Karl Löwith interprete di Marx e di Weber

 

Di Diego Fusaro

 

 

 

Per poter comprendere in tutta la sua portata teoretica il saggio löwithiano su Max Weber e Karl Marx, occorre preventivamente far chiarezza, anche se solo per brevi cenni, sul panorama filosofico in cui esso ha visto la luce: composto nel 1932, il saggio si innesta in quel particolare periodo dell’attività di Karl Löwith che egli stesso ha voluto etichettare come “filosofia antropologica”, con la chiara intenzione di contrapporsi alla “antropologia filosofica” che si stava all’epoca affermando soprattutto grazie ai contributi di Scheler, Gehlen e Plessner. Sulla scia di costoro, anche al cuore dell’indagine di Löwith sta il tentativo di giungere ad un’adeguata comprensione di quell’essere polimorfo che è l’uomo e della posizione da lui occupata nel cosmo: tuttavia, rispetto ai canoni dell’antropologia filosofica, la decisiva novità che egli introduce con la sua ricerca sta nell’adottare, come ancella della filosofia, non la biologia (di cui pure possedeva una salda conoscenza), bensì le scienze umane.

Ad avviso di Löwith, a partire dalla stagione post-classica della filosofia, inaugurata da Feuerbach e dalla sua scoperta del tu come sfera di un rapporto conoscitivo oltre che umano, non c’è sistema filosofico che non veicoli, ora in maniera aperta ora in maniera sotterranea, un ben preciso paradigma di esistenza: si tratterà allora di passare in rassegna i principali pensatori di questa sorprendente età post-classica della filosofia per vedere come, coi loro sistemi, essi tentino di contrabbandare come autentica una ben precisa immagine dell’uomo, che ci invitano ad assumere come paradigma di un modus vivendi a tutto tondo e dai contorni perfetti.

Concretamente, il progetto löwithiano di indagine sull’uomo si attua in un incessante confronto tra coppie di filosofi, prese in esame nell’ambito di ricerca in cui si sono contraddistinte: sicché la disamina delle diverse immagini di uomo propugnate da Hegel e da Burkhardt avviene in una cornice storica; quella di Nietzsche e di Kierkegaard in uno scenario che potremmo definire, lato sensu, esistenzialistico/nichilistico. Si tratta di un confronto in cui Löwith, lungi dal porsi come uno storico delle idee distaccato e asettico, non esita a schierarsi, a criticare, a demolire, a far sua la posizione del filosofo che sta mettendo alla berlina, secondo quella tecnica che Eugen Fink ha brillantemente etichettato come tecnica del “cavallo di Troia”. È come se Löwith stesse inverando il principio hegeliano per cui non si può fare storia della filosofia senza fare filosofia, poiché tra le due sussiste un’immancabile circolarità. La disamina dei diversi pensatori considerati non avviene mai in maniera asettica, ma sempre con intenti teoretici e, per lo più, di critica in nome di quella scepsi (contrapposta alla fede [1]) che Löwith innalza a stella polare della sua ricerca. Senza mai fare del tutto sua una delle posizioni passate in rassegna, il filosofo ebreo le attraversa tutte, smascherandone i vizi, le ideologie, i dogmi e le contraddizioni; fedele fino in fondo alla scepsi, egli non può aver fede in nessun sistema filosofico, proprio perché la fede è il meno filosofico degli atteggiamenti.        

Il confronto tra Marx e Weber avviene eminentemente sul campo della sociologia: agli occhi critici di Löwith , essi sono i due più grandi interpreti dell’Età contemporanea: sicché, chi vuole capire il nostro tempo, deve necessariamente far propria o la posizione marxiana o quella weberiana. L’una esclude l’altra, giacché la prospettiva weberiana è il superamento e, allo stesso tempo, il capovolgimento di quella marxiana. Il confronto tra questi due grandi interpreti della nostra Età implica tre condizioni inaggirabili, come rileva Löwith [2]: in primis, che Marx e Weber possano essere effettivamente posti a confronto, ovvero che possano essere messi sullo stesso piano; in secondo luogo, che essi propongano interpretazioni radicalmente diverse dello stesso fenomeno; in terzo luogo, che, al di là delle loro indagini prettamente economiche e sociologiche, il punto centrale, anche se taciuto, della loro indagine sia l’uomo. Ed è questa terza condizione a mettere in luce come il saggio löwithiano rientri a pieno titolo nella cornice della sua filosofia antropologica. Così Marx ci dice [3] che, per essere radicali, bisogna cogliere ogni cosa alla radice e, nel caso dell’uomo, tale radice è l’uomo stesso. E, con lo stesso piglio antropologico, Weber, nelle sue indagini sul capitalismo [4], si domanda quale tipo di uomo fosse necessario affinché potesse sorgere il capitalismo e, come è noto, lo ravvisa nell’uomo protestante del XVI secolo. Sicché entrambi muovono, forse in maniera non del tutto consapevole, da una ben precisa idea di uomo e su di essa modellano i loro sistemi.     

