JEAN-LUC MARION

 

A cura del prof. Giovanni Ferretti



 

A. Il contesto della produzione dell’autore e il contesto filosofico-culturale [1].

 

MARIONJean-Luc Marion è indubbiamente uno degli autori più brillanti della filosofia francese contemporanea. Nato nel 1946, è stato allievo della prestigiosa École Normale Supérieure di Parigi ed è attualmente professore all’Università di Paris-Sorbonne (Paris IV) e a quella Chicago[2]. Appartiene alla generazione di filosofi che è immediatamente seguita a figure di primo piano come Paul Ricoeur, Emmanuel Levinas, Jacques Derrida, con i quali è ancora in dialogo e di cui porta avanti e discute le posizioni, nate da un serrato ed inventivo confronto con la Scuola fenomenologica di Husserl, la filosofia ermeneutica e l’ontologia di Heidegger, nonché con i problemi posti alla riflessione filosofica dalla fine della metafisica e dal diffondersi del nichilismo. Appartengono alla sua stessa generazione e ne condividono il plesso problematico, autori come Michel Henry, Didier Franck, Jean-Louis Chrétien, Jean Greisch, per limitarci ai nomi più noti di una schiera di filosofi di alta levatura che oggi in Francia hanno ripreso con grande impegno e indubbi risultati il lavoro teoretico propositivo della filosofia.

Per introdurre alla lettura di quest’opera, recentemente tradotta in italiano e non sempre di facile ed immediata comprensione, iniziamo da un’attenta analisi della Prefazione all’edizione italiana del volume, in cui Marion richiama il posto che questo occupa nel contesto della sua produzione, non senza preliminariamente affermare che “si tratta del libro al quale l’autore attribuisce maggior valore” (XII)[3].

Il contesto immediato è quello di un “trittico” in cui esso si colloca al posto centrale. Lo precede il volume, del 1989, Réduction et donation. Recherches sur Husserl, Heidegger et la phénoménologie (Riduzione e donazione. Ricerche su Husserl, Heidegger e la fenomenologia)[4], e lo completa il volume De surcroît. Essais sur les phénomènes saturés (In sovrappiù. Saggi sui fenomeni saturi) del 2001.

Il primo dei volumi citati era un libro di “storia della filosofia applicato alla fenomenologia”, volto cioè ad indagare il metodo fenomenologico seguito da Husserl, il fondatore del movimento fenomenologico, e da Heidegger, il più celebre tra i suoi discepoli ma anche il più originale ed eretico tra i suoi allievi e continuatori. L’intento del libro era di mettere in luce o “liberare” le possibilità ancora aperte a questa scuola di pensiero, impegnandosi in un ripensamento dell’operazione metodica fondamentale o “canonica” della fenomenologia, la cosiddetta “riduzione fenomenologica”. Questa consiste, com’è noto, nella messa tra parentesi, o epoché (sospensione), del giudizio di esistenza circa ogni cosa data per ovvia nel nostro atteggiamento naturale rivolto al mondo, onde ottenere, tramite un’originale ripresa del dubbio metodico cartesiano, di raggiungere il darsi dei fenomeni nella loro assoluta ed indubitabile originarietà e purezza.

Nel volume in questione, Marion cercava di mettere in luce come tale “riduzione” non dovrebbe limitarsi ad assicurarsi del fenomeno come “oggetto”, così avrebbe fatto Husserl, e neppure solo del fenomeno come “ente” o “essere”, così avrebbe fatto Heidegger, bensì “aprire un varco ad una determinazione ancora più originaria del fenomeno, il “dato” (le donné)” (XI)[5]. Questa tesi veniva concentrata nella formula “Autant de réduction, autant de donation”, tradotta in italiano da Rosaria Caldarone con “tanta riduzione, quanta donazione”. Traduzione che noi preferiremmo lasciare nell’indeterminazione del primato tra donazione e riduzione, propria del testo francese, usando la formula italiana “tanta riduzione, altrettanta donazione”. Questo per non pregiudicare il problema del rapporto tra riduzione e donazione, che sarà affrontato da Marion in modo specifico e su cui dovremo ritornare a suo luogo. In ogni caso, sia la tesi del libro, sia la formula in cui è stata concentrata, danno ragione del titolo, Riduzione e donazione, che ne sintetizza bene il tema di fondo se non la tesi.

Come Marion ci ricorda, il libro suscitò inaspettatamente in Francia un’appassionata discussione, cui parteciparono autori di grande notorietà, come P. Ricoeur, J. Derrida, D. Franck, M. Henry, D. Janicaud, J. Greisch, J. Grondin e altri. Marion li cita sia in questa Prefazione sia, più ampiamente e con più precisione, cioè con l’indicazione bibliografica dei loro interventi, nelle “Risposte preliminari” premesse all’edizione di Dato che (cfr. pp. XXXVII-XLIII). Le tesi sostenute nel libro si inserivano infatti in modo originale e provocatorio in un ambiente filosofico-culturale che stava ripensando e riprendendo l’eredità della scuola fenomenologica come prospettiva da valorizzare teoreticamente per “continuare a pensare” dopo il tramonto non solo del metodo dialettico idealistico e marxistico, ma anche del metodo strutturalista. E inoltre, sia pur riprendendone l’eredità, alla presenza della sempre più evidente crisi della metafisica, che ha fatto seguito a tali tramonti, con il conseguente diffondersi del nichilismo; crisi della metafisica e nichilismo testimoniati in particolare da autori come Nietzsche e Heidegger, variamente ripresi nel novecento. Tra i compiti del “pensare” che la filosofia francese avvertiva ed avverte, in primo luogo quello di ripensare la stessa ontologia, giustamente rilanciata da Heidegger, e con essa la questione della verità e di come essa possa darsi nel fenomeno quale sua manifestazione originaria.

La discussione suscitata dalle tesi proposte nel libro Riduzione e donatione, di indole soprattutto storiografica, fecero sentire a Marion la necessità di “passare da un’inchiesta fattuale e storica a una ricerca concettuale ed organica”, che l’impegnò in “dieci anni di duro lavoro” (XI-XII). L’esito di tale lavoro è appunto il volume Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, del 1997-98, di cui nella “Prefazione”, come poi nella “Risposte preliminari”, Marion ricorda sinteticamente il contenuto dei cinque capitoli, che fin d’ora segnaliamo con i loro rispettivi titoli:

1) La donazione. Il fenomeno è interpretato come “dato”, cioè “donato” secondo la “donazione”.

2) Il dono. Si studia il fenomeno “dono”, che viene anch’esso ricondotto alla “donazione”.

3) Il dato. I: Determinazioni. Si analizzano le “determinazioni” del dato che permettono di tradurre la fenomenalità in termini di donazione puramente immanente.

4) Il dato. II: Gradi. I vari gradi dei fenomeni vengono individuati secondo il quantum di donazione che in essi si ritrova, fino a giungere all’analisi dei cosiddetti “fenomeni saturi”, in cui si ha il massimo di donazione possibile e quindi anche il paradigma di ogni fenomenalità.

5) L’adonato. Si procede alla caratterizzazione del “soggetto” che accoglie la donazione, il cosiddetto “adonato”, quale “figura della soggettività accordata a e attraverso la donazione” (XII).

Dovremo ritornare sulla struttura di quest’opera, ad iniziare dal suo titolo francese e dalla difficoltà di tradurlo in italiano. Seguendo per ora la “Prefazione” di Marion, ricordiamo il terzo volume del trittico, il già menzionato De surcroît. Essais sur les phénomènes saturés, con cui egli ha ritenuto necessario completare Dato che, approfondendone il quarto capitolo, ancora troppo astratto e formale, con una descrizione più analitica dei “fenomeni saturi”, tra cui, in particolare, il fenomeno di “Rivelazione”, specificamente il Cristo.

In complesso il trittico, al cui centro si situa Dato che, ha nell’intenzione di Marion una ben precisa mira teoretica, sintetizzata dall’autore stesso nella “Prefazione” come segue:

 

Questo insieme mira a rendere possibile una ripresa della fenomenologia, liberandola dai due orizzonti i cui limiti ci sono divenuti evidenti (l’oggettualità, l’essere), senza perdere la radicalità di un metodo la cui fecondità ha attraversato il secolo che si è appena compiuto. Fecondità che resta uno dei punti di riferimento per una filosofia che intende pensare dopo e grazie alla fine della metafisica. Speriamo che altri andranno più lontano in questa direzione (XII).

 

Dunque l’intento dell’opera è liberare la fenomenologia dal suo situarsi nei due orizzonti ontologici di senso, quello dell’oggetto (come si avrebbe in Husserl) e quello dell’essere (quale si avrebbe in Heidegger), che sono ritenuti da Marion inadeguati in ordine alla sua fecondità teoretica. Ci potremmo chiedere: di quale fecondità si tratta? La risposta, che in questa “Prefazione” Marion ci dà solo implicitamente, va individuata, a nostro avviso, nell’impegno teoretico di fondo che sembra reggere tutta la ricerca di Marion: ripensare l’ontologia dopo la crisi della metafisica; o meglio ancora, situandosi sulla scia di Levinas - tentare di aprirsi ad un livello fenomenologico più originario di quello dello stesso “essere”, almeno come pensato dalla tradizione filosofica occidentale fino ad Heidegger. E ciò per ripensare radicalmente non solo il rapporto tra teologia e metafisica (pregiudicato dalla crisi della metafisica) ma anche quello tra teologia e ontologia (considerato inadeguato anche nei termini proposti da Heidegger).

Questo intento emerge con nettezza se, continuando la lettura della Prefazione, vediamo come Marion ci ricordi che Dato che riprende alcune questioni lasciate in sospeso da un suo libro anteriore, Dieu sans l’être, del 1982[6]. In quest’opera, Marion si poneva esplicitamente sulla scia della tematica inaugurata da Levinas. Questi aveva per primo posto con estremo vigore l’esigenza di tentare di “intendere un Dio non contaminato dall’essere[7], cioè non solo oltre l’orizzonte degli enti, come richiesto da Heidegger per andare oltre l’interpretazione di Dio in termini metafisici, ma anche oltre l’orizzonte stesso dell’essere coestensivo con il pensiero, orizzonte considerato inadeguato a salvaguardare la trascendenza assoluta del Dio biblico. Come Marion ci dice, “si trattava di sottrarre la questione di Dio non solo alla metafisica (e alla sorte della “morte di Dio”), ma a ciò che rendeva possibile l’interrogazione, divenuta tanto ossessiva quanto imprecisa, sull’“esistenza di Dio”, e cioè l’orizzonte ininterrogato dell’essere come unico quadro supposto per la sua presenza” (XII).

