MAO TSE-TUNG

 

A cura di Diego Fusaro

 




"Il mondo è vostro quanto nostro, ma, in fin dei conti, è a voi che appartiene. Voi giovani siete dinamici, in piena espansione, come il sole alle otto o alle nove del mattino. In voi risiede la speranza. Il mondo appartiene a voi. A voi appartiene l'avvenire." (Conversazione con alcuni giovani, 17.11.1957).


 

LA VITA

 

MAO TSE-TUNGRivoluzionario, pensatore e uomo politico cinese, Mao Tse_Tung (o Mao Ze-Dong) nacque a Shaoshan, Hunan, nel 1893, figlio di contadini relativamente benestanti; fu allevato secondo i metodi tradizionali della piccola borghesia rurale cinese, alternando lo studio al lavoro della terra del padre e sposandosi non ancora adolescente.
Per sfuggire all'opprimente ambiente familiare, poco più che quattordicenne si arruolò volontario nell'esercito repubblicano di Sun Yat-sen, che lasciò dopo un anno per dedicarsi agli studi di istitutore.
Dopo essersi diplomato alla scuola normale di Changsha (Hunan) [1918], trascorse un breve soggiorno a Pechino per seguire alcuni corsi universitari e qui ebbe i suoi primi contatti con il nascente movimento marxista cinese e in particolare con l'economista Li Ta-chao e il futuro segretario del partito comunista Ch'en Tu-hsiu.
Ritornato nel 1919 a Changsha partecipò attivamente all'organizzazione del movimento rivoluzionario dello Hunan e nel 1920 fondò i primi circoli marxisti locali, dai quali fu poi delegato al congresso costitutivo del partito comunista cinese (conferenza di Sciangai, 1921).
Dopo le repressioni anticomuniste condotte da Chiang Kai-shek (1927), che eliminò numerosi quadri del partito comunista imputato di eccessi contro i civili nelle città che venivano occupate dall'esercito nazionalista, Mao intraprese l'organizzazione della lotta partigiana nella zona montagnosa di Ching-kang shan, al confine tra lo Hunan e il Jianxi. Qui, dopo aver gettato le basi dell'esercito rosso e aver introdotto misure di riforma agraria, fondò una Repubblica sovietica di cui divenne presidente (1931), sottraendosi al controllo del comitato del PCC e del Comintern.
Nel biennio 1934-1935 comandò la 'lunga marcia' durante la quale riuscì a imporre la propria linea di condotta al partito, che lo elesse presidente dell'ufficio politico (gennaio 1935). Alla vigilia dell'aggressione giapponese, in seguito a un incontro con Chiang Kai-shek, che era prigioniero a Xi'an, Mao riuscì a indurre il capo effettivo del Kuo-min tang a una tregua, come prezzo della sua liberazione, per opporre un fronte comune contro i Giapponesi.
Falliti i tentativi di mediazione, la guerra civile riprese con violenza (1946), e mentre Chiang Kai-shek, con i resti del suo esercito, si ritirava a Formosa (Taiwan), Mao proclamò il 1º ottobre 1949 a Pechino la Repubblica Popolare Cinese della quale venne eletto primo presidente.
Da quel momento Mao, riservatasi la presidenza del partito, promosse una campagna di denuncia dei gruppi di 'opportunisti di destra' dentro e fuori del partito che 'sabotavano' la costruzione del socialismo in Cina. Avvenuta la rottura con Mosca che ritirò gli esperti sovietici dalla Cina (luglio 1960), Mao, (settembre 1962), propose di intensificare la lotta contro il revisionismo di Krusciov a livello mondiale e la lotta contro 'i dirigenti degenerati' in Cina attraverso un 'movimento d'educazione socialista', che durò sino al 1966.
Nel corso di quell'anno, Mao approvò la pubblicazione del primo giornale murale (dazibao), redatto all'università, che attaccava violentemente il sindaco di Pechino Peng Cheng e, indirettamente, lo stesso presidente della repubblica Liu Shao-chi.
Gli eventi successivi, come la misteriosa scomparsa di Lin Piao, in seguito accusato di tradimento, e il nuovo indirizzo della politica estera cinese, ridimensionarono il successo di Mao, che cedette sempre più la direzione politica del paese al 'numero due', il primo ministro Chou En lai, leader dei moderati. Il culto della sua personalità proseguì anche dopo la sua morte e venne inizialmente sostenuto dal nuovo gruppo dirigente, proprio contro i veri continuatori della politica del presidente, i radicali che furono successivamente arrestati e bollati come gruppo antimaoista, dopo essere stati definiti la “banda dei quattro”.
Nel 1977 venne costruito al centro della piazza Tien an' men, a Pechino, un grande mausoleo per la sua salma imbalsamata.