Un altro punto comune è quello da cui tanto Marx quanto Weber prendono le mosse: la constatazione che il nostro tempo è signoreggiato da una forza fatale che si è imposta con la stessa necessità tragica con cui il destino si abbatteva nelle tragedie greche. Tale forza incontenibile è il capitalismo, nel quale la nostra epoca si trova ingabbiata: ciò vale tanto per Marx quanto per Weber, anche se poi essi intendono in maniera decisamente diversa la gabbia che ci imprigiona e gli atteggiamenti da assumere di fronte ad essa. Le loro indagini scientifiche si risolvono in un’analisi dell’uomo contemporaneo della società borghese secondo il filo conduttore dell’economia capitalistica, considerata da Weber in maniera neutralmente avalutativa come esito necessario dell’inarrestabile processo di razionalizzazione, da Marx in maniera partitica come alienazione dell’uomo e come privazione di un’essenza che egli è chiamato a riconquistare.

Come Burkhardt è un “uomo nel mezzo della storia” [5], così Marx e Weber sono uomini nel mezzo del capitalismo e della Modernità: nessuno come loro ha diagnosticato con tanta profondità e precisione scientifica la necessità storica del capitalismo, la sua fatale ineluttabilità. Tutte le loro indagini sono in ultima istanza proiettate su questo fenomeno, ma danno esiti assolutamente antitetici. Ma al di là di tale diversità insuperabile nei risultati, li unisce una costante volontà di proporre una terapia oltre che una diagnosi: nessuno dei due si arresta alla mera constatazione che oggi il capitalismo ci domina; entrambi propongono soluzioni, atteggiamenti da assumere o da rifiutare. In definitiva, fatta con grande acribia la diagnosi, essi dismettono il camice dello scienziato e si propongono di salvare la dignità umana (Weber) o di emancipare l’uomo in quanto uomo (Marx). Significativamente, Löwith sostiene che ciò che stimolava il loro lavoro scientifico trascendeva completamente la scienza in quanto tale e trapassava piuttosto in politica (Marx) e in carisma profetico (Weber): instancabili scrittori di mastodontici scritti indecifrabili e agguerriti nemici di personaggi che per noi oggi restano poco più che nomi, Marx e Weber guardano alla scienza come a un trampolino di lancio verso qualcosa di diverso e più alto, che con la scienza stessa non ha più niente a che vedere.

La diagnosi a cui pervengono è la stessa – la nostra è l’epoca dominata dal capitalismo –, ma i modi in cui vi pervengono e le terapie che propongono sono enigmaticamente opposti: per Marx, fedele ai princìpi del materialismo storico, la storia è scandita dalla dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione [6], per cui, mutate le prime, devono necessariamente mutare per via rivoluzionaria anche le seconde: in questa dinamica dialettica con cui evolve la storia – che è sempre storia di lotte di classe –, ben poco spazio è concesso alla dimensione sovrastrutturale delle idee. Nella prospettiva marxiana, infatti, cambiando le condizioni di vita degli uomini, i loro rapporti sociali e la loro esistenza sociale, cambiano anche le loro concezioni, i loro modi di vedere e le loro idee, cioè la loro coscienza: in gergo marxiano, mutando la struttura, muta anche la sovrastruttura, anche se non sempre risulta chiaro come ciò possa avvenire; a tal punto che la storia del marxismo è in definitiva una sfilza di diverse interpretazioni del rapporto tra struttura e sovrastruttura. Quel che è chiaro è che, in Marx, la prima svolge un ruolo egemonico sulla seconda: la forza produttiva del capitalismo si è imposta in maniera necessaria e ha comportato il mutamento rivoluzionario dei rapporti di produzione: quando ormai le forze produttive moderne e, in certo senso, capitalistiche si erano già affermate, la Rivoluzione Francese non ha fatto altro che spazzare via gli antichi rapporti sociali di tipo feudale per far irrompere sullo scenario storico quelli borghesi, nei quali è ora proiettato il moderno scontro di classe tra borghesi e proletari .

