastrutturali (in specie il diritto) lo fa solo coll'intento di confermare quelli strutturali o di mostrare che le leggi della struttura trovano sempre un loro riflesso nella sovrastruttura. Nella sua analisi la struttura e la sovrastruttura non hanno un vero rapporto dialettico, d'influenza reciproca, ma solo uno di causa ed effetto.

Di conseguenza, parlando dell'accumulazione originaria inglese, egli è stato costretto a rifarsi, anzitutto, a delle cause esterne, la prima delle quali è stata l'espandersi della manifattura laniera fiamminga.

Questo limite di Marx Lenin non riuscì a capirlo nella sua polemica con i populisti.

LA DISSOLUZIONE DELLA COMUNITA' CONTADINA NELL'EUROPA OCCIDENTALE

Marx ha sempre ritenuto che le forme comunitarie del modo di produzione asiatico siano state le più tenaci nell'opporsi allo sviluppo del capitalismo, e non in virtù di aspetti positivi, ma proprio a causa del fatto che l'individuo viene praticamente sacrificato sull'altare dell'interesse collettivo, che è a sua volta imposto o tenuto entro certi limiti dal potere autocratico.

Queste forme possono opporsi al capitalismo quando questo è allo stato embrionale; in seguito però, se non mutano fisionomia, sono destinate a soccombere.

Il mutamento di tali forme è avvenuto acquisendo alcuni elementi dell'ideologia occidentale (liberale o marxista), che poi sono stati adattati alle esigenze di quelle comunità. Il maoismo e il gandhismo hanno potuto superare il colonialismo europeo (e anche nipponico, nel caso cinese) appunto perché avevano saputo trasformare l'ideologia borghese secondo gli interessi della lotta di liberazione nazionale (in Cina anche secondo gli interessi dell'edificazione del socialismo). (Caratteristica della Cina, tuttavia, è, a tutt'oggi, l'eclettismo ideologico da un lato e il socialismo autoritario dall'altro. Il primo aspetto ha permesso, prima di ogni altro paese socialista, l'introduzione di elementi dell'economia capitalistica).

Dunque, il mancato processo d'individualizzazione dell'uomo non è dipeso da una superiorità del modo di produzione asiatico, ma piuttosto da una sua inferiorità, la cui causa Marx non ha mai pensato di attribuire alla cultura religiosa dell'indo-buddismo. Se l'avesse fatto avrebbe capito perché sotto l'influsso del cristianesimo ortodosso quello stesso modo è stato trasformato in Russia nella comune agricola, che ha resistito sino agli inizi di questo secolo.

L'Europa occidentale ha spezzato le forme comunitarie di vita con l'introduzione dell'ideologia schiavista. Nell'Alto Medioevo cercò di recuperarle in nome del cristianesimo, ma poi, proprio in nome di un modo sbagliato di vivere questa ideologia religiosa, essa ha riaffermato l'individualismo in tutti quei Paesi di religione cattolica e soprattutto protestante.

Marx inoltre ha dato per scontato il fatto che le forme della comunità originaria, primitiva, si siano conservate, sostanzialmente, nelle forme asiatiche, ove gli individui sono elementi puramente naturali della comunità. In realtà, non è affatto dimostrato che le forme asiatiche siano l'unico rispecchiamento delle forme comunitarie primitive. Se così fosse non si spiegherebbe la ragione per cui in Asia quelle forme non si sono evolute, mentre in Europa sì. Peraltro, il concetto stesso di potere autocratico, che ha sempre caratterizzato le forme asiatiche, esclude di per sé ch'esse abbiano conservato tracce significative della comunità primitiva.

Per “cultura” non si devono intendere tanto le cognizioni tecnico-scientifiche, quanto la capacità di usarle per distruggere una tradizione comunitaria che si ritiene superata. A tale scopo occorre che l'individuo abbia piena fiducia nelle proprie risorse e si consideri assolutamente in opposizione agli interessi della collettività. Si prenda come es. il fatto che la civiltà cinese raggiunse il suo massimo splendore nei secoli XII-XIII, eppure lo sviluppo del suo potenziale tecnico-scientifico non riuscì a spezzare l'involucro della struttura sociale burocratico-agraria, e i rapporti di tipo “asiatico” sopravvissero ancora per secoli, finché vennero a contatto con il colonialismo occidentale.