 

 

IL PENSIERO


Con la figura di Mao Tse-Tung ci troviamo di fronte, non meno che con Lenin, ad una concretizzazione (molti preferiscono parlare di “trasfigurazione”) della prassi rivoluzionaria teorizzata da Marx e da Engels, ai quali Mao direttamente si richiama. L’esperienza del comunismo cinese ha avuto un ruolo decisivo anche in forza dell’influenza esercitata sull’Occidente, nella misura in cui (soprattutto nel periodo di rottura tra URSS e Cina, nel 1959-61) molte frange studentesche e molti dissidenti dei partiti comunisti hanno assunto il maoismo come modello. Mao partecipa attivamente alla fondazione del Partito Comunista Cinese (1921), e per qualche anno, attenendosi rigorosamente alla precettistica marxiana, è convinto che il protagonista della rivoluzione debba essere il proletariato urbano. Ma se Marx, soprattutto nel Capitale, puntava sulla classe operaia urbana, è perché si riferiva ad una realtà avanzata quale quella inglese: ora, nella Cina in cui Mao si trova a operare, non meno che nella Russia in cui operava Lenin, il proletariato urbano è una realtà pressoché inesistente, data l’arretratezza del Paese (in Cina il settore trainante era, com’è noto, quello agricolo). Si tratta cioè di trapiantare Marx in un mondo di contadini. Sicché, soprattutto dopo la dissoluzione del Partito (1927) e la sanguinaria repressione organizzata da Chiang Kai-Shek (leader del Kuomintang, ossia del Partito nazionalista cinese con cui, fino ad allora, i comunisti erano stati alleati), Mao matura la convinzione che in Cina la Rivoluzione debba caratterizzarsi essenzialmente come “rivoluzione contadina” ed essere condotta per “accerchiamento” delle città da parte delle campagne; queste ultime devono essere trasformate in veri e propri epicentri della prassi rivoluzionaria. Seguendo questa sua innovativa lettura del marxismo, Mao, a partire dal 1929, promuove la creazione in campagna di “basi rosse”, dotate di proprie milizie, di vere e proprie cellule di uno Stato comunista in statu nascendi dal basso. Spetterà alla “lunga marcia” del 1934 a fare di Mao il leader indiscusso del Partito comunista cinese: con tale marcia, com’è noto, Mao condusse l’esercito rosso dalla Cina centrale alle regioni nord-occidentali del continente, in maniera da sfuggire alle truppe di Chiang. Quando il Giappone aggredirà la Cina (1937), le “due Cine” – quella di Chiang e quella di Mao – stringeranno un’alleanza (la versione cinese della politica dei “fronti popolari”) contro l’invasore, alleanza che si conserverà per l’intero periodo della guerra mondiale. Quando terminerà il conflitto bellico, riprenderà, con toni inaspriti, la guerra civile in Cina, che si concluderà soltanto nel 1949 col trionfo di Mao e con l’unificazione dell’intera Cina sotto il regime comunista. A seguito del consolidamento del potere, Mao avviò una fase di collettivizzazione rapida e forzata, che durò all'incirca fino al 1958. Il PCC introdusse un controllo dei prezzi che riuscì con ampio successo a spezzare la spirale inflattiva della precedente Repubblica di Cina, ed una semplificazione della scrittura cinese che mirava ad aumentare l'alfabetizzazione. La terra venne ridistribuite dai proprietari terrieri ai contandini poveri e vennero intrapresi progetti di industrializzazione su larga scala, che contribuirono alla costruzione di una moderna infrastruttura nazionale. Durante questo periodo la Cina sostenne incrementi annui del PIL del 4-9%, oltra a un drastico miglioramento degli indicatori della qualità della vita, quali aspettativa di vita e alfabetizzazione. Il PCC adottò inoltre delle politiche intese a promuovere la scienza, i diritti delle donne e delle minoranze, combattendo al tempo stesso l'uso di droghe e la