La prospettiva weberiana è di segno opposto: dando la precedenza agli elementi sovrastrutturali, Weber è convinto che il capitalismo sia il frutto più genuino di quel processo di crescente razionalizzazione che caratterizza l’Occidente; le cause del capitalismo debbono essere ricercate non nelle condizioni materiali ed economiche, ma nella più alta sfera delle idee. In particolare, nelle pagine de L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, egli addiviene all’ardita conclusione che il Geist del capitalismo è sorto come conseguenza dell’etica protestante: essendo la salvezza per i Protestanti decretata da Dio ab aeterno (“giustificazione per fede”), essi ne cercavano gli indizi nel loro successo professionale. Il presupposto su cui poggiavano le loro convinzioni era che, dal successo nel lavoro, si potesse inferire il proprio essere graditi a Dio. Avveniva in tal maniera una vera e propria identificazione tra professione lavorativa e professione di fede: questo punto chiave appare con la massima evidenza nel termine tedesco Beruf, che significa tanto “lavoro” quanto “vocazione”. Quella che il protestante intraprende è dunque un’autentica “ascesi intramondana” per cui egli è strumento di Dio nel mondo: chi lavora con dedizione per tutta la propria vita e riscuote grande successo accumulando ingenti ricchezze, può ritenersi, in forza di tale successo, salvato da Dio. Il lavoro (Beruf) è la sua vocazione (Beruf). Ciò appariva tanto più evidente se si raffrontava il grande sviluppo capitalistico nei Paesi di confessione protestante all’arretratezza dei Paesi di religione cattolica. Da questi presupposti sovrastrutturali nasce secondo Weber il capitalismo: crollato lo spirito dell’ascesi proprio dei Protestanti, è rimasto solo quello del capitalismo. La preoccupazione per i beni, che in origine era solo un “mantello sottile”, si è fatalmente trasformata in quella “gabbia d’acciaio” che è il capitalismo contemporaneo, per cui i beni esercitano un potere “ineluttabile sull’uomo, come mai prima nella storia” [7].

Agli occhi di Weber, il grande errore commesso da Marx dev’essere rintracciato, più che nel peso preponderante attribuito alla struttura, nell’errato rapporto con la scienza: essa è stata da Marx impiegata come vernice per coprire e legittimare i suoi convincimenti morali, le sue credenze personali, la sua lettura filosofica del mondo; la scienza come l’ha intesa Marx è al confine con la fede, giacché, oltre a non essere critica e distaccata dall’oggetto della sua indagine, le mancano i presupposti avalutativi che, soli, possono garantire la scientificità di una teoria. Non è un caso che il filosofo di Treviri, nel tratteggiare il funzionamento del sistema capitalistico, gli stia già anche apertamente dichiarando guerra, sostenendo la sua imminente caduta e, al contempo, incitando il proletariato ad adoperarsi perché ciò avvenga. La contraddizione latente nel marxismo è insomma quella di volersi presentare come una scienza e, al contempo, mantenere i caratteri propri di una fede e di un’etica (per di più di un’etica dei princìpi, non della responsabilità), facendo convivere in sé elementi autoelidentisi: o la scienza o la fede, tertium non datur. In bilico tra il “freddo” della scienza e il “caldo” dell’umanismo [8], Marx fa esattamente quel che il vero scienziato deve guardarsi bene dal fare: formula giudizi di valore, fantastica società future, liquida le ideologie in nome di una nuova ideologia. Inoltre Marx ha indebitamente assolutizzato il punto di vista economico, facendone il solo punto di vista valido sul mondo: quello che era un possibile metodo di ricerca si è così capovolto in un vero e proprio dogma che ha reso il marxismo una teoria scientificamente improponibile e tutt’al più accettabile come nuova fede. In quel caleidoscopio di valori e di scorci sul mondo che caratterizza l’Età moderna e che Weber stesso ha battezzato col nome calzante di “politeismo dei valori”, quello economico è uno dei tanti possibili punti di vista che si possono assumere. Proprio in forza di questa surrettizia assolutizzazione, la concezione materialistica della storia, secondo Weber, “predomina oggi soltanto nella testa di profani e di dilettanti” [9]. E proprio in rottura con l’egemonia concessa da Marx all’economia, Weber sostiene l’esistenza di un reciproco condizionamento dei fattori storici, tale per cui è vero sia che i fenomeni economici condizionano quelli extraeconomici sia il contrario (come attesta il caso dell’etica protestante). Per far chiarezza su questo punto cardinale, Weber opera un’attenta distinzione tra i “fenomeni economici” stricto sensu, i “fenomeni economicamente rilevanti” (come le etiche religiose) e i “fenomeni economicamente condizionati” (quelli cioè che sono determinati dall’economia). In questo modo, crolla definitivamente la pretesa marxiana di risolvere l’intera vita dell’uomo e la storia nei fattori economici.  