L’opera procedeva, nella sua pars destruens, alla critica di ogni concezione idolatrica di Dio; ove per idolo Marion intende ogni comprensione di Dio tramite concetti umani, ossia ogni idea di Dio elaborata a partire da e tramite concetti umani. In tale contesto, Marion chiama idoli non solo i concetti chiaramente antropomorfi propri degli dei pagani, ma anche i concetti propri della metafisica: quello dell’ente, che ci porta a pensare Dio come l’ente sommo, causa trascendente di ogni altro essere; quello del comando etico, che porta a considerare Dio come il fondamento della morale (il “Dio morale” alla Kant, criticato da Nietzsche con la nota tesi della “morte di Dio”); quello della “volontà di potenza”, elaborato da Nietzsche per superare la visione metafisica di Dio, ma che ha aperto un nuovo orizzonte idolatrico del divino, che si ritrova, appunto, nella volontà di potenza come valore assoluto del nostro tempo pervaso di nichilismo.

Ma la comprensione idolatrica di Dio non è superabile, secondo Marion, neppure pensando Dio nello sfondo dell’”essere nella sua differenza dall’ente”, come proposto da Heidegger per risolvere il problema dei rapporti tra filosofia e teologia. Anche in questo caso, infatti, Dio sarebbe pensato a partire da un’istanza che lo precede, cioè da una pre-comprensione umana, sia pur la più ampia, come quella dell’essere, sfociando inevitabilmente in una nuova concezione idolatrica di Dio. “Al di là dell’idolatria propria della metafisica, anche in questo caso è dunque all’opera un’altra idolatria, propria del pensiero dell’Essere in quanto tale”[8].

A questa pars destruens, in Dio sensa essere Marion faceva seguire una pars costruens, in cui si proponeva di pensare Dio con il termine di “amore” (agape). Ove il termine amore, agape, veniva tratto dalla rivelazione biblica, in particolare dal celebre testo della Prima lettera di San Giovanni, “Dio (è) agape” (1 Gv 4,8), per poi essere elaborato concettualmente in termini di “dono” e di “donazione”. I due tratti decisivi dell’amore-agape erano infatti individuati, già in tale opera, 1) “nel fatto che esso si dona.... senza condizioni (previe)”[9], e 2) che esso “non pretende di comprendere, dato che non ha la minima intenzione di prendere”[10]. Amando, infatti, il donatore si abbandona completamente alla donazione fino a “coincidere rigorosamente con questo dono”, senza in alcun modo distanziarsene con la com-prensione o ri-presa concettuale del proprio dono[11].

L’amore esclude quindi l’idolo, o meglio lo sovverte, perché nel movimento del dono il soggetto non investe l’altro con la sua concettualità ma si abbandona totalmente a lui, fino a lasciar determinare se stesso da questa donazione. Un “pensiero del dono” riuscirebbe così a pensare Dio senza reintrodurre il meccanismo della sua trasformazione in un idolo concettuale; esso infatti non lo pensa a partire da un nostro concetto ma a partire dal suo stesso donarsi. Ben esprimono questa posizione le seguenti citazioni, in cui si ha chiara testimonianza di come Dato che riprenda temi già affrontati in Dio senza essere.

La prima citazione riguarda in particolare i tratti di fondo della fenomenologia dell’amore in termini di dono-donazione.

 

“L’amore non si dona se non abbandonandosi, trasgredendo continuamente i limiti del proprio dono, sino a trapiantarsi fuori di sé. La conseguenza è che questo trasferimento dell’amore fuori di se stesso, trasferimento senza fini né limiti, impedisce immediatamente che ci si lasci prendere in una risposta, in una rappresentazione, in un idolo. È tipica dell’essenza dell’amore - diffusivum sui - la capacità di sommergere, così come un’ondata sommerge i muraglioni di una diga foranea, ogni limitazione, rappresentativa o esistenziale, del proprio flusso; l’amore esclude l’idolo o, meglio, lo include sovvertendolo. Può anche essere definito come il movimento di una donazione che, per avanzare senza condizioni, s’impone un’autocritica permanente e senza riserve. L’amore, infatti, non si riserva nulla per sé, né se stesso, né la propria rappresentazione. La trascendenza dell’amore significa innanzitutto che esso si autotrascende in un movimento critico nel quale nulla - neppure il Niente/Nulla - può contenere l’eccesso di una donazione assoluta - assoluta: liberata da tutto ciò che non si esplica in questo abbandono stesso”[12].

 

La seconda citazione, che immediatamente segue nel testo, riguarda i risvolti teologici di tale fenomenologia, ma anche, per un procedimento circolare, la sua stessa derivazione teologica.

 

“Dio non può darsi da pensare senza idolatria se non a partire esclusivamente da se stesso, darsi da pensare come amore e quindi come dono; darsi da pensare come un pensiero del dono. O meglio, come un dono per il pensiero, come un dono che si dà da pensare. Ma un dono, che si dona per sempre, non può essere pensato se non da un pensiero che si dona al dono da pensare. Solo un pensiero che si dona (se donne) può consacrarsi (s’adonner) ad un dono per il pensiero. Ma cosa significa, per il pensiero, donarsi se non amare?”[13].

 

Avendo così richiamato, sia pur per sommi capi, il tema e l’impostazione di Dio senza essere, possiamo meglio comprendere l’annotazione che Marion fa, nella Prefazione di Dato che, circa la diversità metodologica di quest’opera rispetto alla prima. In quella prima opera, mentre il versante critico, ossia la pars destruens, si manteneva strettamente nel campo della filosofia, il versante costruttivo, la pars construens dell’accesso alla “carità” come senso del divino oltre l’orizzonte dell’essere, veniva direttamente desunto dalla teologia. La difficoltà metodologica di tale immediato ricorso alla teologia da parte della filosofia, viene invece superata in Dato che. In quest’opera, infatti, Marion ritiene di essere giunto a dare uno schizzo del fenomeno stesso della “carità”, ossia della donazione fino all’abbandono totale di sé, senza far ricorso diretto alla teologia, bensì tramite un rigoroso uso del metodo fenomenologico. Ciò in particolare nella descrizione fenomenologica dei “fenomeni saturi”, culminanti in quel fenomeno saturo per eccellenza che è appunto la Rivelazione cristologica.

La distinzione tra filosofia e teologia viene così mantenuta, perché con il metodo filosofico-fenomenologico si giunge solo alla delineazione del senso o della “possibilità” dello straordinario fenomeno della “rivelazione” di Dio come amore-donazione assoluta, lasciando alla teologia, che riflette a partire dalla fede, l’accertamento della “realtà effettiva” di tale rivelazione. Non diversamente da ciò che avviene per l’analisi fenomenologica del fenomeno del “dono” in generale, che è in grado di studiare il senso e la possibilità del fenomeno “dono” pur prescindendo dal problema della constatazione storico-empirica del darsi in concreto di “doni/donazioni” autentici.

La distinzione tra filosofia-fenomenologica e teologia, così delineata da Marion, non toglie però - osserviamo noi - che fra le due discipline si dia un mutuo influsso di carattere circolare. Per un verso, infatti, è solo a partire dall’esperienza del darsi di doni effettivi, fino all’incontro storicamente datato con la rivelazione cristiana della “donazione assoluta” di Dio in Cristo, che nasce l’esigenza filosofica di fare una fenomenologia del dono, fino alla fenomenologia del dono-amore assoluto. Per altro verso, la teologia non riuscirebbe a riflettere adeguatamente sulla natura della rivelazione di Dio in Cristo, senza l’aiuto di una corretta fenomenologia del dono come “donazione assoluta” di sé fino all’abbandono[14]. Prova ne sia che la teologia cristiana, senza una tale fenomenologia, è spesso caduta in una concezione metafisica o ontologica di Dio, la quale, invece di pensare correttamente il novum assoluto della rivelazione cristiana di Dio, ne ha dato una versione fortemente impregnata di idolatria concettuale.

Sui rapporti tra fenomenologia e teologia secondo Marion, dovremo ancora ritornare. Per ora ci basti ricordare che tra le prime opere di Marion v’è un’altra opera filosofica di argomento teologico, cioè L’idole et la distance, del 1977[15]. In essa già si affrontava il problema della salvaguardia della trascendenza assoluta di Dio da ogni comprensione idolatrica, quale si ha inevitabilmente ogni qualvolta si cerca di pensare Dio a partire da pre-comprensioni concettuali proprie della coscienza umana. Celebre, in tale opera, oltre la rigorosa fenomenologia dell’idolo, quella dell’icona, entrambi considerati come “due modi di apprensione del divino nella visibilità” [16]. Tuttavia, i due modi sono profondamente differenti. La caratteristica fondamentale dell’idolo è, infatti, che esso si presenta all’interno di un mio sguardo, ossia di una mia visione sensibile o concettuale, di cui compie l’intenzione previa che lo ha di mira. Esso non può quindi uscire dall’orizzonte della pre-comprensione dello sguardo o della concettualità umana. L’icona, invece, capovolgendo i tratti essenziali dell’idolo, mi si presenta come l’apparire di un volto che mi guarda. Nel visibile di ciò che si dà al mio sguardo, io mi avverto quindi come lo specchio di una realtà invisibile, che sfugge ad ogni mia presa o com-prensione, mantenendosi nella sua assoluta “distanza”.

 

“In questo caso, il nostro sguardo diventa lo specchio di ciò che guarda solo nella misura in cui si trova ad esserne più radicalmente guardato: diventiamo specchio visibile di uno sguardo invisibile che ci sovverte commisurandoci alla propria gloria...... Al contrario dell’idolo, che misurava la magra della nostra mira, l’icona sposta i limiti della nostra visibilità commisurandola a quella che le è propria, cioè alla sua gloria. Essa ci trasforma nella sua gloria, facendola risplendere sul nostro viso che le fa da specchio; ma uno specchio bruciato da questa stessa gloria, che si trasfigura di invisibile e che, a forza di essere saturata al di là di se stesso da questa gloria, ne diventa, esattamente anche se imperfettamente, l’icona: visibilità dell’invisibile come tale”[17].

 

La tematica teologica, centrale nella due opere sopra ricordate, resterà senza dubbio sullo sfondo degli interessi di Dato che anche se ora Marion è impegnato a svolgerla in termini rigorosamente filosofici. Come già nelle opere precedenti, anche in quest’opera, secondo quanto sopra accennato, essa s’intreccia sempre più strettamente con la problematica metafisica ed ontologica. Problematiche a cui Marion aveva peraltro dato notevoli contributi storiografici in opere di notevole impegno. Oltre quella sopra ricordata dedicata a Husserl e a Heidegger, vanno menzionati gli studi su Cartesio. Per completare il quadro del contesto delle opere di Marion in cui si situa Dato che, ne citiamo i principali: Sur l’ontologie grise de Descartes, Vrin, Paris 1975 (2 ed. completata 1981), Sur la théologie blanche de Descartes, Puf, Paris 1891 (2 ed. completata 1991), Sur le prisme métaphysique de Descartes, Puf, Paris 1986. Cui si aggiungono i commenti e gli indici alle Regulae ad directionem ingenii e alle Meditazioni metafisiche, rispettivamente del 1976-77 e del 1996, nonché i due volumi di Questions cartésiennes, del 1991 e del 1996.

