MARGHERIA PORETE

 

A cura di Eleonora Buonocore

 

 

 

Di Margherita Porete, originaria della contea dell’Hainaut, nelle Fiandre, vicina al Brabante e nata forse verso il 1250/1260, sappiamo molto poco: l’unico dato certo sulla sua vita è la sua condanna al rogo per eresia (pro convicta et confessa ac pro lapsa in heresim seu pro heretica), eseguita il 1° giugno 1310 in Place de Grève a Parigi. I cronisti del tempo la definiscono pseudomulier e quindi beghina, e anche beguine clergesse e beghine en clergrie mult suffissant, ovvero una beghina colta, facendo notare anche che essa aveva tradotto le Sacre Scritture in volgare, e suggerendoci in tal modo quale dovesse essere la sua cultura e la sua grande conoscenza della teologia, come del resto possiamo capire anche dal livello della sua riflessione ad un tempo mistica e spiccatamente filosofica. La storia del processo a Margherita e al suo libro, il Miroir des simples âmes, può essere scandito essenzialmente in due momenti. Una prima volta il Miroir fu bruciato a Valenciennes, in sua presenza, al termine di un processo diocesano fatto istituire da Guido da Colmieu, vescovo di Cambrai, in un anno imprecisato del suo episcopato (1296-1306). In questa occasione il vescovo diffidò inoltre Margherita dal dare pubblica lettura del suo libro in presenza di altre persone o dal farlo leggere da altri; ella invece continuò a far circolare il proprio libro dopo averlo probabilmente riscritto. Questa grande circolazione della sua opera (nonostante la condanna per eresia, il Miroir ci è giunto in tredici mss. completi, attestanti per lo meno quattro diverse traduzioni di un leggendario ma del tutto ignoto originale piccardo, forse già tradotto dalla stessa Margherita in latino), il fatto che comunque è attestata l’esistenza di proseliti della beghina, come vedremo nel secondo momento della sua avventura giudiziaria, possono far pensare che Margherita fosse un personaggio di spicco del movimento del Libero Spirito. Margherita non solo aveva continuato a diffondere il suo libro negli anni successivi alla prima condanna, ma addirittura aveva presentato il Miroir a Giovanni di Chateau-Villain, vescovo di Chalons-sur-Marne, forte del fatto che nel frattempo aveva ottenuto l’approbatio di tre religiosi, presente solo nelle antiche traduzioni latina e italiana. I tre religiosi sono: un certo “frater minor magni nominis, vitae et sanctitatis, qui frater Johannes vocabatur”, presumibilmente (come suggerisce R. Guarnieri) Giovanni Duns Scoto, Dom Franco di Villers, monaco cisterciense appartenente all’abbazia di Villers, della cui biblioteca Margherita era probabilmente frequentatrice; il magister in theologia Goffredo di Fontaines. Giovanni di Chateau-Villain, nonostante il Miroir avesse ottenuto l’approbatio dei tre chierici, denunciò il fatto a Filippo di Marigny, amico del re Filippo il Bello, invischiato nel processo dei Templari, il quale, nel frattempo, era divenuto vescovo di Cambrai. Margherita venne consegnata nelle mani del Grande Inquisitore di Francia, a Parigi, nel 1308. La Porete non presta giuramento di lealtà, e addirittura l’Inquisitore tenterà per più di un anno e mezzo di far parlare Margherita che non mostra alcun segno di cedimento. Il processo di Margherita è strettamente legato a quello di Guiard de Cressonessart, un begardo della diocesi di Beauvais, che si definiva l’Angelo di Filadelfia ed era legato al movimento gioachimita. L'Inquisitore Guglielmo di Parigi tentò in ogni modo di concludere il processo con l’abiura della beghina, ma infine fu costretto a consultare ventuno teologi dell’Università di Parigi per fornire un fondamento credibile all’accusa di eresia. Fra questi ventuno teologi nove si erano già espressi nel processo ai Templari e sei saranno protagonisti del Concilio di Vienne (1311-1312), con cui si sancirà la condanna di beghine e begardi. Nella condanna è riportato il testo di due delle quindici proposizioni che i teologi estrapolarono dal testo e indicarono come eretiche. Una terza proposizione è riportata dall’anonimo continuatore del Chronicon di Guglielmo di Nangis. Dopo il giudizio dei teologi, Margherita ebbe, secondo la prassi, un anno per pentirsi, che trascorse all’interno del convento parigino di Saint-Jacques. Mentre Guiard de Cressonessart confessò e fu condannato al carcere a vita, Margherita perseverò nel suo silenzio e fu condannata al rogo il 31 maggio 1310; la sentenza fu eseguita il 1 giugno 1310. La Porete andò al rogo mostrando segni tanto grandi della propria dignità da commuovere fino alle lacrime molti dei presenti.
Il Miroir, che R. Guarnieri pensa essere stato scritto nel 1290, era stato condannato, al pari della sua Autrice, ad essere cancellato dalla faccia della terra: per questo tutti quelli che lo avessero posseduto lo avrebbero dovuto consegnare all’autorità, pena la scomunica, entro la festa dei santi Pietro e Paolo (29 giugno). La storia è andata in modo diverso e il Miroir ha circolato adespota fino al 1946, quando R. Guarnieri dette notizia di aver identificato in Margherita Porete l’Autrice di una versione latina del Miroir dal titolo Speculum animarum simplicium in voluntate et in desiderio commorantium. Il testo è un prosimetrum in forma di dialogo tra vari personaggi (i principali sono Amore, Anima e Ragione), che accoglie in sé temi propri dell’amore cortese e del Catarismo, ben legati a temi propri della cultura filosofica e teologica, e che ha attirato inizialmente l’attenzione di alcuni storici del pensiero filosofico e teologico medievale per l’indubbia influenza che ha esercitato su Meister Eckhart. La prima parte, la più lunga, oltre a preferire una forma dialogica e non sistematica, sembra avere una forma a spirale, come suggerisce R. Guarnieri. La seconda parte, molto più breve, è un piccolo commento ad alcuni episodi biblici. B. Garì, in un suo recente studio, suggerisce che la seconda parte abbia un carattere quasi mistagogico.