prostituzione. Il pensiero marxista di Mao trova espressione soprattutto in tre scritti: Sulla pratica, Sulla contraddizione (1937) e Sulle contraddizioni in seno al popolo (1957). Senza apportare grandi novità al “materialismo dialettico” di Marx, Engels e Lenin, questi scritti risultano curiosamente innervati dello spiritualismo confuciano della tradizione cinese e rappresentano una riflessione autonoma rispetto a quella staliniana. Contrario a ogni irrigidimento dogmatico, Mao si richiama senza sosta agli insegnamenti della praxis e sostiene esplicitamente che, per qualsiasi problema (perfino quelli teorici), è necessario assumere la prassi come punto di partenza: ciò in base all’assunto (formulato in Sulla pratica) secondo cui “la conoscenza comincia con la pratica, raggiunge attraverso la pratica il piano teorico e deve poi ritornare alla pratica”. Il ritorno alla pratica è finalizzato a rinvenire in essa le conferme della teoria, ma anche e soprattutto, in un’ottica schiettamente marxiana, a dar vita ad un’azione trasformatrice della realtà esistente. Come aveva insegnato Hegel ancor prima di Marx, la realtà è intessuta di contraddizioni: ma essa non deve assolutamente essere imprigionata in schemi astratti e meramente concettuali; si tratta piuttosto di restare ancorati alla realtà, sottolineandone la determinatezza e l’incessante diversità che la caratterizza lungo il volgere dell’esperienza. Mao fa notare come, non appena la contraddizione presente sia stata risolta con la soppressione di uno dei due opposti, essa risorga e si ripresenti nella nuova situazione raggiunta: in ciò dev’essere individuata l’eredità taoista del divenire universale, oltre che l’idea di Trockij secondo cui la rivoluzione, per potersi affermare, deve assumere la forma di una “rivoluzione permanente”. Soprattutto con il saggio del ’57, Sulle contraddizioni in seno al popolo, Mao matura quest’idea della contraddizione, spingendola in direzione antistaliniana (siamo negli anni del XX Congresso del PCUS), ancorché egli non attacchi mai esplicitamente Stalin né aderisca al processo di destalinizzazione avviato in quegli anni nei Paesi dell’Est. Mao distingue attentamente tra “contraddizioni principali e antagonistiche” (quelle dello scontro di classe) e “contraddizioni secondarie e non antagonistiche” (quelle che nascono in seno ad uno stesso partito, tra le diverse linee emergenti): nel caso in cui le “contraddizioni secondarie e non antagonistiche” si cristallizzino e si radicalizzino, esse diventano a loro volta contraddizioni antagonistiche; ma il partito rivoluzionario, secondo Mao, non deve in alcun caso soffocare gli antagonismi, pena il ricadere in un organismo burocratico e autoritario. Il partito deve anzi favorire le contraddizioni a sé interne: ed è sulla scia di questa convinzione che Mao, nel 1956, lancia la cosiddetta “politica dei cento fiori”, che però già nel 1957 assume una piega decisamente meno liberale. La politica dei cento fiori consiste nell’incoraggiamento della fioritura di libere discussioni nell’ambito dell’arte e della scienza. Ancor più che dai suoi scritti, le novità che Mao apporta al marxismo affiorano dalla sua prassi: in particolare, nell’opera che svolse nei decenni postrivoluzionari, allorché sorse il problema di costruire il socialismo in quello Stato arretrato e agricolo che era la Cina (ipotesi notoriamente non previste da Marx). Soprattutto avviando la cosiddetta “rivoluzione culturale”, nel 1965, destinata a durare per un quinquennio, Mao elaborò quella ricca serie di accorgimenti, di strategie e di precetti che vanno sotto il nome di “maoismo”: l’obiettivo era anche quello di contrapporsi all’URSS, con la quale la Cina aveva ormai rotto (soprattutto con la scelta delle “comuni agricole” e del cosiddetto “balzo in avanti” del 1958). Mao si propose anche di dare una soluzione all’annoso problema del rapporto tra struttura e sovrastruttura, lasciato in eredità da Marx stesso. Rigettando l’idea che socialismo equivalga tout court a negazione della proprietà privata e dei mezzi di produzione, Mao resta fedele a Marx e sostiene che la struttura coincide con l’insieme dei rapporti sociali di produzione; la conseguenza è che la struttura non include esclusivamente la forma giuridica della proprietà, ma anche lo sviluppo delle forze produttive, la divisione del lavoro, il rapporto tra uomo e natura, tra uomo e macchina, tra uomo e uomo. Ne segue allora che il rapporto tra struttura e sovrastruttura non è il rapporto tra due componenti separate e autonome, ma piuttosto un rapporto in cui la sovrastruttura è intrinseca alla struttura materiale della società, ed è dunque inseparabile da essa. Da ciò scaturisce una concezione del processo rivoluzionario alternativa a quella sovietica: la rivoluzione è una trasformazione radicale e indivisibile, nel rapporto di produzione, dei rapporti sociali nella loro intera complessità. In forza di questa prospettiva, Mao rigetta il modello sovietico di accumulazione e sviluppo economico, incentrato sull’idea che un processo di rapida industrializzazione porterebbe automaticamente a una società socialista, secondo il motto di Lenin: “elettrificazione + soviet = socialismo”. Questo schema sovietico si rivela agli occhi di Mao catastrofico sotto due diversi aspetti: da un lato, crea una voragine tra industria e agricoltura, tra città e campagna, generando nuove disuguaglianze sociali ed economiche, dando vita ad un gruppo elitario di tecnici e scienziati, riproponendo, in forma enfatizzata, la dicotomia tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. Dall’altro lato, il modello sovietico genera una classe di burocrati separati dal popolo e privilegiati, e commette l’errore di assumere la scienza e la tecnica come paradigmi del tutto neutri e socialmente validi. Riducendo il concetto all’estremo, il modello sovietico ripropone in tutto e per tutto lo stesso modello capitalistico in forma ancora più perversa. Mao è profondamente convinto che la costruzione del socialismo da una parte implichi “balzi” qualitativi, radicali rotture col passato, una rivoluzione senza soluzione di continuità; e dall’altra, l’affermazione antieconomicistica dell’egemonia della politica anche nella trasformazione del dato strutturale. La trasformazione socialista della sovrastruttura non è l’inaggirabile portato dello sviluppo economico, ma anzi è il presupposto di esso. Da tutto ciò segue un diverso modo d’intendere il rapporto tra partito e masse contadine e operaie rispetto alla prospettiva leniniana: il partito è sì la guida a cui devono sottostare le masse, ma non è un qualcosa di esterno ad esse; esso esiste soltanto in funzione di tali masse, a cui Mao riconsegna dunque – antistalinianamente – il ruolo di protagoniste della propria emancipazione. Il partito deve essere al servizio delle masse, e i membri del partito, diceva Mao, quando parlano in pubblico, devono impiegare il modello delle “otto gambe del tavolo”: devono cioè esporre in otto maniere diverse lo stesso discorso, in modo da spiegarsi tanto ai contadini analfabeti quanto ai dottissimi mandarini. Nel caso in cui il partito tendesse a separarsi dalle masse e a comandarle contro la loro volontà, queste devono ribellarsi e far proprio il motto: “bombardare il quartier generale”. Nel 1964, uscì il Libretto rosso, una raccolta di pensieri di Mao. “Un sole rosso al centro dei nostri cuori”, urleranno nelle piazze i manifestanti comunisti riferendosi a Mao.              



INDIETRO