 

B. Il titolo dell’opera e il problema della sua traduzione.

 

Il titolo dell’opera ed anche il modo con cui è stato tradotto in italiano hanno bisogno di una spiegazione, che dopo quanto abbiamo detto nel primo paragrafo può ora risultare di più agevole comprensione. Marion stesso ci offre tale spiegazione, per il titolo francese, nelle “Risposte preliminari” che introducono all’opera (XXXVII-XLIII); mentre Rosaria Calderone ce la offre, per la traduzione italiana, nella “Nota del traduttore” (XXXII-XXXV).

La formula “Étant donné (alla lettera: “Ente dato/donato” oppure anche “Essendo dato”) non va interpretata, ci avverte Marion, come se un articolo precedesse la prima parola, e quindi intendendola come equivalente di “l’ente dato”. In tal caso, infatti, la si penserebbe in riferimento all’ente come un sostantivo (l’ens latino o l’étant francese, secondo una parola ormai caduta in disuso in tale lingua), di cui essa direbbe soltanto che “si dà”, nel senso che semplicemente “è”. Ove l’espressione “l’ente (è) dato” non farebbe che affermare una tautologia, cioè che “l’ente - ciò che è - è”. Cosa che la filosofia ha ripetuto fedelmente fin da Parmenide, nel cui Poema si trova la celebre espressione: “è necessario dire e pensare che l’ente è”[18].

In questo caso, proprio di una lettura che Marion dice “comune”, ma anche “sapiente e spontanea allo stesso tempo”, la formula ci porterebbe in pieno clima metafisico, non facendo altro che enunciarne uno dei principi di fondo, cioè che “c’è l’ente piuttosto che il nulla”. Ma questa lettura, oltre che essere scorretta sul piano grammaticale - perché aggiunge un articolo che non c’è nel testo - non solo sfocia in una semplice tautologia, ma trascura del tutto il ricorso che nel titolo si fa al termine “dato”, che risulterebbe del tutto inutile e superfluo.“In sintesi - conclude Marion - la lettura spontanea e sapiente di “ente dato” moltiplica “ente” e dimentica interamente “dato”” (XXXVIII).

Rinunciando quindi ad aggiungervi un articolo, la formula va letta intendendo “étant” come verbo ausiliare, che mette in opera un altro verbo; nel caso dell’ausiliare al gerundio, il verbo messo in atto, ossia il verbo “dare”, ne risulta irrevocabilmente compiuto. Così come nelle formule “essendo fatto”, o “essendo detto”, il fare e il dire si trovano del tutto compiuti: “quel che è fatto è fatto”, “quel che è detto è detto”, qui ciò che risulta compiuto è il “dato”: “quel che è dato è dato”. Nella formula “essendo dato”, l’ausiliare si risolve quindi tutto nella funzione di stabilire l’irrevocabile compiutezza del dato.

 

“Divenendone l’ausiliare, “essendo”, a titolo di verbo, precipita e sparisce nel “dato”, perché non mira che a rafforzarlo; “essendo” pone il fatto del “dato” e vi si deposita per intero” (XXXVIII).

 

Dandosi di fatto, il “dato” attesta quindi la sua “donazione” e lungi dall’irrigidirsi in un “ente” o nell’“essere”, sottomette anche l’essere (del verbo) alla sua donazione. Donde la pregnante ed illuminante affermazione conclusiva sul senso del titolo dell’opera.

 

“Tramite lo stesso gesto, il dato conquista la sua donazione e l’“essere” (l’“essendo” verbale) vi scompare, compiendosi. Qui, infatti, il dato dispiega (déplie) verbalmente in sé la sua donazione - cosa che chiameremo “piega (pli) del dato” -, e l’essere ausiliare si dispone (se range) alla donazione che serve. “Étant donné (essendo dato) dice il dato in quanto donato (donné)”[19].

 

In base a questa spiegazione del significato del titolo francese dell’opera, è più facile comprendere le motivazioni che la traduttrice adduce per la scelta di tradurre Étant donné con Dato che. La motivazione è presentata come una sorta di “imperativo pittorico”, che chiama in causa l’arte di mettere in rapporto il visibile con l’invisibile. In questo caso si tratta di portare a termine quello scomparire o rendersi invisibile dell’essere nel dato, che Marion - come abbiamo visto - intendeva con la formula francese “Étant donné “ (essendo dato). Secondo la traduttrice, la lingua italiana ci offre tale possibilità, poiché può sintetizzare “essendo dato che” nel più semplice “dato che”, in cui il verbo essere scompare, risultando così invisibile, anche se grammaticalmente continua a sostenerne il senso.

“Nel Dato che, dunque, ciò che viene esposto è il “dato” affrancato dall’istanza dell’essere che materialmente non viene più mostrato” (XXXI).

 

Come già per il titolo francese, anche la formula italiana presenta una certa ambiguità, in quanto si presta ad una lettura “metafisica” che deve essere evitata. Questa lettura si avrebbe se “dato che” venisse inteso come seguito da puntini di sospensione, “dato che....”, sottintendendo il rimando ad una “connessione causa-effetto”: “dato che..., allora...”. Ma ciò contrasterebbe profondamente con il pensiero di Marion, ove il dato è interpretato come equivalente al dono, e quindi va pensato, al di fuori di ogni connessione causale necessitante, come assolutamente libero e gratuito; si pensi all’imporsi del volto dell’altro, del suo amore, ove non ha senso interrogarsi sulla sua causa o sulla sua origine; esso infatti va accolto con ri-conoscenza come ciò che ci rinnova quali soggetti disponibili all’accoglienza. Emblematiche, in tal senso, le espressioni Eccoti! Eccomi!; la prima, dello stupore di fronte all’imprevedibile gratuità del dato/dono, la seconda, della disponibilità alla sua accoglienza, senza previ imbrigliamenti del dato/dono nelle nostre categorie metafisiche di causa-effetto o simili.

Questa concezione del “dato” impedisce quindi di sottintendere a “dato che” dei puntini di sospensione, limitando il senso dell’espressione, che la traduttrice non esita a riconoscere come “aspra ed enigmatica”, alla enfatizzazione del semplice “darsi del dato”, inteso come “l’atto di ciò che precede la coscienza e la costituisce a partire dall’attitudine di ricevere e di rispondere” (XXXII).

Con questa spiegazione, però, l’enigmaticità della traduzione del titolo con Dato che, non è del tutto superata. Rimane infatti in essa come occultata l’ambivalenza del termine francese donné, cui in italiano corrispondono due termini che se ne ripartiscono il campo semantico: dato e donato. Il che farà sorgere un difficile problema di traduzione che si ripropone lungo tutto il corso dell’opera e non solo a proposito del titolo.

La difficoltà non si limita al problema d’interpretare, in base al contesto, quando, nei singoli luoghi, donné significa “dato” e quando significa “donato”, come avverrebbe nella traduzione di un testo francese “normale”. Il “cuore del problema” nasce infatti dalla scelta operata da Marion di tradurre il termine husserliano tedesco Gegebenheit, che i traduttori italiani hanno normalmente tradotto con “datità”, con il termine “donation”.

Una scelta resa possibile dal significato del verbo tedesco “geben” (da cui il participio passato gegeben e l’astratto Gegebenheit) che contiene in sé il significato sia di dare che di donare (da cui il sostantivo Gabe che significa dono). Donde la difficoltà dei traduttori francesi che non avendo l’astratto donneité (a cui pur qualcuno è ricorso)[20], si sono divisi da una parte traducendo con donné, o donnée-en-personne, sottolineando così l’aspetto oggettuale di “esser dato”, e le traduzioni di présence-en-personne o donation, che ne sottolineano, invece, l’aspetto attivo del processo che porta al dato, la “donazione”, appunto.

L’originalità della scelta di Marion non si limita però ad una semplice disambiguazione del doppio senso del tedesco Gegebenheit, che ritorna peraltro nel francese donné (dato/donato), ma nel mettere in evidenza che alla base del “dato” vi è sempre una “donazione”, ed è per questo che il “dato” va inteso come “dono”, ovvero come ciò che nella visibilità del dato contiene un rimando alla donazione che pur rimane, come tale, invisibile.

Quello che a prima vista nel donné francese appare come una ambiguità tra dato e donato, e che l’italiano può sciogliere, nel discorso di Marion - osserva pertinentemente la traduttrice (XXXIII) - si mostra così come il sintomo di una complessità e di una ricchezza: il dato si presenta con la struttura di una “piega”, di un risvolto (le pli du donné, la “piega del dato”), perché contiene al suo interno il rimando alla donazione. “Che cosa nasconde il dato nella sua piega? - si chiede la traduttrice - E cioè, che cosa non mostra il dato, mostrandosi? Il suo carattere proveniente dal dono, dalla donazione, ossia il suo carattere di donato” (XXXIII).

Per questo motivo, non solo filologico ma strettamente teoretico, la traduttrice ha scelto di tradurre “donné” con “dato” e non con “donato”, non solo nel titolo ma normalmente in tutto il corso dell’opera, tranne i casi in cui il contesto non lo esiga perentoriamente. Tradurre “donné” con “donato”, significherebbe infatti trascinare l’invisibile “donazione”, che è serbata nella piega del “dato”, nel regno della luce, della visibilità, contravvenendo all’imperativo pittorico sopra accennato, di “non far vedere ciò che per definizione non è fatto per essere mostrato” (XXXIV).

Con questa spiegazione del senso del titolo dell’opera, sia nell’edizione francese originale che nella traduzione italiana, ci siamo così già introdotti nell’orizzonte dei problemi centrali che saranno affrontati nell’opera. Marion ce li richiamo sinteticamente anche nelle “Risposte preliminari” che introducono l’opera e che noi abbiamo già incontrato prendendo in esame la prefazione all’edizione italiana.

Li possiamo sintetizzare nell’esigenza, che Marion intende far valere, di sviluppare una rigorosa “fenomenologia della donazione” - come recita il sottotitolo dell’opera - al fine di arrivare alle “cose stesse”, ossia ai fenomeni ricercati dalla fenomenologia.

Ma forse è il caso di ricordare ancora alcune questioni cui egli accenna al termine di tali “Risposte preliminari” (XLI-XLIII).

Anzitutto la questione del rapporto tra questa fenomenologia della donazione e la metafisica. Nonostante si sia spesso sostenuto che la fenomenologia si tiri fuori dalla metafisica (se non addirittura che ne contesti la legittimità), per Marion la fenomenologia non “oltrepassa” la metafisica, ma la lascia come una possibilità al suo interno. Una possibilità che andrà esplorata dopo che la via fenomenologica sarà stata ben sgombrata. Ora essa resta solo nello “spazio di una speranza”.

