MARX E L’EPOCA DELLA FALSA APPARENZA

 

di Diego Fusaro

 

 

 

Ogni scienza sarebbe superflua, se la forma fenomenica e l’essenza delle cose coincidessero immediatamente. (K. Marx, Il capitale)

 

 

 

 

 

Uno spettro ossessionante e al tempo stesso ossessionato dagli spettri: è questa l’immagine inquietante di Marx che affiora da Spettri di Marx di Jacques Derrida, uno dei più grandi testi che sul filosofo di Treviri siano stati scritti dopo la caduta del Muro. Che Marx abbia assunto, oggi, i tratti specifici di uno spettro ossessionante che tutti cercano di tenere lontano ripetendo la solita litania funebre secondo cui «Marx è morto», è un punto assodato che nessuno si può sognare di negare: il papa, l’ex Presidente del Consiglio, perfino coloro che si propongono di «rifondare» il Partito comunista muovono dal comune presupposto che Marx sia morto e sepolto, e che la sua sia ormai solo l’esistenza spettrale di chi non appartiene più a questo mondo. Derrida, memore della lezione freudiana, ha il merito di averci insegnato che dietro a quest’operazione di presa d’atto di un decesso si nasconde una sorta di perverso rituale volto a scongiurare il pericolo che il morto risorga e, nel caso di Marx, torni a tormentare i vivi con la sua scomoda presenza. In altri termini, chi annuncia senza sosta la sua morte, sa bene che Marx è ancora vivo e vegeto e che oggi ha ancora molto da dire su ciò che accade nel mondo. Il punto del discorso derridiano che a noi più interessa, ora, è che se se oggi è diventato uno spettro ossessionante, al suo tempo Marx si trovava ad essere ossessionato da un folto stuolo di fantasmi a cui diede ininterrottamente la caccia per tutta la vita: fantasmi numerosi e poliedrici che, come si suol dire, non lo lasciavano dormire e lo perseguitavano senza dargli tregua. Tra questi, quello forse più inafferrabile e pugnace è lo spettro dell’apparenza che occulta ogni cosa in quel particolare momento storico della storia dell’umanità che è il «modo di produzione capitalistico». Prima di indossare i panni del rivoluzionario e compiere prese di Palazzi d’Inverno, se ci si pone nell’ottica marxiana occorre indossare il camice dello scienziato e guardare in faccia la realtà del capitalismo, ossia cogliere la sua essenza squarciando i veli mistificanti che la coprono rendendola invisibile: occorre conoscere a fondo ciò contro cui si combatte. Ma la conoscenza della realtà è tutto fuorché immediata: poiché, come scrive Marx, «le forme fenomeniche si riproducono con immediata spontaneità, come forme correnti del pensiero, il rapporto sostanziale dev’essere scoperto dalla scienza»[1], quest’ultima intesa nella sua  valenza di strumento neutro e demistificante in grado di guardare la realtà come essa è.   

In questo senso, Marx non è così rivoluzionario e innovativo come spesso lo si presenta, ma, piuttosto, si pone come l’erede legittimo della tradizione filosofica occidentale che muove dai Presocratici (si pensi al noto motto di Anassagora secondo cui «le cose visibili sono ciò che si vede delle cose che non si vedono»[2]), passa per Platone e poi per il Medioevo, fino a giungere all’Età moderna: i fenomeni non si risolvono in ciò che immediatamente vediamo, ma rimandano tutti a qualcosa di ulteriore che non si vede, ma dal quale derivano e del quale attestano l’esistenza; il che, del resto, esprime nel modo più efficace ciò che la tradizione occidentale ha propriamente inteso con l’espressione «fare filosofia», ossia mettersi alla ricerca di ciò che sta oltre l’apparenza per poter spiegare l’apparenza stessa, che altrimenti sarebbe destinata a rimanere un enigma irrisolvibile.