LA LIMITATEZZA DELLE COMUNITA' PRE-CAPITALISTICHE

Marx ha affermato che nelle comunità asiatiche primitive, nelle forme greco-romane e germaniche, non ci poteva essere uno sviluppo libero e completo dell'individuo o della società, poiché la “compiutezza”, la “soddisfazione” era concepita nell'ambito di uno sviluppo limitato, mentre caratteristica fondamentale del mondo moderno è l'illimitatezza.

Qui Marx non ha fatto che applicare al passato un pregiudizio formulato nel suo presente. Egli cioè ha rifiutato di considerare libero uno sviluppo “limitato”, cioè posto entro rigorosi limiti.

Marx, in sostanza, non ha voluto accettare l'idea di considerare il passaggio dalla proprietà collettiva primitiva a quella privata antagonistica, come il frutto di una scelta soggettiva dettata da un modo arbitrario d'interpretare il senso della proprietà collettiva. Secondo Marx il passaggio era determinato da una necessità oggettiva, dettata da contraddizioni naturali, interne a quelle stesse forme primitive d'esistenza. Nel senso cioè che l'uomo avrebbe dovuto superare il collettivismo primitivo appunto per sentirsi “uomo” e non mero prodotto della “natura”.

Questo modo di vedere le cose è tipicamente occidentale. Il senso di “umanità” viene considerato un attributo specifico del senso di “individualità”. Là dove il soggetto non emerge, col suo bisogno di distinguersi dalla massa, lì -si dice- esistono non rapporti “sociali” ma “naturali”. I veri rapporti sociali sono quelli che l'individuo libero si dà da sé, non quelli che riceve dalle generazioni precedenti.

La libertà quindi per Marx non sta nell'accettare la tradizione modificandola negli aspetti che richiedono innovazione, ma sta nel superare ogni tradizione per poter essere veramente innovativi. L'individuo libero è un titano che con decisione combatte contro una massa informe e senza personalità. Da qui al disprezzo della vita contadina il passo è breve.

In altre parole, all'associazione, libera da dominio ma sottoposta alle leggi di natura, Marx preferiva un'associazione libera e in grado di dominare la natura: ecco perché egli ha considerato necessario, inevitabile, la disgregazione della comunità primitiva.

Oggi il marxismo deve rimettere in discussione il principio che vede affermata la libertà dell'uomo nel dominio sulla natura. Ciò che è inevitabile, in realtà, è proprio una sorta di dipendenza nei confronti della natura. La libertà umana è possibile solo entro i limiti imposti dalla natura. Non a caso l'individualismo ha cercato in un rapporto di dominio con la natura quella compensazione al vuoto che gli aveva procurato la rottura dei rapporti sociali comunitari. Il dominio dell'uomo sulla natura, attraverso il macchinismo, riflette l'alienazione dell'individualismo. Il sociale dunque non può essere contrapposto al naturale.

Lo “sviluppo” della forze produttive non può essere considerato legittimo se avviene solo a condizione di distruggere la comunità naturale. Non c'è sviluppo ma involuzione se l'uomo perde il rapporto sociale che dà senso alla sua esistenza.

Anche perché l'iniziativa indipendente dell'uomo singolo che si stacca dalla comunità, può essere considerata “libera” solo nel senso negativo che si è “liberata” da una dipendenza collettiva. Ma in un senso positivo questa libertà è falsa poiché, per sussistere, essa ha immediatamente bisogno della schiavitù altrui. Questo aspetto il marxismo non l'ha mai sottolineato a sufficienza, poiché, nel tentativo di dimostrare la superiorità della formazione capitalistica su tutte le altre formazioni e quindi la superiorità del proletariato industriale su qualunque altra classe oppressa, esso ha sempre cercato di far vedere che il capitalismo è nato grazie allo sforzo e all'iniziativa di individui privati indipendenti.