Proprio queste sono le aspre critiche a cui Löwith stesso – memore della lezione weberiana  –  sottoporrà il marxismo, soprattutto in Significato e fine della storia: qui Marx è qualificato coi poco lusinghieri aggettivi di “dogmatico” e di “idealista”, coi quali Marx stesso non esitava a tacciare i suoi avversari. Il grande errore commesso da Marx risiede, secondo Löwith, nell’aver tratteggiato una vera e propria filosofia della storia che, come ogni filosofia della storia in quanto tale, non può in alcun caso presentarsi come scienza; infatti, come Löwith argomenta tanto nell’Introduzione a Significato e fine della storia quanto in Storia e fede, quelli su cui poggia ogni filosofia della storia sono i “presupposti teologici” di un fine ultimo a cui tutta la storia tenderebbe e che le conferirebbe un senso compiuto, legittimando la fede e la speranza – due atteggiamenti degni più del credente che non del filosofo – nel futuro. A differenza degli antichi Greci, che si erano limitati a concepire la storia come un’enunciazione cronachistica degli eventi e pertanto l’avevano liquidata come addirittura meno filosofica della tragedia [10] (in virtù del fatto che quest’ultima ha il pregio di guardare all’universale), i filosofi successivi al cristianesimo non hanno fatto altro che far propri, seppur in forma secolarizzata, i “presupposti teologici” ed escatologici della concezione cristiana della storia, tutta proiettata verso un futuro a cui si tende progressivamente e in cui risiede il vero senso dell’intero processo storico. Dal tempo circolarmente inteso dei Greci si è dunque passati, col cristianesimo, al tempo concepito come una linea che avanza senza sosta e che tende ad un fine alla luce del quale leggere l’intero processo storico. Se lo storico greco si chiedeva “come si è giunti a ciò?”, quello moderno si chiede “come andrà a finire?”: sicché la prospettiva storica fatta valere dalla Modernità, hegelianamente intesa come una conversione dal cielo alla terra, non è se non una mondanizzazione della “teologia della storia del procursus agostiniano verso il regno di Dio” [11], con la conseguenza che ci si è paradossalmente trovati a tentare di orientarsi nel bel mezzo della storia non diversamente da un naufrago che cercasse un punto di appoggio sulle onde [12]. Se Burkhardt è il più agguerrito nemico di questo atteggiamento secolarizzato (ed è per questo innalzato da Löwith a suo modello), Marx ne è invece il campione: il senso della storia riposa tutto in un futuro non ancora affiorato e che bisogna far affiorare dalle ceneri di un capitalismo ormai barcollante e ineluttabilmente destinato al tramonto; non è un caso che il filosofo di Treviri etichetti l’intera storia, dal paleolitico ad oggi, come una “preistoria”, a segnalare come la vera storia debba ancora cominciare: essa sorgerà nel momento in cui, abbattuta la società capitalistica, verrà meno lo scontro di classe e, con esso, lo Stato, da Marx ed Engels inteso come strumento del dominio esercitato da una classe sulle altre. Agli occhi di Löwith, la prospettiva marxiana è profetica più che materialistica, morale più che empirica, incentrata più sulla speranza che sulla scienza, la quale – come già aveva messo in luce Weber – non costituisce che una vernice legittimante i presupposti fideistici del marxismo. Sulla scia di queste osservazioni, Löwith può rilevare, non senza indignazione, che “il Manifesto del partito comunista è anzitutto un documento profetico, un verdetto e un invito all’azione, ma non è assolutamente un’analisi puramente scientifica fondata su dati empirici” [13]. Per suffragare la sua tesi, Löwith fa notare come lo stesso termine “sfruttamento”, che Marx cerca di giustificare scientificamente con la teoria del plusvalore, resti necessariamente ancorato ad una sfera morale che nulla ha a che vedere con quella propriamente scientifica, che ha da essere apartitica e moralmente super partes. Per asserire che lo sfruttamento sia ingiusto, occorre infatti far riferimento a una ben delimitata idea della giustizia in senso assoluto: ma in tal modo si valicano i confini della scienza e si passa al regno della morale e delle sue prescrizioni. La contraddittoria conseguenza è che Marx ha liquidato tutte le altre teorie della società e tutti i punti di vista non-proletari come “ideologici”, ritenendo non ideologica e dunque verace solo la sua teoria e il punto di vista dei proletari, senza accorgersi che erano anch’essi una forma di ideologia mirante a ben determinati interessi: poiché totalmente alienato, privato dei privilegi borghesi e posto al di fuori della società esistente, il proletariato si trova secondo Marx in una condizione non ideologica e tale da poter redimere l’intera società. Il mondo capovolto che egli vede rispecchia secondo Marx non già una particolare prospettiva sul mondo, bensì il suo effettivo essere capovolto. La stessa idea che la storia evolva dialetticamente per lotte di classe testimonia un evidente abbandono dei canoni scientifici: dietro alla concezione apparentemente empirica e scientifica fatta valere da Marx si nasconde, secondo Löwith, un evidente messianesimo che solo in apparenza contrasta con l’ateismo e l’antisemitismo del rivoluzionario di Treviri. L’intero processo storico che egli delinea non è altro che una riproposizione, addirittura potenziata rispetto a Hegel, dello schema generale dell’interpretazione ebraico-cristiana della storia come “divenire provvidenziale della salvezza verso un fine ultimo dotato di senso” [14]: spia di questa insospettata prigionia entro gli schemi teleologici e messianici è il fatto che per Marx tutta la storia tenda a un fine, si risolva in un progresso graduale, implichi una futura salvezza, induca a vivere nella fede e nella speranza verso l’avvenire. Egli adopera la scienza come mero strumento per poter guadagnare la certezza di ciò in cui ripone le sue speranze e per poterle così contrabbandare come valide ai pensatori del suo tempo, che – muovendosi in una prospettiva fortemente positivistica –  credevano solo a quel che la scienza decretava vero. Sicché il marxista si trova sempre e di nuovo in bilico tra l’atteggiamento colmo di speranza del credente che spera in una futura salvezza e l’atteggiamento dello scienziato disincantato che sa con certezza che il capitalismo cadrà con la stessa necessità con cui cade un grave lasciato precipitare. Gli stessi scritti di Marx sono intessuti di questa ambivalenza contraddittoria per cui, da un lato, egli delinea con rigore scientifico il necessario crollo del capitalismo e, dall’altro, esorta con toni messianici i proletari a combattere contro il capitalismo e contro la borghesia, quello stregone che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui stesso evocate [15]. A tal proposito, Löwith nota [16] acutamente che Marx non sarebbe certo riuscito ad entusiasmare milioni di seguaci con la pura e semplice constatazione di una situazione di fatto scevra della vocazione messianica e dai toni fideistici. Del resto, le sempre nuove modifiche apportate dai successori di Marx alla teoria originaria, per portarla all’altezza dei tempi o per giustificarne gli errori di previsione, ne dimostrano la mancata scientificità, il suo – per dirla con Popper –  non poter mai essere falsificata.