Il Miroir è scritto per gli “smarriti”, coloro cioè che sono giunti al culmine del perfezionamento spirituale e alla totale perfezione nell’esercizio delle virtù, e quindi, in una parola, al grado della contemplazione. Gli “smarriti” percepiscono tuttavia l’esistenza di un ulteriore e più alto grado da raggiungere, la possibilità di un destino speciale, del destino che Anima-Amore-Dio espongono agli “uditori” del libro. Nel dialogo serrato cui il lettore è introdotto, si tenta di esporre, attraverso la povertà di parole che sono solo umane, come più volte Margherita stessa ammette, la condizione, o per meglio dire la non-condizione, mobile e difficilmente cristallizzabile, in cui si trova l’Anima annichilata. In una scala d’ascesa a Dio, scandita in sette gradi o sette modi d’essere, la contemplazione, corrispondente alla perfezione spirituale, è rapportabile solo al quarto grado. Al termine di un percorso ascensionale che ha condotto l’anima allo stato della contemplazione, l’azione del Lontanovicino, cioè Dio-Amore, il quale si manifesta come un lampo (esclar) nel sesto stato, produce la morte dello Spirito e l’annichilazione dell’Anima, che ormai priva di desiderio, di volontà propria, di tutte le opere, viene posta al quinto stato, dove vive di vita divina, vivendo senza se stessa affatto. La successione degli stati si inverte, quasi a significare il movimento della grazia, che procede dall’alto (da Dio) verso il basso, e l’Anima recupera nell’ulteriore stato della vita divina la propria precreaturalità. La Ragione è abbandonata in favore di Intelletto d’Amore (che fa pensare a Dante e alla Vita Nuova), che produce nell’Anima una conoscenza della Divinità che travalica il limite di quella razionale discorsiva, senza però infrangerlo (supera cioè la ragione inglobandola in qualcosa di ulteriore). Per questo si rinuncia alla via affermativa e si sceglie invece la teologia apofatica e le movenze della teologia negativa per parlare di Dio, che è l’Uno, di ascendenza neoplatonica, che entra all’interno dell’uomo che si è svestito della propria creaturalità e finitezza. Spesso il linguaggio utilizzato è improntato a quello di Dionigi l’Areopagita, specialmente nel capitolo 52, in cui è chiara anche la presenza dell’immagine del fuoco che trasforma il ferro, ripresa da Bernardo di Chiaravalle (De diligendo Deo). Nel sesto stato Dio si vede nell’Anima: questo sembra porre un’importante alternativa nell’ambito della discussione sulla visio beatifica. L’Anima annichilata, che ha riconosciuto il proprio nulla ontologico rispetto al tutto di Dio, sceglie di abbandonare la volontà propria. L’Anima che si è così annichilata in Dio, che vede sprofondate, inabissate in Lui, la memoria, l’intelletto e la volontà, è ormai l’essere stesso del Serafino: non conosce più per immagini, non accoglie più nessun contenuto sensibile delle cose o delle creature. In tal maniera Margherita sembra andare al di là della posizione scolastica. L’Anima annichilata non ha in sé né timore, né desiderio, né rimorsi di coscienza, non vuole né questo né quello ed è sempre senza se stessa, pur esercitando le proprie facoltà con grande efficacia. L’Anima annichilata, in un totale abbandono delle sue facoltà naturali, giunge ad uno stato di pura attività: quella che dal punto di vista dell’esercizio dell’individualità umana sembra essere pura passività, ma che da un punto di vista divino è nient’altro che l’attività ininterrotta dell’intelletto. Dal punto di vista dell’Anima annichilata è inutile perseguire la perfezione di uno spirito che tuttavia non garantisce la possibilità della divinizzazione, perché vincola senza possibilità di fuga alle opere, all’esercizio di una virtù costrittiva, ad un rapporto con un Dio che è anch’esso contenuto dal quale potersi liberare e da cui bisogna che l’Anima infine si liberi. L’Anima annichilata giunge in tal modo allo stato di perfetta signoria e al paese dei liberi annichilati: uno stato di assoluta libertà in cui sono estromessi timore, volontà, affettività, contenuti particolari, virtù, etc. L’Anima vive e deve vivere senza nessun perché, senza nessun portato della propria individualità. L’Anima, che ha rinunciato alla volontà e compiuto il salto antropologico, vive quindi un’esperienza che si inserisce senza dubbio nell’ambito della mistica speculativa. L’Anima annichilata sarebbe tuttavia destinata al silenzio, perché lo stato dell’Anima che vive di vita divina è in realtà incomunicabile. È possibile supporre, anche sulla base di alcuni luoghi testuali, che si assista ad una sorta di moto oscillatorio fra quarto e quinto stato, fra presenza e assenza della volontà, fra attività umana e attività divina, che garantisce la testimonianza della scrittura e la possibilità della comunicazione di questa esperienza limite. Fra le fonti di Margherita Guglielmo di Saint-Thierry e l’idea dell’unitas spiritus, Bernardo di Chiaravalle, Riccardo e Ugo di San Vittore; ma anche Dionigi l’Areopagita, il Liber XXIV philosophorum, probabilmente mediato da Alano di Lilla.

 

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