Se letto in trasparenza, tutto lo sforzo teoretico di Marx, dalla culla alla tomba, è racchiuso nel suo tentativo di spingersi sempre al di là dell’apparenza, sotto la pelle della realtà, per scoprire i meccanismi segreti che operano nel profondo e che risultano occultati dai «fenomeni percepibili ad una considerazione superficiale delle relazioni economico-sociali di una società borghese»[3]. Nella prospettiva marxiana, l’apparenza non si limita a ingannare, come spesso si ripete; fa ben di più: mostra l’esatto contrario delle cose, esibendo la libertà dove invece regna la schiavitù, liberi scambi dove dilagano forme di coercizione, semplici «cose» dove invece sussistono rapporti sociali. Essa mostra un «mondo capovolto», e lo fa perché il mondo stesso è a testa in giù: non solo le cose appaiono capovolte rispetto a come sono realmente, ma sono esse stesse, nella realtà, capovolte rispetto a come dovrebbero essere. In altri termini, il mondo è sbagliato ma l’apparenza lo mostra giusto, finendo per santificarlo così come è. Marx tematizza questa discrasia sempre presente tra la realtà e la parvenza sostenendo che «ogni scienza sarebbe superflua, se la forma fenomenica e l’essenza delle cose coincidessero immediatamente»[4], se cioè, per rievocare una terminologia di sapore kantiano, «fenomeno» e «cosa in sé» non fossero disgiunti. In questo senso, come la critica ha messo pervicacemente in evidenza, «i fenomeni della superficie sono, secondo Marx, forme fenomeniche»[5], le quali «nascondono l’intima struttura della società borghese»[6], legittimandola nella sua forma presente[7]. Ciò significa, molto banalmente, che chi si arresta alla superficie fenomenica della realtà non potrà mai prendere atto delle contraddizioni e delle storture di cui essa è intessuta. In riferimento a Marx, oltre che a Freud e a Nietzsche, Paul Ricoeur impiegava un’espressione molto efficace: «maestro del sospetto»[8]. Con quest’immagine, il pensatore francese metteva assai bene in luce come la realtà quale ci appare si configuri per Marx come una vernice che nasconde un livello più profondo, che deve essere individuato per poter comprendere e trasformare il mondo, contro ogni istanza adattiva. In particolare, come sappiamo, la realtà profonda coincide per il filosofo di Treviri con la sostanza economica: il mondo che ogni giorno percepiamo e in cui siamo perennemente immersi presenta una miriade di rapporti diversi, ma, se solo ci si spinge sotto l’epidermide della fenomenicità, si scopre che sono tutti rapporti «sovrastrutturali» e riconducibili, in ultima istanza, a quella «struttura» economica che, si sa, per Marx ne costituisce l’origine e la spiegazione. Non diversamente da Hegel[9], Marx sembra dunque operare una distinzione radicale tra gli «occhi fisici» e gli «occhi della ragione»: coi primi, comuni a tutti gli uomini, si vede la realtà quale si presenta nella sua parvenza, come un mondo dominato dalle idee e dalla politica, dalla libertà e dall’uguaglianza; coi secondi, appannaggio esclusivo del filosofo critico (benché Marx ben presto, al più tardi nel 1845, rigetti l’etichetta di filosofo), è dato trascendere il velo dell’apparenza e avvicinarsi, come avrebbe detto Husserl, «alle cose stesse», scoprendo che esse sono l’opposto di quel che sembrano. In virtù del fatto che, per Marx, «nella loro apparenza le cose spesso si presentano invertite»[10], non stupisce che chi fa affidamento sui soli «occhi fisici» finisca per credere che a muovere il mondo siano le idee, la religione, la cultura, senza rendersi conto che esse, al contrario, non sono se non l’emanazione diretta del sostrato economico, del «modo di produzione»: mutato quest’ultimo, si trasformeranno anche le prime, e non viceversa, come troppo spesso si crede. Questa inversione di cose, peraltro comune anche alle epoche storiche del passato, è solo una delle molte altre che innervano l’epoca moderna: un’altra, su cui dovremo tornare, è quella che veicolano senza sosta gli apologeti della società borghese, ad avviso dei quali il mondo moderno si presenta come un terreno di pacifiche transazioni armoniche tra possessori di merci che agiscono nel pieno rispetto delle divinità olimpiche della libertà, della proprietà, dell’uguaglianza e di… Bentham[11].