E' sul concetto di “indipendenza” che bisogna discutere. La vera libertà esiste solo in un collettivo democratico; se da questo collettivo ci si emancipa, la propria personale indipendenza viene subito pagata dalla schiavitù o servitù altrui. (Nel racconto biblico del peccato d'origine la prima schiavitù che s'è imposta, dopo la rottura dei rapporti comunitari, è stata quella della donna nei confronti dell'uomo).

L'emancipazione del singolo può trovare una qualche giustificazione se il collettivo non è libero e democratico, ma anche in questo caso bisogna ribadire il valore dei rapporti collettivi: il singolo resta un'astrazione sociale, se si pone al di fuori di ogni contesto. Se l'individuo, traendo pretesto dalla crisi del collettivo, si afferma soltanto come singolo, la sua emancipazione non farà che aggravare la crisi del collettivo e non sarà, in ultima istanza, una garanzia di sopravvivenza neppure della nuova individualità affermata. Il singolo, senza comunità, è in grado di sussistere solo a condizione di poter sfruttare il lavoro altrui.

IL CONCETTO DI VALORE DI SCAMBIO

Tra i limiti fondamentali delle comunità primitive e pre-capitalistiche, Marx annovera quello d'essere impostate unicamente sul valore d'uso, al punto che dal momento in cui vengono a contatto col valore di scambio, inizia la loro lenta disgregazione. Naturalmente a condizione che lo scambio penetri nella comunità e non resti solo un'attività tra diverse comunità. Dallo scambio infatti si svilupperà la divisione del lavoro, la proprietà privata e l'antagonismo delle classi.

Questo modo di vedere le cose è di tipo deterministico o positivistico. Marx cioè esclude la possibilità che valore d'uso e valore di scambio possano coesistere: la presenza dell'uno esclude necessariamente quella dell'altro.

In realtà, lo scambio di per sé non uccide alcuna comunità, neppure quando è penetrato all'interno della stessa comunità. Certo è che il primato va concesso al valore d'uso, poiché è solo il significato dell'uso che può dare il giusto valore allo scambio. Se chi pratica lo scambio si arricchisce a spese della comunità, le ragioni per cui lo fa sono due: o il valore d'uso della comunità è già entrato in crisi e un suo ripristino per via autoritaria è ovviamente impossibile, poiché qui solo la comunità, nella sua interezza, può decidere come regolarsi; oppure l'individuo ha compiuto un atto arbitrario, che la comunità, consapevole dell'importanza del valore d'uso, ha il diritto-dovere di contrastare. In questo caso però occorre lasciare decidere all'individuo: o si riadegua alle leggi comunitarie, oppure abbandona la comunità.

Sia come sia la comunità deve saper cogliere il fatto come un'occasione per riflettere su se stessa, poiché se l'individuo ha cominciato a usare lo scambio per sottomettere il valore d'uso, significa che all'interno della comunità ci sono delle contraddizioni che spingono in questa direzione e che se non vengono risolte in tempo, possono svilupparsi e fossilizzarsi, al punto che la dissoluzione della comunità apparirà non come una disgrazia ma come una liberazione.

Il valore d'uso può essere determinato solo dalla comunità nella sua interezza. Se la comunità agisce all'unisono, il valore di scambio non agirà mai in maniera distruttiva sulle sue fondamenta. Allorché accade questo, le ragioni vanno cercate non tanto nell'arbitrio del singolo, quanto piuttosto nella crisi dei rapporti sociali. Se il significato originario di questi rapporti viene recuperato dall'intera comunità (locale) e rafforzato dalla consapevolezza della loro importanza e dal timore di poterli perdere, allora il desiderio di concedere il primato al valore di scambio rientrerà in modo naturale. I frutti del commercio continueranno ad appartenere all'intera comunità, la quale ovviamente premierà ogni rischio individuale.