Le aporie della concezione materialistica della storia furono già avvertite da Marx stesso – nota Löwith – allorché si trovò a discutere [17] dell’arte greca e del fascino che essa ancora esercita su di noi: come è possibile che l’elemento sovrastrutturale di una cultura ormai superata dalle nuove condizioni materiali possa ciò non di meno esercitare una sua influenza su di noi? Mutata la struttura, non dovrebbe essere mutata anche la sovrastruttura? In altri termini, non dovrebbe piacerci solo l’arte a noi contemporanea, frutto della struttura in cui ci troviamo proiettati e consona alla temperie culturale in cui viviamo? La soluzione marxiana al problema appare a dir poco deludente: ad avviso di Marx, infatti, il rapporto tra sviluppo della produzione materiale e sviluppo della produzione artistica non è del tutto parallelo, cosicché, nonostante le mutate condizioni materiali e sociali, i prodotti dell’arte greca, con la loro “eterna giovinezza”, sono ancora oggi oggetto di godimento estetico e ci affascinano non meno di quanto affascinassero i Greci stessi. Oltre a riscontrare la problematicità e la contraddittorietà di questa soluzione (che di fatto fa scricchiolare la teoria marxiana del rapporto dialettico struttura/sovrastruttura), Löwith mette in luce come essa possa essere anche applicata ad un problema affine che, propriamente, non orbitava negli interessi di Marx: come è possibile che l’antico messianesimo eserciti ancora un richiamo così potente per i filosofi moderni e sia il paradigma secolarizzato del materialismo storico marxiano? Anche il messianesimo gode di un’eterna giovinezza e di un intramontabile fascino tali per cui, anche se mutate le condizioni strutturali, esso continua non di meno ad incidere in maniera decisiva? La risposta löwithiana (ma in buona parte già weberiana) è che nel marxismo tanto la scienza quanto il materialismo siano solo una facciata che occulta ma non elimina la tensione escatologica e religiosa di una filosofia della storia che più di ogni altra ripropone il tema agostiniano del procursus e della salvezza finale, a tal punto che “in confronto a Marx la filosofia di Hegel è realistica” [18].           