In secondo luogo la questione del rapporto - cui già si è accennato - tra questa fenomenologia e la teologia; soprattutto quando essa affronta la descrizione dei fenomeni saturi, spingendosi fino al fenomeno della Rivelazione, specificatamente il Cristo. Si tratta di una “svolta teologica”, come è stato scritto?[21]. Secondo Marion - che qui si rifà anche al giudizio di Ricoeur - no, in quanto, come già si è detto, egli non intende in quest’opera affrontare la Rivelazione nella sua pretesa di verità effettiva, ma solo nel suo concetto, come possibilità, di fatto come la possibilità ultima, del paradosso dei paradossi della fenomenalità, quale si ha nei cosiddetti fenomeni saturi.

Infine la denuncia preventiva di alcuni possibili malintesi, in cui di fatto alcuni sono incorsi ma che un’attenta lettura del testo dovrebbe permettere di evitare. Vale la pena di tenerli presenti fin d’ora, nelle parole stesse di Marion.

 

“Quando diciamo che la donazione ridotta non chiede alcun donatore per il suo donato, non stiamo insinuando che essa reclami un donatore trascendente; quando diciamo che la fenomenologia della donazione oltrepassa per definizione la metafisica, non sottintendiamo che questa fenomenologia restauri la metafisica; e quando infine opponiamo alla soggettività trascendentale la figura dell’adonato, non suggeriamo che il soggetto rinasca dalla donazione” (XLII).

 

Ma per cogliere il senso dei problemi insiti in questi possibili malintesi, e perché Marion li denunci come stravolgimento del suo pensiero, dobbiamo procedere all’esame diretto dell’opera, cui ormai siamo sufficientemente introdotti.

 

 

1. Libro I: la donazione.

 

Il primo libro dell’opera, dal titolo “la donazione”, affronta di fatto l’intera problematica del metodo fenomenologico, intendendo ripensarlo in radice sia per quanto riguarda l’impianto metodico della riduzione sia per quanto riguarda il suo risultato, cioè l’essenza del fenomeno che tende a cogliere.

 

1. 1. Nel suo primo paragrafo, intitolato “L’ultimo principio”, Marion si propone anzitutto di studiare la natura del “principio” che regge il metodo fenomenologico, esaminandone le varie formulazioni che ne sono state date. Al tema Marion s’introduce parlando della svolta metodologica radicale operata dal metodo fenomenologico, fino a farlo apparire come una sorta di “contro-metodo”.

 

1. 1. 1. Un contro-metodo, ovvero la “svolta” fenomenologica.

 

In fenomenologia, egli osserva, si tratta di passare dall’intento di “dimostrare”, proprio delle scienze e della metafisica, a quello di “mostrare”. “Dimostrare” significa infatti ricondurre l’apparenza al suo fondamento, per conoscerla in modo certo, mentre “mostrare” significa far sì che l’apparenza appaia come tale, ossia divenga percepibile in persona. Ma nella fenomenologia, più propriamente ancora, si deve tendere a “mostrare” non tanto privilegiando uno dei sensi, come ad esempio il “vedere”, per cui mostrare significherebbe “far vedere”. Tutti i sensi, da questo punto di vista, vanno infatti considerati alla pari, il vedere come l’udire, il tastare, il percepire ecc. Ciò a cui la fenomenologia deve tendere è piuttosto l’apparire stesso della cosa in seno alla sua apparenza, privilegiando quindi la manifestazione delle cose in sé stesse rispetto ad ogni nostra attività percettiva soggettiva.

Se così stanno le cose, in fenomenologia non basta passare dal “dimostrare” (metafisico) al “mostrare”; un procedimento in cui il soggetto manterebbe pur sempre l’iniziativa.

 

“Questo primo passaggio deve completarsi con un secondo: passare, cioè, dal mostrare al lasciar mostrarsi, dalla manifestazione alla manifestazione di sé a partire da sé di ciò che, allora, si mostra” (5).

 

La cosa però non è semplice, dato che la conoscenza proviene normalmente da me, ossia è frutto di una mia attività. Donde quello che Marion chiama il “paradosso iniziale e finale della fenomenologia”, cioè il paradosso di un metodo che consiste precisamente nel “prendere l’iniziativa di perdere l’iniziativa”, presentandosi così non tanto come un “metodo” di cui siamo gli attori, quanto come una specie di “contro-metodo”, in cui i veri attori divengono i fenomeni che si mostrano, e a cui è lasciata l’ultima parola.

Sulla base di queste prime considerazioni, Marion può fin d’ora anticipare in che senso egli intenderà la natura del metodo fenomenologico della “riduzione” e lo stesso famoso e controverso concetto husserliano della “costituzione” come “Sinngebung” (donazione di senso). Costituire - egli afferma - “non equivale a costruire né a sintetizzare, ma a dare un senso, o più esattamente a riconoscere il senso nel fatto che il fenomeno si dà da se stesso” (6). E l’operazione metodica della riduzione consiste esclusivamente nel togliere gli ostacoli che impediscono alla manifestazione di manifestarsi. La riduzione - leggiamo - “sospende le “teorie assurde”, le false realtà dell’attitudine naturale, il mondo oggettivo, per lasciare che i vissuti facciano apparire, per quanto possibile, ciò che si manifesta come e attraverso di essi; la sua funzione culmina, dunque, in una eliminazione di ostacoli alla manifestazione” (6).

Di qui la conclusione sulla natura della “svolta” che il metodo fenomenologico comporta, presentandosi come vero e proprio contro-metodo.

 

“Il metodo fenomenologico pretende dunque di configurare una svolta, che va non solo dal dimostrare al mostrare, ma dal mostrare, nel senso che si ha quando un ego mette in evidenza un oggetto, a lasciare che un’apparizione si mostri in un’apparenza: metodo di svolta che si rivolge contro se stesso e consiste in questo rivolgimento stesso - contro-metodo” (7, con nostre correzioni alla trad. it.).

 

1. 1. 2. Esame di tre formulazioni inadeguate del “principio” della fenomenologia e proposta di un quarto principio: “tanta riduzione, altrettanta donazione”.

 

La svolta metodica della fenomenologia, che sembrerebbe presentarsi in tutta semplicità, a guardarla più da vicino mostra invece tutta la sua difficoltà. Essa emerge in particolare nel tentativo, che è stato fatto a partire da Husserl, di formulare il “primo principio” della fenomenologia, che dovrebbe costituirne come l’indicatore di base del suo procedimento metodico.

Già la ricerca di un principio primo che guidi il procedimento di contro-metodo, che intende “prendere l’iniziativa di disfarsi dell’iniziativa”, si presenta problematica, perché sembra contraddire l’intento stesso del contro-metodo così delineato; invece di lasciare che l’apparizione si mostri come tale, la s’imbriglierebbe in un nostro apriori, il principio primo, che la precede. Più che di un “principio primo” dovrebbe quindi se mai trattarsi di un “principio ultimo”, cioè scoperto alla fine. Ma in questo caso si tratta ancora di un “principio”?

L’aporia del principio, così delineata in generale, ritorna nel vaglio cui Marion sottopone le tre formulazioni classiche del principio della fenomenologia, individuate ed elencate da Michel Henry nel suo saggio sull’opera Réduction et donation di Marion (cit. p. XXXIX, n. 5). Ad esse egli contrapporrà una quarta formulazione, la sua, che ritiene sia l’unica in grado di superare le aporie in cui incorrono le altre (cfr. 14).

 

1. La prima formulazione suona: “Tanto apparire, tanto essere”. La formula, risalente a J. F. Herbart e ripresa da Husserl e da Heidegger, tende a dare dignità ontologica all’apparire, al fenomeno. Ma in un modo che non solo sembra consacrare l’opposizione, già platonica, tra apparire ed essere, ma lascia del tutto indeterminato il senso dell’apparire. Essa rimane quindi in un contesto metafisico e non dà alcun apporto alla svolta, sopra prospettata come il proprium della fenomenologia, dall’apparire alla manifestazione.

2. La seconda formulazione suona: “Dritto alle cose”. Anch’essa di derivazione husserliana (celebre l’espressione husserliana: Zurück su den Sachen!), enuncia bene la questione in oggetto, ma in modo da ordinarla subito alle “cose”, già presupposte al loro posto prima dell’apparire, riducendo così l’apparire al rango “metafisico” di semplice via d’accesso ad esse. Anche questa formulazione non dà quindi alcun apporto alla comprensione della “svolta fenomenologica”.

3. La terza formulazione, indubbiamente più importante perché Husserl stesso l’ha presentata come il “principio di tutti i principi”, è ad un tempo più complessa e più pertinente. Essa suona, nelle Idee di Husserl, come segue:

 

Ogni intuizione donatrice originaria è una sorgente legittima per la conoscenza; tutto ciò che ci si offre originariamente all’intuizione (nella sua effettività, per così dire, in carne ed ossa) deve essere semplicemente ricevuto per il fatto che esso si dà, ma senza oltrepassare i limiti nei quali si dà” (10, con i riferimenti al testo delle Idee).

 

Marion sottolinea i vantaggi di questa formulazione, che affranca la fenomenologia da ogni rimando metafisico ad un fondamento dell’apparire e da ogni apriori concettuale di tipo kantiano; “nessun altro titolo se non l’intuizione è ormai richiesto ad un fenomeno perché esso appaia” (10).

Ma anche questa formulazione si presta a delle riserve. Nonostante metta giustamente in luce l’importanza dell’intuizione di ciò che si dà effettivamente “in carne ed ossa”, essa finisce per limitare l’ambito della fenomenalità al solo campo dell’intuizione. Ora l’intuizione - così possiamo sintetizzare le cinque particolari riserve che Marion muove a questo primato fenomenologico dell’intuizione - sembra avere in Husserl solo la funzione di riempire una mira o una intenzionalità d’oggetto, riferendosi quindi sempre ad una “trascendenza” verso cui la coscienza estaticamente si muove. Di conseguenza, limitare la manifestazione fenomenale al solo campo dell’intuizione di un oggetto trascendente, risulta essere un’indebita restrizione del campo della fenomenalità, che invece dovrebbe poter comprendere, senza riserve, tutto ciò che si mostra[22].

Senza contare, come Marion osserva nella quinta delle riserve formulate, la e), la formulazione di questo “principio di tutti i principi” interviene prima e senza previa messa in atto della “riduzione”, che invece dovrebbe essere il gesto inaugurale della fenomenologia.

Per superare le aporie di queste tre formulazioni, Marion ne propone un’altra, già introdotta in conclusione di Riduzione e donazione.