Abbiamo detto che, nella dialettica verità-apparenza, Marx è meno rivoluzionario del previsto, nella misura in cui si ricollega a una tradizione millenaria che affonda le sue radici nel pensiero dei cosiddetti Presocratici: tuttavia, la grande novità che il filosofo di Treviri introduce con la sua riflessione consiste nell’avere, per così dire, «storicizzato» l’apparenza, facendo di essa una manifestazione tipica dell’epoca moderna o, come egli preferisce chiamarla, del «modo di produzione capitalistico»: è in esso che trionfa nel modo più eclatante quella che Marx chiama la «falsa apparenza»[12] (täuschende Schein). Il «capitalismo» – si ricordi, per inciso, che nei suoi scritti Marx non usa nemmeno una volta questo termine – non è caratterizzato soltanto dalla «produzione per la produzione», dalla «valorizzazione del valore» e dall’immane quantità di merci che dà alla luce ogni giorno; a contraddistinguerlo è anche l’apparenza con cui immancabilmente si presentano le cose, come se fossero condannate a non offrirsi mai nella loro reale configurazione. L’epoca moderna – dice Marx –, nella sua opacità, è l’epoca fantasmatica per eccellenza, il regno umbratile in cui hanno cittadinanza fantasmi di ogni tipo: ogni cosa non è che una mera parvenza, un’ombra a cui tuttavia gli uomini danno credito come se si trattasse della realtà. Ciò risulta particolarmente evidente se si guarda a quel «feticismo» tipico dell’economia politica, in forza del quale vengono scambiati per cose quelli che invece sono rapporti tra uomini: per accorgercene, proviamo a volgere lo sguardo a una delle infinite «merci» che popolano il mondo e che vengono affastellate nei supermercati, veri e propri «templi della merce», come li chiamava Benjamin. Se la si considera sotto il profilo del «valore d’uso», non sorge alcun problema: il tavolo serve per mangiare, per appoggiare oggetti, e così via. Ma non appena si consideri quella merce dal punto di vista del «valore di scambio», ecco che succede qualcosa di davvero bizzarro: «il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare»[13]. Che cosa accade alla merce? Essa sembra un mero oggetto che si scambia sul mercato e che può essere acquistato in cambio di una certa quantità di denaro: ti do una certa cifra, e tu in cambio mi dai la merce in questione. Di qui l’impressione di avere a che fare con un semplicissimo rapporto tra cose che si scambiano: e proprio in ciò si annida la parvenza illusoria che deve essere smascherata. Infatti, rileva Marx, «quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica (die phantasmagorische Form) di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi»[14]. Per questa via, la merce viene a esercitare un dominio feticistico sugli uomini, vittime dell’illusione che essa sia semplicemente una «cosa» e non il prodotto del loro lavoro sociale; e, al tempo stesso, nella produzione di merci, i rapporti umani assumono la forma fantasmagorica di rapporti tra cose, la socialità viene feticizzata in coralità: la società capitalistica viene così a configurarsi eminentemente come una società di merci e di mercati, dei quali gli uomini non sono che gli intermediari. Come nella religione i prodotti del cervello umano prendono vita autonoma e vengono venerati come entità di natura superiore, così accade nel mondo delle merci, dove quelli che sono prodotti degli uomini e del loro lavoro sociale sembrano figure indipendenti e del tutto autonome, alle quali gli individui chinano il capo: la sola differenza è che con la religione gli uomini sono dominati dal prodotto del loro cervello, mentre con le merci sono signoreggiati dal prodotto della loro mano. È questo ciò che Marx etichetta come il «feticismo della merce»; a tutta prima, essa sembra un oggetto autonomo, ma se si riesce a superare l’apparenza si scopre che essa:

 

«rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti, avente esistenza al di fuori dei prodotti stessi. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili cioè cose sociali»[15].

 

E di fronte alle merci, si sa, gli uomini si comportano come di fronte ad altrettanti dèi, venerandole ossequiosamente, subendone il fascino irresistibile e, in definitiva, venendo da esse dominati: per averne una prova lampante, basta scendere in strada e vedere uomini e donne che camminano trascinati dal loro telefonino, comportandosi dinanzi alle merci come dinanzi ad altrettante divinità. La potenza descrittiva del discorso marxiano, la sua aderenza al reale, è ancora oggi di un’attualità sorprendente, a tal punto che, se si volesse fare con Marx l’esercizio che Croce faceva con Hegel[16], non si potrebbe che ascriverla tra gli aspetti ancora vivi del suo pensiero: essa mette straordinariamente in luce come siamo in balia di una realtà che produciamo noi stessi ma che è a tal punto opaca da sembrare autonoma e da dominarci minacciosa.