Esaminata la genesi del capitalismo in Marx e in Weber, occorre ora esaminare come i due lo intendano e come si comportino dinanzi ad esso: per Marx – memore della figura del servo e del padrone nella Fenomenologia dello spirito – la società capitalistica è il regno dell’alienazione, ossia dell’estraniazione più totale dell’operaio; un’estraniazione che, secondo la puntuale analisi dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, avviene nei riguardi del prodotto del proprio lavoro di fabbrica, nei riguardi di se stesso e nei riguardi della propria Gattungswesen, ossia della propria essenza generica di uomo. Ma le leggi economiche che reggono l’ordinamento capitalistico non sono eterne, come credevano gli economisti classici (Adam Smith più di ogni altro), ma sono piuttosto qualcosa di storico che, in quanto tale, è destinato ad essere superato (aufgehoben) per via delle contraddizioni che in esso si annidano e che Marx smaschera una dopo l’altra nel Capitale. In quanto dominio dell’uomo sull’uomo, la fase capitalistica è dunque destinata ad essere sorpassata: questo superamento si caratterizza come un passaggio da un “regno della necessità” in cui l’uomo è servo della merce e dei padroni ad un “regno della libertà” [19] scaturente dall’instaurarsi della futura società comunistica attraverso una transitoria fase di dittatura del proletariato. Quel che più colpisce è come Marx, che ha descritto con impareggiabile precisione la società capitalistica e le sue storture, fornisca poi descrizioni a dir poco imbarazzanti di quello che sarà il tanto atteso “regno della libertà”, giungendo addirittura a tratteggiare l’arcadico scenario di una società che

 

“regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, cosí come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico” [20].

 