4. Questa quarta formulazione suona: “tanta riduzione altrettanta donazione[23].

Marion la giustifica a) con il ricorso ai testi husserliani, ove il legame di principio tra riduzione e donazione è letteralmente riscontrabile, anche se non vi si ritrova la formulazione alla lettera; b) con delle considerazioni concettuali.

a)I testi husserliani ricordati sono tratti dall’opera, frutto di un corso di lezioni, L’idea della fenomenologia, del 1907. Un’opera che, com’è noto, inaugura la tematizzazione della “riduzione” fenomenologica come via d’ingresso nella fenomenologia ed anticipa quindi quell’impostazione che nelle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, del 1913, sposterà la fenomenologia di Husserl su posizioni di tipo nettamente idealistico. L’idea della fenomenologia si trova quindi sul crinale del passaggio da un’impostazione incentrata sul tema dell’intenzionalità, con cui la coscienza si aprirebbe ad oggetti da essa distinti, che caratterizza la prima grande opera fenomenologica di Husserl, Ricerche logiche, del 1900-1901, ad un’impostazione in cui i fenomeni saranno fatti rientrare nell’ambito di ciò che è immanente alla coscienza, ovvero di ciò che - come osserverà Ricoeur - è nella coscienza non solo perché è per (für) la coscienza ma anche perché è dalla (aus) coscienza.

Tra le quattro citazioni tratte da quest’opera, che Marion riporta, ne segnaliamo in particolare una, la terza, di cui correggiamo in parte la traduzione italiana per renderla più precisa e comprensibile. In essa leggiamo:

 

“Solo attraverso una riduzione (Reduktion), che adesso vorremmo chiamare riduzione fenomenologica (phänomenologische Reduktion), conquistiamo una donazione assoluta (absolute Gegebenheit), non dovendo più nulla alla trascendenza” (14).

 

Il collegamento tra “riduzione” e “donazione” è quindi ben attestato nei testi di Husserl. Ove per “riduzione” s’intende la messa tra parentesi del giudizio di esistenza circa la cosa in oggetto, e, più in generale, la messa tra parentesi o la sospensione di tutto ciò che in qualsiasi modo trascende il darsi effettivo dei fenomeni; tanto che Marion può parlare anche di “riduzione all’immanenza” (14). E per “donazione” deve intendersi il darsi/manifestarsi di per sé dei fenomeni, fino a quella donazione assoluta in cui non rimane nulla, in essi, di trascendente, ossia di non dato. Marion però indubbiamente accentua ed al tempo stesso interpreta il collegamento in questione con la sua scelta di tradurre - come già abbiamo sopra osservato - il tedesco Gegebenheit con “donazione”, e non con un equivalente francese di “datità”, con cui viene di solito tradotto in italiano.

b) La giustificazione della formula con considerazioni concettuali si basa sui concetti di riduzione e di donazione che or ora abbiamo chiarito. La “riduzione”, come sopra definita, non è infatti altro che una “riduzione alla donazione”, cioè a ciò che si dona in se stesso e di per se stesso alla coscienza, escludendo tutto ciò che non appare (non si dà) in persona. Essa, si può anche dire, non fa quindi altro che “misurare il grado di donazione contenuto in ogni apparenza, in modo da stabilirne il diritto ad apparire o no” (15). Donde la conclusione che ben commenta il principio: “non c’è donazione alcuna che non sia filtrata da una riduzione, così come non c’è riduzione che non lavori per una donazione” (15). Ove, come Marion sottolinea, le due operazioni di riconduzione all’Io della coscienza e di ritorno alle cose, non sono altro che i due versanti “dell’unico ordinamento (ordonancement) della riduzione alla donazione” (15)[24].

Il principio della fenomenologia, così formulato, permette, ad avviso di Marion, di superare le aporie che inerivano alle tre precedenti formulazioni (15-18).

L’apparire infatti non equivale all’essere (1° principio) se non nella misura in cui questo apparire si riduce a se stesso, ossia si compie in una donazione; e così si toglie ogni ambigua configurazione dell’essere delle cose come altro dall’apparire stesso.

Il “ritorno alle cose” (2° principio) non implica più nessun realismo precritico, bensì la riduzione del trascendente ai vissuti tali quali si danno alla coscienza.

E si supera anche l’ambiguità del primato dell’intuizione d’oggetto (3° principio). Se questa merita un privilegio è infatti solo in quanto “intuizione donatrice”, ovvero perché mette in atto una donazione. La donazione si misura quindi con il suo proprio canone e non con il canone dell’intuizione.

La donazione quale principio della fenomenologia, infine, supera l’aporia che sembrava inerire alla stessa ricerca di un principio metodologico per la fenomenologia, in quanto non fa altro che fissare “il fatto che la donazione si compie attraverso la riduzione” (18). In altri termini, la donazione fissa, per principio, “che niente precede il fenomeno, se non la sua propria apparizione a partire da sé; e ciò ripropone il fatto che il fenomeno accade senza altro principio al di là di se stesso” (Ivi). Per questo essa può essere considerata il “principio ultimo” della fenomenologia.

 In conclusione del paragrafo, Marion osserva che chi si scandalizza del primato della donazione, rifiutandola per pregiudizio, non fa altro che chiudersi alla fenomenalità del fenomeno. Ma la donazione non deve a sua volta essere concepita come una sorta di “parola magica”, che traduce semplicemente lo stupore di fronte alla fenomenalità. “Fra magia e scandalo si apre un’altra via - e cioè che la donazione articola razionalmente i concetti che descrivono il fenomeno come ciò che si manifesta” (20).

Ed è questa terza via che Marion si propone di percorrere nel seguito del suo lavoro.

 

1. 2. Il secondo paragrafo del primo libro, “L’essenza del fenomeno” (20 ss. cerca di mettere in luce, a partire dal primato della donazione, come debba intendersi il “fenomeno”. O, se si vuole, come il primato della donazione si confermi nello studio dell’essenza del fenomeno.

1. 2. 1. La trattazione inizia da alcune considerazioni sul rilancio del tema dell’evidenza operato da Husserl fin dalle Ricerche logiche. Un tema che sembrava obsoleto, è stato da Husserl rilanciato tramite due significativi ampliamenti, che ne hanno decisamente esteso la portata oltre l’ambito dell’evidenza scientifica che il positivismo aveva privegiato considerandola paradigmatica.

Il primo ampliamento si è avuto con l’estenzione dell’evidenza dall’intuizione sensibile all’intuizione categoriale. Per Husserl, infatti, diversamente da Kant, anche le categorie (quantità, qualità, causalità ecc. ) possono essere oggetto d’intuizione evidente, ovvero si possono presentare come fenomeni che si danno in se stessi. Il secondo ampliamento, per Marion il più decisivo, consiste invece nel passaggio dalla evidenza come stato o vissuto di coscienza, semplice impressione soggettiva (come in Cartesio), all’evidenza come donazione di qualcosa d’altro dalla coscienza, qualcosa di non-cosciente, non-vissuto, non-pensato. Qualcosa, quindi, che rispetto all’evidenza come certezza soggettiva vissuta, può essere detto “inevidente”[25]. L’evidenza vissuta deve quindi essere considerata solo come il “luogo” dell’autodonazione (Selbstgebung) del fenomeno “inevidente”, che non solo si dà in carne ed ossa, “dà se stesso”, ma si dà “da sé stesso e a partire da se stesso”. Solo la donazione dà quindi vita all’evidenza fenomenologica autentica, come già alla riduzione.

 

1.2.2. Chiarito il significato fenomenologico dell’evidenza a partire dalla donazione, Marion può passare a precisare in che senso la correlazione tra riduzione e donazione venga a determinare l”essenza del fenomeno”. Con l’ausilio di preziose citazioni da Husserl, l’essenza del fenomeno viene vista nella “correlazione essenziale” - che in esso si realizza - tra l’”apparire” e “ciò che appare”. Come dice Husserl nell’Idea della fenomanologia, “la parola ‘fenomeno’ ha un doppio senso (doppelsinning), in virtù della correlazione essenziale fra l’apparire (Erscheinen) e ciò che appare (Erscheinenden)” (22).

Perché vi sia ‘fenomeno’, cioè, non basta vi sia un apparire soggettivo, un vissuto dell’apparire, bisogna che a questo versante soggettivo del fenomeno sia essenzialmente correlato il versante in qualche modo oggettivo di ciò che appare. Ma questa correlazione - osserva Marion - si ha solo in virtù della donazione, cui compete il compito di tenere unito sia il versante dell’apparire che quello di ciò che appare, senza che vi sia alcuna scissione tra la donazione dell’apparire e la donazione di ciò che appare.

Marion ricorda (24) lo stupore dichiarato da Husserl in L’idea della fenomenologia, di fronte alla constatazione di questa correlazione, che di colpo ci porta oltre la necessità di scegliere tra l’oggetto (come fa il “realismo”) e l’apparire (come fa il “fenomenismo”), perché l’uno e l’altro si collegano indissolubilmente nell’unica donazione.

Per riuscire però a “pensare” questa stupefacente correlazione, che sta al cuore del fenomeno stesso della conoscenza, Husserl compie, secondo Marion, un ulteriore decisivo passo: quello di distinguere due tipi di immanenza. L’“immanenza reale”, propria di ciò che materialmente inerisce alla coscienza, e l’“immanenza intenzionale”, che caratterizza ciò che si dà alla coscienza, cioè non sta al di là, non trascende il darsi alla coscienza. Come Husserl si esprime: “A guardarci più da vicino, l’immanenza reale si distingue pertanto dall’immanenza nel senso della donazione in persona (Selbstgebenheit) costituentesi nell’evidenza” (26)[26].

Decisivo, su questo punto, l’operazione con cui Husserl ha legato l’immanenza all’intenzionalità, superando così il pregiudizio psicologistico di considerare l’immanenza solo come immanenza reale, finendo così per ricondurre l’oggetto della conoscenza (le idee, i pensieri pensati), ad elementi reali della psiche.

 

“Non si tratta soltanto - sono ancora parole di Husserl - di ciò che è materialmente immanente, ma anche dell’immanente in senso intenzionale (das im intentionalem Sinn Immanente). I vissuti conoscitivi - che appartengono all’essenza della coscienza - hanno una intentio, essi mirano (meinen) qualche cosa, essi si riferiscono, in un modo o in un altro ad una oggettualità” (26, con corr. nostre).

 

In base a questa fondamentale distinzione, Husserl potrà parlare dell’intenzionalità come di una “trascendenza nell’immanenza”, in quanto con essa la coscienza va oltre l’ambito di ciò che le è realmente immanente anche se non oltre l’ambito di ciò che le è immanente in senso intenzionale, ovvero le si dona con evidenza[27].