Rispetto alla merce, qualcosa di analogo accade col denaro, che del resto altro non è se non un particolarissimo tipo di merce priva del valore d’uso: anche qui la parvenza copre la realtà, e si ha l’impressione che esso non sia altro se non una pietra, un metallo, una cosa puramente corporea che esiste in natura, quando invece si tratta, ancora una volta, della cristallizzazione di un ben preciso rapporto sociale. Più precisamente, pare che nei rapporti di denaro siano cancellate tutte le antitesi e le contraddizioni della società borghese e che si sia tutti liberi e uguali per il semplice fatto che il denaro funge da equivalente universale. «Basta che tu mi abbia in tasca, non importa chi sei o cosa fai, il colore della tua pelle o la lingua che parli»: questo è l’imperativo apparentemente egualitario del denaro. Ma in verità, se ci si spinge nuovamente oltre la parvenza, si scopre che il rapporto di denaro è già intriso di contraddizioni insuperabili e che, in particolare, in esso è già presente, seppur opportunamente mascherata, la polarità tra lavoratore salariato e capitalista e la disuguaglianza che la contraddistingue: il primo non ha niente all’infuori dei propri muscoli, il secondo ha tutto ciò che si possa immaginare. In questo senso, il denaro non è, come sembra, un qualcosa di neutro che ritma pacifiche transazioni tra individui liberi e uguali: al contrario, esso rappresenta la forma dei rapporti sociali e, al tempo stesso, li sancisce organizzandoli. Non è certo un caso se Marx parli, a tal proposito, della «abbagliante forma di denaro»[17] (blendende Geldform), giocando sul fatto che esso, con la sua lucentezza, abbaglia non solo l’occhio fisico, ma anche quello della ragione, facendogli prendere, appunto, quell’abbaglio in forza del quale non si accorge che ciò che ha dinanzi non è un mero oggetto, ma piuttosto l’espressione di un determinato rapporto sociale che nasce necessariamente da una determinata forma di produzione sociale della ricchezza[18]. Ma il denaro abbaglia anche per un altro motivo: l’operaio che, a fine mese, se lo trova in busta paga ha l’impressione di prendere parte alla ricchezza generale, quando invece il denaro da lui ricevuto non è che «la forma argentata o dorata, cuprea o cartacea, dei mezzi di sussistenza»[19] necessari affinché egli si riproduca come capacità lavorativa, vale a dire come schiavo del capitale. In questo senso – dice Marx – l’operaio «ottiene sì denaro, ma soltanto nella sua determinazione di moneta, ossia solo come mediazione autosopprimentesi ed evanescente. Ciò che egli ottiene nello scambio quindi non è il valore di scambio, non è la ricchezza, ma sono mezzi di sussistenza, oggetti atti a conservare la sua vitalità, a soddisfare in generale i suoi bisogni fisici, sociali ecc.»[20]. In apparenza, col denaro che riceve, l’operaio può fare tutto ciò che vuole; in realtà, è costretto a utilizzarlo per un solo scopo: mantenersi in vita e continuare a lavorare alle dipendenze del capitale.

Veniamo però a quella che, a buon diritto, può essere considerata la più grande illusione che regna nel «modo di produzione capitalistico», quella contro la quale Marx combatte più strenuamente: se si guarda alla realtà come appare nello specchio deformante dell’economia politica, si ha l’impressione che nell’epoca moderna siano finalmente state soppresse la disuguaglianza e l’illibertà che inquinavano i precedenti modi di produzione. In questa maniera, il capitale può tranquillamente venir presentato come la potenza filantropica per eccellenza, quasi come se esso fosse un altro modo di dire civiltà. E, in effetti, questa apparenza è suffragata dai fenomeni che quotidianamente si percepiscono se ci si mantiene sullo strato superficiale della società: essi mostrano uomini liberi e uguali che effettuano scambi senza che su di essi sia esercitata alcuna costrizione, ma per il semplice raggiungimento dei propri fini. Sembra, in primo luogo, che l’operaio e il capitalista stipulino liberamente un contratto di lavoro, in cui si scambiano regolarmente delle merci di cui sono legittimi possessori: l’operaio dà al capitalista la sua forza-lavoro e questi, in cambio, gli corrisponde un salario con cui lo remunera per le ore di lavoro erogate. Ma sotto quest’apparenza si svolgono processi di segno opposto: innanzitutto, al momento del loro incontro sul mercato, non si fronteggiano due persone libere e uguali e, per di più fraterne, ma, al contrario, due individui del tutto diversi e già in conflitto. Infatti, da un lato troviamo un possessore dei mezzi di produzione e di sostentamento, e dall’altro una pura capacità lavorativa vivente che, per poter vivere, deve consumare mezzi di sostentamento e, per produrli, deve impiegare strumenti di lavoro di cui è sprovvista: ancor prima che il contratto sia concluso, si fronteggiano non già due persone libere e uguali, bensì un capitalista e un operaio. Cade in questo modo la prima apparenza su cui poggiano le convinzioni degli economisti borghesi: e il fatto che a fronteggiarsi siano un capitalista e un operaio, dunque due persone tutto fuorché uguali, fa venir meno anche l’altra illusione, quella secondo cui essi entrerebbero del tutto liberamente in rapporto tra loro tramite la stipula di un contratto suggellato da una fraterna stretta di mani. È vero, non grava alcuna costrizione sull’operaio, ed egli è effettivamente libero, formalmente, di stracciare il contratto e di non stringere alcun rapporto lavorativo col capitalista: ma qual è l’alternativa? Molto semplicemente, morire di fame: e questo in forza del fatto che egli è una capacità lavorativa che vive in un insopprimibile stato di bisogno che può essere soddisfatto esclusivamente dalla classe possidente. L’operaio sembra libero di apporre la propria firma sul contratto, e invece è costretto a farlo dalla sua condizione di nullatenente. Da ciò emerge nel modo migliore come il contratto non sia altro che una «fictio juris»[21], una finzione che maschera la costrizione reale dietro l’apparente libertà. In maniera piuttosto eloquente, Marx parla di «apparenza ingannatrice della stipulazione di un contratto fra possessori di merci dotate di eguali diritti e parimenti liberi l’uno di fronte all’altro»[22]. In apparenza l’operaio è libero e uguale al capitalista, in realtà è costretto a firmare il contratto di lavoro che quest’ultimo gli pone di fronte, pena il rimanere disoccupato e non avere di che sfamare sé e la sua famiglia: ecco una prova ulteriore che corrobora come la forma fenomenica delle cose mostri il loro contrario. Cediamo, per un istante, la parola a Marx:

 

«così svanisce anche l’apparenza che il rapporto possedeva in superficie, l’apparenza cioè che nella circolazione, sul mercato, si fronteggino proprietari di merci dotati di eguali diritti e distinti l’uno dall’altro – come ogni proprietario di merci – soltanto a causa del contenuto materiale della loro merce, del particolare valore d’uso delle merci che hanno rispettivamente da vendersi. Ovvero, questa forma originaria del rapporto non sussiste più che come apparenza del rapporto capitalistico che sta alla sua base»[23].

 

Il contratto di lavoro non è che un’apparenza: se nell’antichità il padrone di schiavi si impossessava dei suoi «strumenti vocali» senza tante sottigliezze, tramite la rapina e la tratta di esseri umani, nell’epoca moderna tale compra-vendita si è fatta più civile e viene mediata da un pezzo di carta su cui l’operaio deve apporre la propria firma, contribuendo a mantenere in piedi la finzione che tutto avvenga in piena libertà e uguaglianza. 

Se poi volgiamo lo sguardo al processo della produzione, ossia a quel processo in cui viene impiegata la capacità lavorativa acquistata, ecco che la discrasia tra apparenza e realtà, anziché essere ricomposta, giunge all’apice: anche qui, fenomenicamente, si ha a che fare con due individui che, liberi e uguali, si scambiano merci nel pieno rispetto dello scambio degli equivalenti, scambio in forza del quale non si dà più di quel che si riceve. In particolare, l’operaio mette a disposizione ogni giorno per dieci ore la propria capacità lavorativa e il capitalista, in cambio, gli corrisponde uno stipendio con cui – questo è il cardine del pensiero degli economisti – lo remunera per tutte quelle ore svolte al suo servizio. Ma in realtà che cosa accade? Anche in questo caso, se si abbandona la superficie fenomenica e ci si cala negli abissi di quello che Marx qualifica come il «laboratorio segreto» del capitale, si scopre una realtà diametralmente opposta a quella mostrata dall’apparenza. L’operaio non viene affatto pagato per tutte le ore svolte al servizio del capitalista: al contrario, delle dieci ore che ha trascorso in fabbrica, soltanto cinque gli vengono remunerate, più precisamente quelle che occorrono per riprodurre la sua capacità lavorativa. Molto banalmente: il valore della capacità lavorativa viene calcolato non in base al suo rendimento, bensì in base al costo necessario per produrla, ossia per garantire la sua sopravvivenza e la sua incessante ricomparsa sul mercato del lavoro[24]. Come ogni altra merce, anche la forza-lavoro racchiude un «valore d’uso» e un «valore di scambio», i quali – come è dimostrato nel primo capitolo del Capitale – sono reciprocamente indifferenti: è proprio in tale indifferenza che riposa il segreto del «plusvalore»; infatti, il capitalista acquista sul mercato la forza-lavoro mirando direttamente a questa «differenza di valore»[25], sapendo bene che il valore d’uso peculiare della forza-lavoro è quello di «esser fonte di valore, e di più valore di quanto ne abbia essa stessa»[26]. Il venditore della forza-lavoro, che – come abbiamo visto – è costretto a venderla dalla sua condizione di indigenza, «realizza il suo valore di scambio e aliena il suo valore d’uso»[27], che non gli appartiene proprio come al venditore d’olio non appartiene il valore d’uso dell’olio che ha venduto: in questo modo, la forza-lavoro diventa proprietà del capitalista che, pagandone il valore giornaliero, è suo legittimo proprietario per tutta la giornata: «anche il lavoro non pagato sembra essere lavoro pagato»[28]. È questa l’inaggirabile conseguenza che discende dall’assunzione della forma-merce e del suo scambio come unico paradigma su cui modellare anche i rapporti umani: ciò che a tutta prima sembra il non plus ultra della libertà e dell’uguaglianza (lo scambio tra due possessori di merci liberi e uguali), nella realtà si rovescia nel suo opposto; come ha scritto molto efficacemente, Etienne Balibar, la libertà e l’uguaglianza vengono a essere «il linguaggio con cui si maschera lo sfruttamento»[29]. Che l’operaio riceva nel salario il pagamento di tutto il lavoro svolto è solo una «forma fenomenica che rende invisibile il rapporto reale e mostra precisamente il suo opposto»[30]: il rapporto reale, naturalmente, è quello per cui l’operaio, non meno dell’antico schiavo o del servo della gleba, lavora a tutto vantaggio del suo padrone, ricevendo in cambio soltanto i mezzi di sussistenza con cui conservarsi in vita e far proseguire ininterrottamente lo stesso ciclo di produzione; e «questa falsa apparenza distingue il lavoro salariato dalle altre forme storiche del lavoro»[31], tutte accomunate dallo sfruttamento di classe. Se nell’antichità o nel Medioevo esso era immediatamente percepibile, anche in forza del fatto che era sancito dalla legge e dalla politica, nell’epoca moderna è mascherato dall’apparenza, la quale mostra uomini liberi e uguali che effettuano transazioni e nasconde i reali rapporti coercitivi che oggi, non meno di ieri, innervano la società. Alla luce di ciò, non meno del contratto, anche lo scambio esercitato nell’ambito della produzione è uno «scambio apparente»[32]. L’apparenza occulta un altro aspetto fondamentale: l’operaio esce dal ciclo produttivo come vi era entrato, ossia privo dei mezzi di sostentamento (che ha consumato per conservarsi in vita) e dei mezzi di produzione (che continuano ad essere monopolisticamente concentrati al polo opposto, nelle mani dei capitalisti); e dunque nuovamente costretto ad essere inghiottito dal processo di produzione:

 

«attraverso la pura e semplice continuità del processo cioè attraverso la riproduzione semplice, quel che all’inizio era solo punto di partenza, torna sempre ad esser prodotto di nuovo e viene perpetuato come risultato proprio della produzione capitalistica. Da una parte il processo di produzione converte continuamente in capitale, cioè in mezzi di valorizzazione e di godimento per il capitalista, la ricchezza dei materiali. Dall’altra parte l’operaio esce costantemente dal processo come vi era entrato: fonte personale di ricchezza, ma spoglio di tutti i mezzi per realizzare per sé questa ricchezza»[33].

 

Per questa via, la critica marxiana porta alla luce una verità assai inquietante che, proprio in quanto tale, doveva essere opportunamente coperta dall’«illusione necessaria» con cui viene velata dagli apologeti borghesi, i quali propagandano senza posa il capitalismo come il regno della libertà e della civiltà nella loro forma più compiuta: dietro alle divinità olimpiche della libertà, dell’uguaglianza, della proprietà privata e dell’utile che risplendono in superficie si nascondono le divinità ctonie dell’asservimento, della disuguaglianza, della mancanza di proprietà e della costrizione economica. L’epoca moderna, che a tutta prima appare come il regno della civiltà e della libertà – si ricordino gli esiti a cui perveniva la filosofia della storia hegeliana –, si rivela, a chi sappia sondarne le profondità inesplorate, come il mondo dello sfruttamento dell’uomo e della sua mancanza di libertà. Il capitale, che in apparenza si configura come l’eden in cui «regnano soltanto Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham»[34], rivela ben altra natura se lo si guarda nella sua reale essenza: la natura di un inferno in cui trionfa l’illibertà in luogo della libertà, la disuguaglianza in luogo dell’uguaglianza, la totale privazione in luogo della proprietà, la costrizione in luogo del libero perseguimento benthamiano dei propri fini. Che la libertà sia solo una finzione, l’abbiamo chiarito a sufficienza: l’operaio, di fatto, non è libero di scegliere se entrare o meno nel contratto di lavoro col capitalista, né tanto meno di uscirne, giacché l’alternativa, tutto fuorché allettante, è per lui rappresentata dalla morte per inedia. Che egli sia socialmente uguale al capitalista è sicuramente, tra tutte, la parvenza meno credibile: ancor prima che il processo di produzione abbia inizio, uno ha tutto, e l’altro manca dei beni di prima necessità. Quanto poi al fatto che essi siano proprietari di merci, è fin troppo facile dimostrare come sia un’affermazione priva di riscontri: quale è la proprietà di cui dispone l’operaio? La sua capacità lavorativa, vale a dire il suo corpo, i suoi muscoli e le sue braccia: sembra una proprietà, ma anche qui, se si guarda in faccia la realtà, ci si accorge che in verità è una non-proprietà, uno stato di indigenza e di privazione, una capacità che per mantenersi in vita richiede di essere costantemente alimentata con quei mezzi di sussistenza di cui solo il capitalista dispone. In questo senso, specifica Marx, «lo scambio di lavoro con lavoro – che apparentemente è la condizione della proprietà dell’operaio – ha come fondamento la mancanza di proprietà dell’operaio»[35], una mancanza che è il presupposto e, al tempo stesso, il risultato del processo di produzione, nella misura in cui il prodotto del