Sull’altro versante, Weber propone una soluzione diametralmente (ed intenzionalmente) opposta a quella marxiana: lo sviluppo singolare (Sonderentwicklung) della civiltà occidentale, a suo avviso, è stato occasionato da un processo di crescente razionalizzazione sconosciuto ad ogni altra civiltà e favorito dal fatto che quello cristiano è un Dio assolutamente trascendente, che non ha dimora in questo mondo e che dunque rende possibile un’indagine oggettiva e disincantata della realtà terrena. È in questo modo che si è sviluppato sempre più l’agire razionale, nella sua duplice veste di agire razionale rispetto allo scopo e di agire razionale rispetto al valore. In quest’ottica, il capitalismo non è che il frutto del processo di razionalizzazione e dell’agire razionale rispetto allo scopo. E la graduale razionalizzazione ha condotto, secondo Weber, a un vero e proprio disincantamento del mondo (Entzauberung der Welt), tale per cui il mondo è andato vieppiù svuotandosi degli dèi, delle tante forze misteriose che lo popolavano, dell’aura magica che lo avvolgeva, trasformandosi in semplice oggetto e teatro dell’agire umano. Più precisamente, la crescente razionalizzazione, che contraddistingue la Modernità e che ne costituisce la cifra più autentica, fa sorgere il disincanto nella misura in cui ci permette di “dominare tutte le cose mediante un calcolo razionale” [21], senza essere succubi di quelle forze misteriose e trascendenti che ormai non hanno più cittadinanza in questo mondo. Il tema del disincanto compare con sorprendente frequenza negli scritti [22] di Weber, che se ne avvale nei contesti più disparati: così, nel saggio sull’etica protestante, il concetto viene introdotto per mettere in luce come, con la religione protestante, si sia definitivamente abbandonata la magia come mezzo di salvezza; negli studi sull’etica economica delle religioni, il disincanto fa la sua comparsa allorché Weber traccia la storia dell’abbandono del mondo primitivo e dell’animismo in forza del razionalismo religioso e allorché egli delinea la graduale secolarizzazione che ha investito l’Occidente e che ha sottratto gli ordinamenti della vita al controllo della religione. È però nell’età contemporanea (grazie all’impiego della tecnica e della scienza, che come effetto sortiscono una sempre maggiore intellettualizzazione del mondo) che il disincanto trova il suo più fertile terreno di sviluppo, concretizzandosi nell’agire razionale rispetto allo scopo più che nell’agire razionale rispetto al valore: il capitalismo segna per l’appunto il trionfo della “razionalità formale” e, di conseguenza, del disincanto di un mondo ormai ridotto a teatro dell’agire umano in vista di ben determinati scopi. E in quest’ottica, il capitalismo, secondo Weber, può essere definito come un particolare tipo di società caratterizzata dalla ricerca razionale dei profitti, dall’organizzazione razionale del lavoro formalmente libero, dallo scambio di mercato razionale, da procedure razionali di contabilità, da sistemi politici e legali razionali. Esso non è che il trionfo della razionalità in ogni campo.

Quello che per Marx era la quintessenza dell’ingiustizia, dell’alienazione e della reificazione, garantita peraltro non già da particolari norme giuridiche (come avveniva per la servitù nell’età feudale), bensì dallo stesso funzionamento capitalistico (per cui l’operaio è assolutamente libero di vendere la propria forza-lavoro o di morir di fame), per Weber è invece l’inaggirabile esito del processo di razionalizzazione che ha coinvolto tutti i settori (l’economia, il diritto, lo Stato, l’arte, il lavoro, ecc) senza alcuna esclusione. Sicché il capitalismo, non meno della scienza di cui Weber tratta nella conferenza del 1919, è un Beruf, una vocazione dell’Occidente sopravvenuta in maniera fatale e dunque inevitabile. In particolare, un ruolo di fondamentale importanza nel preparargli il terreno è stato svolto dalla scienza stessa, che della razionalizzazione è il punto d’approdo: a differenza dell’opera d’arte, la quale compendia entro sé una perfezione insuperabile perché definitivamente compiuta, l’indagine scientifica è destinata ad essere sempre e di nuovo superata da ulteriori indagini che ne smascherano i difetti o che ne approfondiscono le intuizioni, innescando un processo potenzialmente senza fine. Concretamente, in questo processo di graduali acquisizioni destinate ad essere immancabilmente superate dagli scienziati del futuro, la vera essenza della scienza è racchiusa nel motto di Bacone per cui “sapere è potere”; tale motto spalanca le porte al disincanto del mondo nella misura in cui, almeno in linea di principio, prospetta la possibilità di una conoscenza incontrastata e senza limiti, destinata a non essere ostacolata da presunte forze misteriose e incalcolabili. Si capisce in questo modo perché, per Weber, l’ateismo sia oggi l’unico modo di pensare realmente onesto e disincantato: ed egli fu, più di ogni altro, l’eroe di questo atteggiamento. Ma la Modernità, questo inarrestabile processo che tutto razionalizza, tende poi a capovolgersi tragicamente e a far risorgere gli antichi dèi della Grecia, di cui si illudeva di essersi sbarazzata in via definitiva: infatti – nota Weber – ciascuna delle realizzazioni dell’età moderna finisce per rispondere solamente a sé, smarrendo ogni punto di contatto con le altre realizzazioni, con la paradossale conseguenza che ciò che è buono non per questo è anche vero, ciò che è bello non per questo è anche buono, ecc. Si attua cioè un autentico frazionamento dei valori o, per usare l’espressione di Weber, un “politeismo dei valori” dinanzi al quale l’individuo può chinare il capo ad uno dei tanti dèi trascurando gli altri. In questo desolante scenario in cui i valori convivono senza comunicare tra loro, si realizza un tragico smarrimento del senso e della libertà: ci troviamo pertanto a vivere prigionieri di una “gabbia d’acciaio”, ma è in essa che dobbiamo condurre la nostra esistenza sperimentando fino in fondo le chances di libertà che ancora ci restano. Anche per Marx, in ultima analisi, la società capitalistica veniva a configurarsi come una prigione: ma per il pensatore della rivoluzione, vittima della malia hegeliana del superamento dialettico, si trattava di evadere forzando le sbarre e realizzando una vita più umana e improntata alla libertà; al contrario, in Weber regna l’accettazione dello status quo: è in questa “gabbia d’acciaio” che si dà la possibilità di sperimentare fino in fondo la libertà. Quello di Weber è stato significativamente presentato come un “individualismo eroico”, che accetta, senza opporsi, come destino il frazionamento dei valori.