Con questa acquisizione, anche la “riduzione” fenomenologica può essere meglio colta nella sua vera natura. La sospenzione del giudizio di esistenza non ha di mira l’esclusione di ogni trascendenza, ad esempio l’esclusione di tutto ciò che non è riconducibie ad un fatto di coscienza, ma solo l’esclusione della trascendenza rispetto all’ambito dell’immanenza intenzionale, cioè l’esclusione di tutto ciò che non è riconducibile ad una “donazione” di sé alla coscienza intenzionale. “Così la trascendenza - osserverà Marion - non si trova fuori circuito come tale (a prova di ciò essa resta ammessa come intenzionale), ma nella stretta misura in cui essa non soddisfa la donazione; così anche l’esistenza, ogni volta che non si percepisce, ma non quando perviene alla donazione” (28, con corr. n.).

In conclusione, secondo Marion la “donazione” determina tutte le tappe della fenomenalità: la riduzione, la correlazione delle due facce del fenomeno, l’immanenza intenzionale, ed infine l’essere stesso delle cose, che sono solo nella misura della loro donazione: “apparire in carne ed ossa equivale dunque finalmente ad essere, ma essere presuppone esser dato” (28).

Il paragrafo si chiude con una domanda: perché Husserl, che ha dato un posto così rilevante alla donazione, non ne dà mai una definizione? La risposta che Marion tenta è la seguente: a) perché è con essa che si definiscono tutti gli atti fenomenologici; b) perché essa stessa è un atto che si compie, non un oggetto; un atto che è come il rovescio della riduzione, sotto cui, quindi, resta nascosta; c) perché Husserl pensa a partire dalla donazione, ma lascia la donazione impensata. Pensare la donazione resta quindi il compito che Marion si prefigge con il suo lavoro (30).

 

1. 3. Il terzo paragrafo del capitolo primo porta avanti tale compito con un confronto critico con la concezione fenomenologica di Husserl ed Heidegger, di fondamentale importanza nell’economia del lavoro. I due elementi del titolo del paragrafo: “L’oggettualità e l’entità”, rimandano di fatto alle critiche che Marion rivolgerà ai due autori: il primo avrebbe finito per restringere l’ambito della donazione all’oggettualità (Objectité, Gegenständlichkeit), mentre il secondo l’avrebbe ristretta all’entità (étantité) o all’essere. Ma procediamo per gradi, seguendo il testo di Marion.

 

1.3.1. Critica ad Husserl. Una volta stabilito che la donazione apre il campo della fenomenalità, l’autore affronta il problema posto dalla seguente difficoltà: se ogni fenomeno si dà, la donazione non si disperde all’infinito nei molteplici modi con cui i fenomeni si danno? Il principio husserliano della donazione non resta, a questo punto, talmente indeterminato da scadere a semplice metafora? Sarà mai possibile individuare lo statuto comune dei differenti modi di donazione, che Husserl enumera già nel testo del 1907, ricomprendendovi, ad esempio, la cogitatio, il suo ricordo recente, il flusso della durata della coscienza, la cosa che si dà nella percezione esterna, ma anche ciò che viene immaginato, le varie figure della logica, fino al darsi del non-senso, del nulla?

Una prima risposta a questa difficoltà si trova invero già in Husserl, il quale osserva che non tutte le donazioni sono delle donazioni autentiche. Le donazioni autentiche, ovvero le “donazioni assolute”, cui corrisponde l’effettiva evidenza, dovranno quindi essere considerate come il metro di riferimento per vagliare i vari gradi di donazione ed eventualmente escludere ciò che vera donazione non è. Trasformando il noto effato spinoziano, veritas index sui et falsi est, Marion dirà: la donazione è index sui et non dati, cioè è criterio di se stessa come anche del non dato.

Ma una volta preso atto che si danno vari gradi di donazione, si ripropone la domanda circa ciò che precisamente la donazione accorda, quanto a statuto, figura e realtà ai fenomeni. “Che cosa mette in gioco il darsi?” (33).

La risposta che si trova in Husserl viene scandita da Marion come in due tappe successive.

a) Sebbene con una certa ambiguità e talora in modo solo implicito, Husserl avrebbe chiaramente ricondotto i vari modi della donazione a vari modi d’essere. Ciò che la donazione dà ai fenomeni sarebbe il loro statuto di enti: tra ente, apparire, dato vi sarebbe quindi un’equivalenza. Anzi, in Husserl si sarebbe giunti anche all’affermazione dell’equivalenza dell’essere stesso con l’esser-dato, riconoscendo così una chiara “portata ontico-ontologica alla donazione” (34). Per Marion tale portata ontologica, chiaramente testimoniata nelle lezioni del 1907, si estenderebbe anche all’altra operazione determinante della fenomenologia husserliana, la “costituzione”, che fin dal 1907, e poi definitivamente con il 1913, si definisce come “donazione di senso” (Sinngebung). Diventare un ente dipenderebbe infatti sempre - in Husserl - da un senso assegnato dal gioco dell’intenzione e dell’intuizione.

b) Ma la tesi che la donazione determini bene il senso fenomenologico che Husserl mantiene ad “essere” e ad “ente”, non toglie la difficoltà che nasce dalla doppia imprecisione nella quale Husserl lascia questa determinazione (v. pp. 35-37).

La prima imprecisione, riguarda l’equivalenza che Husserl pone tra l’essere/ente e l’”oggetto” (Gegenstand). Oltre non presentire la differenza ontologica di essere e ente, cosa giustifica questa supposizione che ente/essere non dica nient’altro che “oggetto”? Nonostante le precisazioni che si possono addurre, non sembra in alcun modo giustificato che il fenomeno che si dà venga alla fin fine sottoposto all’orizzonte dell’oggettualità che come tale non si darebbe.

La seconda imprecisione, derivata dalla prima, consisterebbe nel confondere la “donazione” stessa con l’oggettualità (Gegenständlichkeit). Certo l’oggetto può anch’esso darsi. Ma ciò non significa - osserva Marion - che il dato debba sempre o inizialmente oggettivarsi per potersi dare. Diversamente da Husserl, non l’oggettualità, ma la donazione offre quindi la norma ultima della fenomenalità[28]. La “fenomenalità della donazione” permette infatti al fenomeno di mostrarsi in sé e attraverso sé, mentre la “fenomenalità dell’oggettualità” finisce per ricondurre il fenomeno ad una costituzione a partire dall’ego di una coscienza che lo prende in considerazione con il suo noema. Questa sembra infatti essere la natura dell’oggettualità, come si è dispiegata dai medioevali fino a Kant e oltre[29].

 

1.3.2. Critica a Heidegger. Secondo Marion, Heidegger avrebbe ripreso il disegno incompiuto husserliano di pensare l’essere secondo la donazione; ma sarebbe infine indietreggiato di fronte all’originalità della donazione, lasciando così anche lui incompiuto tale disegno.

L’impegno a pensare l’essere secondo la donazione è testimoniato dal fatto che Heidegger ha posto e mantenuto la questione dell’essere nella figura originale dell’es gibt (si dà). Una espressione tedesca di cui Marion contesta l’abituale traduzione francese con il y a (c’è), che occulta tutta la semantica della donazione, per tradurre con la formula francese, inusuale ma a suo avviso più esatta, cela donne.

Nell’interpretazione di Marion, supportata dal riferimento ad alcuni ben precisi testi (38-40), già in Essere e tempo, del 1927, Heidegger avrebbe non solo delineato la differenza ontologica tra essere e ente, ma avrebbe pensato il dispiegarsi dell’essere stesso secondo la donazione. L’analisi del Dasein metterebbe infatti in luce che questo è l’orizzonte concreto (la condizione ontica) in cui l’essere (e non solo e non tanto l’ente) può dispiegarsi in quanto “si dà” (es gibt).

Nella conferenza Tempo ed essere, del 1962, cui è seguito, nello stesso anno; il seminario attestato dal Protocollo di un seminario sulla conferenza “Tempo ed essere”[30], Heidegger conferma e radicalizza ciò che già era presente in Essere e tempo, cioè che la fenomenalità ontologica si lega al “si dà” originario. Ciò avviene soprattutto con l’osservazione che l’essere, nella sua differenza dall’ente, si dà solo secondo la logica della donazione, cioè “ritraendosi” dal dato/donato. L’essere infatti non si dà al modo dell’ente, sul piano dell’essere che si presenta, ma solo ritraendosi da ciò che offre in dono dopo averlo consegnato, “inviato”. Al donare, infatti, è essenziale il donarsi, ritraendosi dal donato, “... in favore del donato (zugunsten der Gabe)” (41). Solo la donazione scoprirebbe quindi l’ente “nel (e senza il) suo essere” (43), aprendo così la via al nichilismo.

Vi sarebbe quindi in Heidegger una stretta correlazione tra “differenza ontologica”, “ritrarsi dell’essere dall’ente”, “donazione” e quel “nichilismo” che è il destino dell’oblio dell’essere che caratterizza l’occidente.

Nonostante questa chiara riconduzione dell’essere alla donazione, Heidegger avrebbe lasciato incompiuto il disegno di Husserl in quanto avrebbe inteso la donazione solo come un punto di passaggio dall’essere all’Ereignis (l’evento/avvento)[31]. Riflettendo sulla natura del “si” (es) che di ritrova nell’espressione “si dà (es gibt), Heidegger ne avrebbe bensì sottolineato la natura enigmatica, del tutto indeterminata e anonima, escludendo che esso possa interpretarsi in chiave metafisica o tanto meno teologica. Ma poi ne avrebbe offuscato l’enigmaticità anonima attribuendogli il nome di Ereignis; anzi, interpretandolo come Ereignis[32] . Ma in questo modo non solo l’essere ma anche la donazione scompare nell’evento/avvento. Heidegger avrebbe quindi meritevolmente messo in luce alcune proprietà fondamentali della donazione ma poi si sarebbe ritratto dal riconoscerle la funzione fenomenologica di principio, concependola solo come un tramite tra l’essere e l’Ereignis.

In conclusione, tanto Husserl quanto Heidegger avrebbero esitato a riconoscere nella donazione la funzione di principio fenomenologico, che può definirsi solo in sé stesso e a partire da sé stesso, subordinandola l’uno all’oggettività e l’altro all’entità propria dell’Ereignis. E avrebbero fatto ciò perché non hanno avuto il coraggio di andare fino in fondo nel processo di “riduzione”, che l’uno ferma davanti all’oggettività e l’altro di fronte all’entità. La questione di una donazione fenomenologica radicale può essere risolta solo portando fino in fondo la riduzione, secondo il principio: “tanta riduzione, altrettanta donazione”. Solo questo principio ci permette infatti di “definire la donazione in sé stessa e a partire da se stessa”, come Marion si propone di fare a partire dal paragrafo seguente.