lavoro finisce sempre di nuovo nelle mani del capitalista. In questo modo, salta in aria un altro presupposto su cui si regge il «modo di produzione capitalistico»: quello secondo cui chi lavora si arricchisce, e chi non lavora va in rovina. La lunga tradizione liberale che va da John Locke fino ad Adam Smith, passando per Malthus e Ricardo, non fa altro che ripetere, declinandola in sempre nuovi modi, la solita filastrocca secondo cui la proprietà privata – una delle grandi «vacche sacre» del capitalismo – risiede nel suo essere il frutto del lavoro umano. Anche tale presupposto non tarda a rivelare la sua natura di apparenza ingannatoria: infatti il capitale, da un lato, «come capitale crescente si appropria in misura crescente di lavoro altrui senza un equivalente»[36], intensificando sempre più l’asservimento a cui è piegato l’operaio, e dall’altro «pone sempre di nuovo la capacità lavorativa vivente nella sua indigenza soggettiva e priva di sostanza»[37], riproducendola cioè come assoggettata alla classe capitalista. Il diritto di proprietà su cui si fonda lo scambio tra i due possessori – liberi e uguali – di merci, e che dovremmo di conseguenza ritrovare anche alla fine del processo di produzione, «si rovescia dialetticamente»[38], dal lato del capitale, nel «diritto di appropriarsi del lavoro altrui senza dare un equivalente»[39] e, dal lato della forza-lavoro, «nel dovere di rispettare il prodotto del proprio lavoro e il proprio lavoro stesso come valori appartenenti ad altri»[40]. Hanno ragione i liberali: la proprietà scaturisce dal lavoro; ciò che tuttavia essi non dicono è che si tratta del lavoro altrui. Ancora una volta, l’apparenza mostra le cose invertite: chi lavora non possiede alcunché, e chi è possessore di ogni cosa se ne sta tranquillo senza lavorare.

Infine, si sgretola come apparenza illusoria anche quella in accordo con la quale tutti e due, capitalista e operaio, entrerebbero nel rapporto e lo conserverebbero esclusivamente in vista del loro utile personale, più precisamente dell’arricchimento, come vorrebbe l’utilitarismo ingenuo di Bentham: per il capitalista ciò è sicuramente vero, ma per l’operaio vale piuttosto il contrario, entrando egli in quel rapporto perché coartato dalla sua condizione di indigenza. 

Un aspetto piuttosto interessante, e spesso trascurato, dell’analisi marxiana è che l’apparenza non è un fenomeno di classe: essa investe tanto i capitalisti quanto gli operai. La parvenza dello scambio – afferma Marx – «esiste tuttavia come illusione anche nell’operaio»[41], che in molti casi pensa che il suo rapporto col capitalista non sia viziato da alcuna contraddizione o da alcuna forma di sfruttamento; illusione che viene rafforzata, nell’operaio, dalla circostanza in virtù della quale egli è liberissimo di «scegliere a chi vendersi»[42] e di «cambiare padrone»[43], e anche dal fatto che riceve i mezzi di sostentamento nella già ricordata forma «abbagliante» del denaro, forma che ingenera in lui l’illusione di poter partecipare alla ricchezza generale.

 In una simile prospettiva, in cui l’apparenza occulta i rapporti reali, rendendo invisibili le catene e lo sfruttamento, la critica marxiana si propone di trovare nella scienza una sua fedele alleata per risvegliare le coscienze degli operai, in modo che essi acquisiscano la «coscienza di classe», per dirla con un termine mutuato da György Lukács[44].