 Proprio il suo disincanto, il suo esser privo di illusioni e di chimere, ritenute un inutile orpello da rigettare virilmente (männlich),  fu ciò che indusse Löwith ad eleggerlo a suo maestro spirituale. E sulle orme di Weber, Löwith intrattiene con il reale un rapporto meramente teoretico, senza per ciò cedere a una deleteria forma di acquiescenza verso lo status quo, nei confronti del quale mai rinnega l’atteggiamento critico proprio di uno scettico. Alla soluzione di Marx, che cerca utopicamente un superamento del capitalismo rivelando in tal modo la propria incapacità di affrontare la realtà nella sua datità, Weber contrappone il disincantato atteggiamento di chi affronta, senza speranza e senza dèi, la realtà presente guardandola in faccia. In omaggio a Weber e col suo stesso stile sobrio e privo di illusioni, Löwith chiude così il suo saggio Max Weber e il disincanto del mondo:

 

“Io credo che non tutti – e forse nessuno tra di noi – abbia in dote un simile daimon, che in Weber era nettamente percepibile, perché un tale dèmone contraddistingue solo gli uomini non comuni, significativi. Il nostro mondo moderno è tanto ricco di intelligenze medie e di talenti mediocri, e così povero di vera grandezza e maturità umana, che dobbiamo essere grati di averle incontrate anche una sola volta” [23].

 

 

 

DIEGO FUSARO, 13.01.2005

 

 

 

 



[1] Cfr. Löwith, Storia e fede, Laterza 1985.

[2] Löwith, Max Weber e Karl Marx, in Marx, Weber, Schmitt. Laterza 1994. Pag.4.

[3] Marx, Critica della filosofia del diritto di Hegel, Introduzione. In Annali franco-tedeschi, Ed. del Gallo, Milano, 1965, pagg. 134-135.  

[4] Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, a cura di P. Burresi, Sansoni, Firenze, 1965.

[5] cfr. Löwith, Jacob Burkhardt, l’uomo nel mezzo della storia. Laterza 1991.

[6] Marx, Per la critica dell’economia politica. Prefazione, in Opere complete di Marx-Engels, Roma, Editori Riuniti, vol. XXX, pp. 298-99.

[7] Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, a cura di P. Burresi, Sansoni, Firenze, 1965. Pag 185.

[8] Cfr. E. Bloch e la sua distinzione tra “marxismo caldo” e “marxismo freddo”, in Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli, Milano, 1983, pagg. 327-328.

[9] Weber, Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali. Edizioni di Comunità, Torino 2001. Pag. 167

[10] cfr. Aristotele, Poetica, 1451 B e seguenti. 

[11] Löwith, Storia e fede, pag. 151.

[12] Löwith, Marxismo e storia, pag. 345.

[13] Löwith, Significato e fine della storia, Edizioni di Comunità 1963, pag.63.

[14] Ibidem, pag. 65.

[15] Marx e Engels, Manifesto del partito comunista, Laterza 1999, pag 13.

[16] Ibidem.

[17] Marx, Introduzione a Per la critica dell’economia politica.

[18] Löwith, Significato e fine della storia, pag.72.

[19] Marx, Il capitale, vol. III, Roma, Editori Riuniti, 1974, pag. 933.

[20] Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972, pag. 24.

[21] Weber, Scienza come professione, Edizioni Comunità 2001, pag.17.

[22] cfr. P.P. Portinaro, Max Weber. La democrazia come problema e la burocrazia come destino, Franco Angeli 1987, pag.44.

[23] Löwith, Max Weber e il disincanto del mondo, in Marx, Weber, Schmitt. Laterza 1994. Pag.121.


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