 

1. 4. Il quarto paragrafo, intitolato “la riduzione al dato”(donné), intende passare dalla pars destruens alla pars construens, cercando di mettere “positivamente” in luce la donazione come tale. Cosa non facile, poiché, come sopra si è accennato, “la donazione non può mai apparire se non indirettamente, nella piega del dato” (47). Bisognerà quindi partire da un fenomeno dato per scoprire in esso una donazione irriducibile all’oggettualità o all’entità. Il fenomeno che Marion sceglie per avviare questa “analisi fenomenologica” è quello, del tutto comune ed indiscutibilmente visibile, del “quadro” (le tableau), ritenendo che già in esso si abbia “il caso di un fenomeno che per apparire pretende ostinatamente di sottrarsi a questi due paradigmi, che tende di mostrarsi benché sfugga sia all’oggettualità che all’entità; o meglio: perché e nella misura in cui si sottrae ad essi” (47).

Accenniamo alle linee di fondo dell’analisi, semplice da seguire nelle pagine di Marion ad essa dedicate. Si prenda un quadro qualunque (una casa di paese, un paniere di fiori....) e ci si domandi: quale fenomeno mi è così dato? O meglio: in che cosa, ciò che mi appare risente della donazione? Tre possibili risposte vengono esaminate e criticate come insoddisfacenti(48-57).

a) Il quadro è un “oggetto sussistente”, presente in quanto a portata di mano (vonhanden). Si osserva: la sussistenza di oggetto non è il proprium del quadro, che rimane anche se si cambiano tutti gli elementi materiali che lo compongono. Anzi, come nel caso del ready-made, lungi dal confondersi con gli oggetti che “mette in scena” (il bidet, il porta-bottiglia, ecc.) ci svia da essi, offrendone una nuova visibilità. Il quadro, infatti, non è una cosa da constatare, come un qualsiasi oggetto sussistente, ma la pura apparizione di se stesso, che si tratta di “contemplare”. Esso è quindi “ciò che non sussiste”.

b) Il quadro è un “oggetto maneggevole” e utilizzabile (zuhanden). Si osserva: anche se è vero che può essere “utilizzato” per produrre un piacere estetico nello spettatore, per una valutazione in moneta da parte di un mercante, di un giudizio estetico da parte di un critico, il quadro sfugge allo statuto dell’utilizzabile in quanto non si esaurisce in nessuna di tali forme di utilizzabilità; esso si compie, infatti, solo in quanto si rende manifesto, e lo fa a partire da se stesso. Ne sono conferma: 1) il fatto che, come il bello che Kant definisce, non ha di per sé alcuna finalità estrinseca; 2) come ben ha messo in evidenza Heidegger, l’utilizzabile appare solo scomparendo (se funziona bene, un attrezzo non viene percepito o avvertito come tale); 3) la cornice in cui lo si pone, separa effettivamente il quadro dallo spazio degli oggetti utilizzabili, dandogli uno “spazio di extraterritorialità”. Si ricordi il celebre quadro di Magritte, raffigurante una pipa, sotto il quale il pittore scrive: “Questa non è una pipa”. Il quadro è quindi “ciò che non serve”.

c) Il fenomeno del quadro si riduce, allora, alla sua “entità”, al suo carattere di “ente”(ens, Seiendes). Come dice Heidegger, che avrebbe perseguito fino in fondo tale via, l’essenza dell’”arte” consisterebbe “nel porsi in opera della verità dell’ente” (das sich-ins-Werk-Setzen der Wahrheit des Seiendes” (cit. 53, n.96).

L’obiezione che Marion fa a questa posizione, non consiste nel mettere in discussione che anche l’arte metta in opera la verità dell’ente (spesso, nell’arte, vediamo infatti le cose meglio che nella realtà!), ma che questa messa in opera ne definisca l’essenza. A suo avviso la fenomenalità della bellezza, in cui va vista l’essenza dell’arte, non si riduce a semplice modalità della fenomenalità della verità, quasi che l’arte fosse un semplice strumento per la manifestazione dell’ente, ma possiede una fenomenalità sua propria, tramite cui è forse possibile accedere “ad una fenomenalità non ancora conquistata - e senza dubbio più radicale, quella del dato” (54).

Nel caso del quadro ci troviamo infatti di fronte ad una fenomenalità che sembra affrancarsi dalla sua fenomenalità come cosa che è, quanto più esso appare come bello. Ne sono indizi, ad esempio, 1) il fatto che esso è talmente indifferente al suo carattere di cosa, da rimanere tale anche quando il suo supporto cosale sparisce (perché del tutto sostituito nel restauro) o si moltiplica (come nel caso della sua riproduzione); 2) il fatto che “il quadro non appare perché è, ma perché si espone” (56), cioè a condizione che alla sua visibilità come ente si aggiunga, o si sostituisca, la sua “sovravisibilità” estetica, l’evento della sua apparizione in persona (Selbsgegebenheit), il suo “sorgere” come quadro; 3) donde quella che viene chiamata la “liturgia della re-visione”, che mi fa ritornare indefinite volte a rivedere il quadro. Ulteriore indizio che esso non consiste nel suo essere (in tal caso basterebbe vederlo una volta sola) ma nel suo modo di apparire (che può ripetersi ogni volta in modo nuovo) (57). In conclusione: “esso non è”.

 

Criticate queste tre risposte alla domanda circa la “fenomenalità” del quadro (sussistenza, utilizzabilità, entità) ci si trova di fronte ad un paradosso di difficile spiegazione: una fenomenalità che tanto più appare quanto meno si rapporta ad un oggetto sussistente, ad un utilizzabile, ad un ente. A questo punto Marion ricorre alla testimonianza di artisti come Baudelaire, Cézanne, Kandinsky, per cercare di mettere in evidenza la necessità, perché si dia un bel quadro, che esso abbia la capacità di farsi visibile, di sorgere o salire al visibile con il suo senso; in altre parole, che esso produca un “effetto”, consistente nello choc emotivo, o incanto, che provoca in colui che lo guarda. “Ciò che appare del quadro in quanto quadro si chiama, dunque, effetto” (59).

Non si tratta però solo dell’effetto “fisico” che esso suscita facendo sorgere in noi la percezione del quadro o una emozione nel mio corpo; si potrebbe dire, piuttosto, che si tratta di un effetto “spirituale”, da intendersi, in termini cartesiani, come una “passione dell’anima”. Questa ne risulta infatti scossa con delle vibrazioni che non possono essere descritte né come oggetti, né come enti visibili, e tuttavia mi dicono della fenomenalità del quadro che si mostra in sé e a partire da sé[33]. Si pensi al celebre quadro di Kandisky, che Marion ricorda, in cui tramite l’inclinazione ocra e rossa della luce al tramonto, che occupa tutta la scena, colpisce il visitatore nella misura in cui produce in lui la “passione” di un’anima “affetta dalla profonda serenità del mondo salvato e protetto dall’ultimo rosseggiare del sole”(61).

Questo effetto, che non si produce sul modello dell’oggetto e dell’ente, tuttavia si dà. Nella sua fenomenalità ultima, il quadro quindi appare in quanto si dà nell’effetto che suscita. O meglio: il quadro, come tale invisibile (nel gesto del suo sorgere, nell’avanzare del suo darsi) si dà nell’effetto visibile che ci dona.

 

“Il quadro (e attraverso di esso ogni altro fenomeno a gradi ogni volta differenti), si riduce alla sua fenomenalità ultima in quanto dà il suo effetto. Esso appare in quanto dato nell’effetto che viene donato (que cela donne). Così si definisce l’essenziale invisibilità del quadro. /.../ Il quadro non è visibile, esso rende visibile; rende visibile in un gesto che resta per definizione invisibile - l’effetto, il sorgere, l’avanzata del darsi. Darsi esige un ridursi - ricondurre - a questo effetto invisibile che rende, esso solo, visibile. L’effetto risulta così nient’altro che il fenomeno ridotto al dato” (62)[34].

 

Per cogliere il pensiero di Marion su questo punto fondamentale, è importante ricordare che la riduzione fenomenologica, che egli intende mettere in atto, consiste in nient’altro che nella messa tra parentesi di tutto ciò che, trascendente, non appartiene alla fenomenalità pura, cioè l’oggettualità e l’entità, guidati dal fenomeno stesso della donazione.

L’esempio del quadro, il cui fenomeno abbiamo visto darsi di per se stesso, non è che un esempio, molto elementare. Esso non deve però far dimenticare fenomeni più complessi, che si danno egualmente senza oggettualità (dare il tempo, dare la vita, dare la propria parola) o senza entità (dare la morte, la pace, il senso ecc.), senza necessità di speciali riduzioni. In essi, infatti, la loro stessa designazione indica già la riduzione spontanea di tutto ciò che potrebbe offuscare il loro puro darsi, oggetto o ente che sia.

La considerazione di questi fenomeni, oltre a quello del quadro, potrebbe confermare la scoperta, cui si mirava, di una nuova classe di fenomeni ridotti all’effetto di “pura donazione”, a partire esclusivamente da se stessi.

 

1. 5. Il quinto paragrafo, intitolato “privilegio di donazione”, affronta il problema della “universalità” e della “primarietà” della donazione, ossia se essa possa effettivamente ricomprendere in sé tutti i tipi di fenomeni e se sia veramente impossibile ricondurla ad un orizzonte più ampio o diverso da essa. In tali universalità e primarietà incondizionate, consiste infatti il “privilegio” che s’intende riconoscere alla donazione come principio ultimo della fenomenologia.

Il tema, affrontato a partire dalle obiezioni che si possono avanzare rispetto alla tesi sostenuta, si concentra nell’esame di due fenomeni, il “niente” e la “morte”, che più di ogni altro sembrerebbero sfuggire alla donazione, ovvero non offrirsi come dati.

 

1.5.1. Quanto al niente (63 ss.), analizzato sotto vari aspetti: il nulla, la possibilità, l’oscurità, il vuoto, il non senso, Marion sostiene che con esso non si ha una sospensione della donazione quanto piuttosto una “donazione per denegazione”, ossia per il darsi di un’assenza[35]. Ciò può aversi in vari modi: ad esempio come angoscia del nulla (Heidegger), come intuizione della possibilità in quanto non-contradditorietà di una cosa (Leibniz), come eccesso positivo dell’infinito nel caso dell’incomprensibilità dell’infinito (Pseudo Dionigi, Cartesio) ecc. L’esame dei vari modi, sia pur paradossali, del darsi del “niente” si conclude con l’affermazione:

 

“Ogni negazione ed ogni denegazione, ogni negativo, ogni niente e ogni contraddizione logica presuppongono, infatti, una donazione che ci autorizzi a riconoscerli e così a dare accesso alle loro particolarità; in sintesi un dato che ci permette, non fosse che questo, di discuterli” (65-66).

