SERGE LATOUCHE

A cura di Giulia Bassoli

 

 

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Vita e opere

 

Serge Latouche (12 gennaio 1940, Vannes) è un economista e filosofo francese; è professore emerito in Scienze economiche all’Università di Paris-Sud (Orsay) e all’Institut d'études du devoloppement économique et social (IEDES) di Parigi. È tra gli animatori de “La Revue du Mauss”. Tra i suoi libri sono tradotti in italiano per Bollati Boringhieri: L’occidentalizzazione del mondo (1992), Il pianeta dei naufraghi (1993), La megamacchina (1995), L’altra Africa. Tra dono e mercato (1997), La sfida di Minerva (2000) Giustizia senza limiti (2003) Il ritorno dell’etnocentrismo (2003), Come sopravvivere allo sviluppo (2005), Breve trattato sulla decrescita serena (2008), L’invenzione dell’economia (2010), Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita (2011), Per un’abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita (2012). Per Feltrinelli: La scommessa della decrescita (2007).

 

Il pensiero: la critica alla società della crescita e la proposta della “decrescita serena”

 

Ereditando e sviluppando il pensiero di Karl Polanyi e Ivan Illich, Serge Latouche ha elaborato un’analisi critica  dell’economia occidentale, fatalmente destinata al collasso, e ha articolato una prospettiva economica alternativa che, proprio per l’inversione di tendenza che propone, è nominata “decrescita”. 

Latouche dichiara essere un “obiettore di crescita”, ossia di opporsi a quella che definisce “la religione imperante della crescita”[1], cultura che costringe a ricercare, in modo irrazionale e distruttivo, uno sviluppo economico continuo e fine a se stesso.  L’economia, così intesa, riesce a funzionare solamente attraverso un aumento continuo del Pil, comportandosi “come un gigante che non è in grado di stare in equilibrio se non continuando a correre, ma così facendo schiaccia  tutto ciò che incontra sul suo percorso.”[2] Un sistema di questo tipo è del tutto insostenibile sotto il profilo ecologico e sociale perché destinato a scontrarsi con una limitatezza di risorse con la quale, ancora, rifiuta di mettersi a confronto. Oltre a ciò, questo sistema presenta un’altra fondamentale contraddizione: pur offrendo all’uomo (quello occidentale) ogni agio e comfort, lo condanna ad uno stile di vita frenetico, di perenne insoddisfazione e tale da produrre una società malata di ricchezza, impregnata di disuguaglianze ed ingiustizie. La critica di Latouche alla società della crescita si estende a qualsiasi proposta che, con qualche mistificazione in più, non vada verso una vera e propria inversione di tendenza; così viene smascherato il concetto di “sviluppo sostenibile”, espressione contraddittoria con la quale si rifiuta di uscire da un’economia di crescita, nella convinzione che da essa dipenda il benessere dei popoli. La decrescita auspicata da Latouche, invece, costituisce un’alternativa non solo economica, ma anche esistenziale, che permetterà di uscire radicalmente da questo distruttivo sistema. Non casualmente l’espressione con cui essa è tipicamente presentata è proprio “decrescita serena”. L’intuizione della decrescita, infatti, vuole un arretramento del Pil in favore di un aumento di benessere: benessere inteso da Latouche come un bien vivre che tiene conto di  aspetti immateriali e normalmente “dimenticati”, quali la cultura, il tempo libero, le relazioni umane. L’arretramento necessario che la strada della decrescita richiede, però, non ha nulla di nostalgico; esso deve, al contrario, essere accompagnato da cambiamenti qualitativi, resi possibili da tecniche e tecnologie innovative ma pur sempre caratterizzate da equità ecologica e sociale. Richiamandosi al pensiero di Ivan Illich, Latouche osserva che la necessaria limitazione dei nostri livelli di consumo e di produzione non riporterà ad una vita di privazione e fatica, ma ad una riscoperta di creatività e convivialità, così da offrire a tutti la possibilità di condurre una vita degna e meno stressante di quella attuale. Per raggiungere questo obiettivo Latouche propone otto punti programmatici, noti come le “otto erre”: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare.  Rivalutare significa riscoprire valori nuovi e nuovi atteggiamenti andando incontro, inevitabilmente, ad una diversa visione del mondo e della società. In modo affine, una riconcettualizzazione richiede di significare diversamente alcuni concetti come “ricchezza” e “povertà”, “rarità” e “abbondanza”. Cambiare i valori rende obbligatorio un conseguente adeguamento dell’ intero apparato produttivo e  della gestione dei rapporti sociali, quindi una “ristrutturazione” completa della società. Questo richiede, necessariamente, l’uscita dal capitalismo e l’inquadratura delle istituzioni sociali in una logica differente. La ristrutturazione della società deve permettere un’adeguata ridistribuzione delle ricchezze  e delle possibilità di accesso alle risorse della natura. Uno degli strumenti strategici su cui verte questa trasformazione è la rilocalizzazione delle attività produttive; questa renderà possibile una “riterritorializzazione” dei luoghi e un più diretto contatto con i prodotti e i mercati vicini. La rilocalizzazione proposta da Latouche si spinge fino all’invito all’autoproduzione dei beni. Decrescita significa anche, ineluttabilmente, “riduzione”. La riduzione dovrà toccare, per Latouche, diversi ambiti: energetico, tramite una riduzione dei trasporti e degli scambi commerciali assurdi; ore lavorative, così da riassorbire la disoccupazione e riscoprire un proprio tempo personale; produzione dei rifiuti, quindi anche dell’obsolescenza (programmata e psicologica) dei beni. Per quest’ultimo punto diventano allora indispensabili pratiche di riutilizzo dei beni che giungano a soppiantare definitivamente la cultura dell’ “usa e getta” favorendo, al contrario, il riciclo degli oggetti, quindi il recupero di componenti da ritrasformare in materie prime.

Perché tutto questo abbia luogo bisogna necessariamente passare attraverso una “decolonizzazione dell’immaginario”, un cambiamento di mentalità che permetta, prima di tutto, di “far uscire il martello economico dalla testa”[3] per approcciarsi a nuovi valori, nuovi modi di intendere il benessere e ad un nuovo atteggiamento verso la terra e la società. Questa transizione, che non può che partire in modo locale e modesto, richiede il contributo attivo di intellettuali e artisti. Questi, infatti, con la loro creatività, sono capaci di “reincantare il mondo”, in opposizione alla banalizzazione e al disincanto prodotto dalla società dei consumi.

Come si può notare, la proposta di Latouche (sulla quale verte la maggior parte delle sue opere) non è strettamente uno studio economico quanto più un programma pratico e filosofico. Cosa sia la felicità e da quale tipo di ricchezza essa dipenda è l’interrogativo basilare a cui la riflessione di Latouche vuole dare una concreta risposta. Interrogativo che, come Latouche ricorda, si fa sempre più urgente e necessario.

 

 

 

 



[1] Giorgio Gregori, Intervista a Serge Latouche. Per il testo completo si veda www.oppostadirezione.altervista.org/art-n.7-latouche.htm

[2] Serge Latouche, La scommessa della decrescita,  Feltrinelli 2007, pag. 27

[3] Cfr.Serge Latouche, Decolonizzare l'immaginario. Il pensiero creativo contro l'economia dell'assurdo, ed. EMI, 2004



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