Il segno che il valore di scambio tende a prevalere sul valore d'uso è la comparsa del denaro. E' il denaro che permette un arricchimento individuale illimitato, per quanto uno possa arricchirsi anche in una società ove esso non esista affatto, servendosi semplicemente del proprio potere politico. Ma anche una società del genere non potrebbe certo dirsi comunitaria. Quando la comunità arriva a considerare il denaro o il potere politico come fonti di arricchimento illimitato, ciò significa che la comunità, da tempo, non esiste più.

In sostanza, la crisi del valore d'uso dipende dalla crisi del valore in generale. E' dunque una questione culturale e sociale, prima ancora che economica o politica.

LA TRANSIZIONE DAL FEUDALESIMO AL CAPITALISMO

Marx ha affermato che le scoperte geografiche dei secoli XVI e XVII hanno accelerato il modo di produzione capitalistico (fase della manifattura) solo là dove le condizioni necessarie per l'applicazione di tale modo produttivo si erano venute creando nel Medioevo. Ed egli precisa che il monopolio privato della proprietà fondiaria costituisce la base storica del capitalismo, in quanto già nel possesso fondiario feudale si realizza un potere estraneo che aliena e opprime il lavoratore.

Marx però non ha mai esaminato l'ideologia (religiosa) che ha permesso una tale evoluzione della proprietà fondiaria. Solo nella tarda maturità comprese che nell'Europa orientale la proprietà fondiaria non aveva subìto la stessa evoluzione di quella occidentale.

Egli capì che rispetto alla proprietà dell'antichità classica (greco-romana), lo sviluppo del feudalesimo (nell'Alto Medioevo) rappresentò un arretramento del processo di parcellizzazione o autonomizzazione della terra, ma non ha capito che tale arretramento trovava la sua ragion d'essere nell'ideologia egualitaria del cristianesimo (che nell'Europa occidentale s'è lasciata condizionare dalle tradizioni individualistiche, mentre nell'Europa orientale ha cercato di perfezione le tradizione egualitaristiche).

Anzi, per Marx la dipendenza personale del Medioevo rappresenta un limite rispetto alla proprietà libera e individuale del periodo classico. Mentre in realtà essa voleva costituire una trasformazione in positivo del rapporto schiavistico in agricoltura. Colonato e servaggio rappresentano un'alternativa, seppure parziale, allo schiavismo. E tale alternativa fu resa possibile dall'ideologia del cristianesimo, non solo da fattori di ordine socioeconomico.

Il marxismo inoltre dovrebbe chiedersi se la libera proprietà privata del mondo classico non traeva la sua legittimazione proprio dalla presenza della grande proprietà schiavistica. Nel senso cioè che la piccola proprietà schiavistica fu lasciata sopravvivere dai grandi latifondisti finché questi ebbero l'opportunità di rifornirsi con relativa facilità di un numero ingente di schiavi. La libera proprietà basata sul lavoro individuale, già rovinata dall'esoso apparato fiscale dell'impero, scomparve definitivamente quando, per difendersi dai barbari, i piccoli proprietari chiesero ai grandi proprietari di entrare nella loro orbita. Essi così rinunciarono alla libertà personale e si trasformarono in coloni o servi della gleba.

Il marxismo dovrebbe inoltre chiedersi il motivo per cui mentre in Europa occidentale la borghesia s'è sviluppata all'interno del feudalesimo, in Europa orientale ciò invece non è avvenuto. Se la differenza sta nel tipo di feudalesimo, allora la ragione di questo va ricercata nelle diverse ideologie religiose.

Non a caso è stata la Russia ad aver sperimentato alla fine del secolo scorso (sino all'Ottobre) un grande sviluppo capitalistico: infatti, quale nazione più della Russia, nell'Europa orientale, aveva cercato d'abbracciare la cultura occidentale? Già al tempo di Pietro il Grande la Russia voleva occidentalizzarsi...

Enrico Galavotti galarico@inwind.it http://www.homolaicus.com/