 

Da questa considerazione segue un’importante presa di posizione nei confronti della concezione di Derrida, secondo cui la “differenza” (différence) e la relativa “decostruzione” esulerebbero dal campo della fenomenalità e quindi dalla donazione (66-68). Osserva Marion: se, come giustamente sostiene Husserl, anche il non-essere, il contro-senso (Widersinn), la contraddizione (Widerspruch) derivano anch’essi dalla donazione, e lo stesso potrebbe dirsi del non-senso, allora “ogni senso” resta nel campo della donazione; anche se non convalidato da alcuna presenza, anche se continuamente “differisce” dall’intuizione. E resta nel campo della donazione anche la famosa “decostruzione” del senso, che dovrebbe mostrare come ogni senso, che si suppone presente nell’intuizione, ad un’attenta analisi si risolve in altro da sé, non riuscendo a mantenersi come fenomeno dato.

L’errore di Derrida, secondo Marion, consiste nel far coincidere la donazione con l’intuizione, con la conseguenza di espungere dalla donazione, e quindi dalla fenomenalità, ciò che sfugge ad ogni tipo di intuizione. Seguendo alcune suggestioni di Husserl, bisogna invece, se mai, distinguere tra donazione intuitiva e donazione non intuitiva, ma mai parlare di non-donazione o di donazione negativa. Nel caso della decostruzione, si potrebbe ad esempio parlare di “donazione differita” (67). In sintesi:

 

“La donazione, index sui et non dati, fissa, dunque, l’orizzonte del non-dato quanto quello del dato, perché, precisamente, uno stesso orizzonte ha la funzione di circondare il dato da un circuito di non-dato” (68).

 

1. 5. 2. Alla donazione non sfugge neppure la morte (68 ss.). Si potrebbe pensare che essa la sospende in quanto annullando il destinatario della donazione rende addirittura impossibile la donazione. Ma a ben vedere le cose sono più complesse, come risulta anche dal linguaggio che parla di “dare” e “ricevere” la morte. Queste pagine dedicate alla morte sono particolarmente interessanti, soprattutto se lette alla luce di un affascinante saggio recente di Derrida intitolato Donné la mort[36].

L’analisi prende il suo avvio dalla definizione heideggeriana della morte come “possibilità dell’impossibilità”, propria del Dasein. Se vale questa definizione, la morte, che si presenta quindi come ben differente da un ente o da un nulla, lungi dal sopprime il destinatario della donazione ne caratterizza profondamente l’essere, come quella possibilità radicale che precede in lui tutte le altre possibilità. Obiettando al paradosso epicureo (la morte non è niente per noi perchè se noi ci siamo essa non c’è e se essa c’è noi non ci siamo più), si può quindi dire che la morte “appare ben prima che io scompaia”. Essa caratterizza il Dasein aprendolo al mondo come orizzonte di ogni intenzionalità, e così lo rende atto ad ogni possibile donazione.

Si potrebbe obiettare che in quanto “possibilità dell’impossibilità” la morte finisce per sospendere ogni altra possibilità, e quindi anche quella della donazione. Ma a ciò si può rispondere che essa dona, appunto, l’impossibilità, cioè “dona di sperimentare la finitezza come una determinazione esistenziale insuperabile del Dasein” (70). Un’esperienza che mi dà il senso della morte, della mia morte, molto più che non la “morte altrui”, che a prima vista sembrerebbe testimoniarmi l’effettività della morte. In conclusione:

 

“Alla morte niente sfugge, ma essa stessa non sfugge alla donazione: non solo perché si può “dare la morte” ma soprattutto perché essa si dà da se stessa. Di conseguenza, la morte non sottrae alla donazione ciò (o colui) che potrebbe riceverla per sempre nell’orizzonte dell’unica donazione” (71).

 

1. 5. 3. L’ultimo sottoparagrafo, intitolato “l’altro inconcussum” (71 ss.), porta a termine la difesa del “privilegio della donazione” mostrando che essa non solo è universale perché ricomprende in sé ogni tipo di fenomeno (l’intuizione, il concetto, l’essere, finanche il nulla e la morte....), ma che non è possibile negarla in alcun modo, ovvero sorpassarla con qualcosa di più originale che la ricomprenda in sé. Infatti qualsiasi cosa la voglia negare o contestare non farebbe che riaffermarla, dovendosi pur sempre presentare come un dato nell’orizzonte della donazione. La negazione della donazione risulta quindi autocontradditoria; donde l’assoluta “indubitabilità” della donazione.

A questo proposito Marion rileva una profonda analogia tra l’indubitabilità del cogito e quella della donazione. Come l’ego cogito si attesta come indubitabile ogni volta che pensa, sia pur nel dubitare, così la donazione si attesta ogni volta che dona, sia pur quando dona ciò che non è o rinnega il minimo dato. La donazione condivide quindi con l’ego il privilegio dell’indubitabilità assoluta.

Ma l’analogia tra cogito e donazione implica anche una radicale differenza. Mentre il cogito perviene all’indubitabilità del possesso di sé, o alla propria certezza d’essere, la donazione, donando, si conferma non perché si autopossiede ma perché si disfa di sé attraverso il donarsi nel dato, perché si abbandona producendo un altro da sé in cui scomparire.

 

“(La donazione) si assicura di se stessa, spossessandosene, producendo un altro da sé in cui poter scomparire, il dato. Così la donazione resta come ritirata, trattenuta nello sfondo, dissimulata dal suo dato; essa non appare, così, mai come tale, mai dunque al modo di un ente, una sostanza o un soggetto; in breve, mai come un inconcussum quid. Inconcussum forse, ma mai quid” (72).

 

Il paragrafo termina affermando che l’indubitabilità della donazione non è l’indubitabilità di un ente, sia pur l’ente ego ma, se mai, quella di un atto. Un “atto universale”, da non confondere con un principio trascendentale, comunque inteso, o con un “atto puro” che preceda e apra lo spettacolo del mondo; la donazione è indubitabile solo nel senso di quell’“atto fenomenologico”, di cui la riduzione è l’altra inseparabile faccia.

 

1. 6. Il sesto paragrafo, “darsi, mostrarsi”, conchiude il capitolo sulla donazione insistendo sullo stretto nesso tra il “dato” e la “donazione” da cui sorge, ed anche tra il “darsi” del dato tramite la donazione e il “mostrarsi” ad una coscienza. Darsi equivale dunque a mostrarsi, ma non v’è mostrarsi che non si origini da un darsi. Il nesso in questione è espresso con la metafora della “piega del dato”, in cui dato e donazione, darsi e mostrarsi sono strettamente intrecciati. Nella piega del dato vi è quindi sempre contenuta, sia pur in modo invisibile, la donazione.

 

La trattazione prende l’avvio da un’obiezione effettivamente mossa a Marion da Janicaud e citata in nota a p. 75. Tutta la trattazione non farebbe che giocare sull’ambiguità del termine francese “donation” e, più a monte, del termine tedesco “Gegebenheit”, unificando nello stesso termine generico significati differenti, come “dato” e “donato”, ma anche l’atto del “donare” con il suo risultato, il “dono”, la modalità del dato compiuto (il suo carattere di donato) e il rimando al donatore ecc. L’enfasi sulla donazione sarebbe quindi il frutto di un semplice effetto di linguaggio, che condurrebbe ad una “confusa illusione” senza alcun valore filosofico.

Marion risponde all’obiezione con due argomenti: a) non si tratta di sfruttare un’ambiguità, ma di riconoscerla; b) questa ambiguità s’impone senza scampo, per cui vale la pena di interrogarla esplicitamente al fine di articolare il concetto di donazione.

Tale interrogazione, cui Marion procede nel seguito del discorso, prende l’avvio dall’esame dell’uso francese del termine (75-80), per poi passare al problema della traduzione del termine tedesco (80-83).

1. 6. 1. Nell’uso francese donation comporta indubbiamente la dualità tra “dono-fatto” o “dono-donato” e l’atto di donazione da cui esso trae origine. Ora, questo atto di donazione, per un verso persiste nel dono come “dono donato”, ma per altro verso vi sparisce, lasciando essere il “dato” (datum) come puro e semplice dato. Stante questa situazione linguistica, è possibile, come riterrebbe l’obiezione, limitarsi al “dono donato” come semplice “dato”, scevro di ogni traccia di origine, evitando così l’ambiguità del termine donazione?

La cosa, secondo Marion, non è possibile, perché ogni dato, per quanto pensato come puro fatto bruto, porta sempre con sé “la costitutiva ambiguità della donazione”. L’esempio su cui Marion si sofferma, è quello, all’apparenza più neutro e minimale, dei “dati di un problema” scientifico, matematico o fisico. Anche in questo caso non ci troviamo di fronte dei dati senza alcun rinvio alla donazione, perché essi sono pur sempre dei dati offerti a qualcuno in vista di una soluzione e solo se intesi come dei “dati donati” è possibile affrontarli sullo sfondo di un modello coerente in cui ricercare con fiducia la soluzione. Così anche il “dato matematico” offre un esempio privilegiato del “donato”, ovvero di un “fatto” che non si è fatto da solo. Altri esempi potrebbero essere tratti (77, n. 124) dal “dare le carte” all’inizio di una partita, dai “dati genetici” di ogni individuo, dei “doni” artistici propri di una persona. Sempre, conchiude Marion, non è possibile separare, nel dono, la sua effettività dalla sua origine. “Dato e donazione non si identificano di certo, ma un dato senza la donazione non si può pensare né può apparire” (77-78).

Per esprimere questo rimando essenziale di ogni dato alla donazione, Marion ritorna a parlare di “piega del dato” (pli du donné), in cui i due versanti del dato e della donazione sono strettamente congiunti, anche se la donazione non si presenta con la stessa visibilità del dato in quanto rimane ad un tempo nascosta o ritratta nel dato e in esso dispiegata.

L’ambiguità della “donazione” non va quindi sciolta, sciegliendo tra “dato” e “donato”, tra “dato” e “donazione”, ma va mantenuta nella suo fecondità di “piega del dato”. La difficoltà iniziale quindi s’inverte: “non si tratta più di sapere se si può e si deve pensare il fanomeno a partire dalla donazione, ma se lo si può ancora pensare senza di essa” (80).

 

1. 6. 2. Dopo quanto detto, il problema della difficoltà della traduzione in francese del termine tedesco Gegebenheit (e potremmo dire lo stesso per l’italiano) si precisa come segue. Il termine, come Husserl stesso rileva, contiene in sé due possibili significati: il risultato della donazione (il dato) e la donazione come processo (il donare). Conviene usare per i due sensi due parole diverse, onde togliere l’ambiguità, oppure è meglio usare un termine solo, che mantenga i due sensi, per salvaguardare la “piega del dato”?[37]

Marion è decisamente per la seconda alternativa, quella da lui seguita scegliendo di tradurre con donation. A coloro che si ostinano a voler tradurre l’unico termine tedesco con due termini, egli rinfaccia - oltre l’