Uno dei punti deboli del discorso marxiano è sicuramente la concezione della scienza che esso fa valere, intendendola come strumento neutro e avalutativo: in ciò figlio del suo tempo, il tempo del Positivismo e dello scientismo senza limiti, Marx crede che scienza e tecnica – se sottratti al loro impiego capitalistico – possano essere strumenti neutri, privi di risvolti ideologici, e per ciò in grado di illuminare la realtà e di liberarla dall’opacità in cui essa è avvolta. Sono state soprattutto le ricerche dei Francofortesi – primi tra tutti Adorno e Horkheimer – ad averci aperto gli occhi, mostrando come questa concezione marxiana della scienza e della tecnica fosse una pia illusione che non corrispondeva affatto alla realtà. La scienza e la tecnica vengono al mondo grondanti di ideologia da ogni poro, per capovolgere una nota espressione marxiana; solo superficialmente esse possono apparire come strumenti neutri che, come comunemente si ripete, «dicono la verità» e «aiutano l’uomo». Almeno in questo, anche Marx, è il caso di dirlo, è caduto vittima dell’apparenza.

DIEGO FUSARO, gennaio 2007

 



[1] K. Marx, Das Kapital, Band I, 1867; tr. it. Il capitale, I, Editori Riuniti, Roma 1970, a cura di D. Cantimori, p. 592.

[2] Anassagora, DK B 21 a; tr. it. a cura di S. Obinu in H. Diels – W. Kranz, I Presocratici, Bompiani, Milano 2006, a cura di G. Reale, p. 1067.

[3] W. Euchner, Karl Marx, 1982; tr. it. Karl Marx, Mondadori, Milano 1991, cura di C. Vittone, p. 101.

[4] K. Marx, Das Kapital, Band III, 1894; tr. it. Il capitale, III, Editori Riuniti, Roma 1970, a cura di M. L. Boggeri, p. 995.

[5] W. Euchner, Karl Marx, cit., p. 101.

[6] W. Euchner, Karl Marx, cit., p. 101.

[7] «Con il concetto di superficie Marx intende sempre qualcosa che ha a che fare con l’“apparenza” e l’“illusione”, qualcosa quindi che copre e maschera l’essenziale” e che richiede di essere superato in quanto non vero»: O. K. Flechtheim – H.-M. Lohmann, Marx zur Einführung, 1988; tr. it. Marx, Massari, Bolsena 2005, a cura di G. Sgrò, p. 139.

[8] P. Ricoeur, De l’interprétation. Essai sur Freud, 1965; tr. it. Dell’interpretazione. Saggio su Freud,  Il Saggiatore, Milano 1967, a cura di E. Renzi, pp. 46 ss.

[9] Cfr. G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, 1837; tr. it. Lezioni sulla filosofia della storia, La Nuova Italia, Firenze 1963, a cura di G. Calogero e C. Fatta, vol. I, p. 11.

[10] K. Marx, Il capitale, I, cit., p. 587.

[11] Ivi, p. 208.

[12] K. Marx, Lohnarbeit und Kapital, 1849; tr. it. Salario, prezzo e profitto, Editori Riuniti, Roma 1970, a cura di V. Vitello, p. 55.

[13] K. Marx, Il capitale, I, cit., p. 103.

[14] Ivi, p. 104.

[15] Ibidem.

[16] Cfr. B. Croce, Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel: studio critico seguito da un saggio di bibliografia hegeliana, Laterza, Bari 1907. 

[17] K. Marx, Il capitale, I, cit., p. 80.

[18] «Il capitale non è una cosa più che non lo sia il denaro. Nell’uno come nell’altro, determinati rapporti produttivi sociali fra persone appaiono come rapporti fra cose e persone, ovvero determinati rapporti sociali appaiono come proprietà sociali naturali di cose»: K. Marx, Das Kapital. Erstes Buch, Der Produktionsprozess des Kapitals. Sechstes Kapitel. Resultate des unmittelbaren Produktionsprozesses, 1933; tr. it. Il capitale, libro I, capitolo VI inedito, La Nuova Italia, Firenze 1969, a cura di B. Maffi, p. 37.

[19] Ivi, p. 66.

[20] K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, 1858; tr. it. Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, I, pp. 234-235.

[21] K. Marx, Il capitale, I, cit., p. 629.

[22] K. Marx, Il capitale, libro I, capitolo VI inedito, cit., p. 99.

[23] Ivi, p. 97.

[24] «Il valore della forza-lavoro è il valore dei mezzi di sussistenza necessari per la conservazione del possessore della forza-lavoro»: K. Marx, Il capitale, I, cit., p. 203.

[25] Ivi, p. 227.

[26] Ivi, p. 228.

[27] Ivi, p. 228.

[28] K. Marx, Lohn, Preis und Profit, 1865; tr. it. Salario, prezzo e profitto, Editori Riuniti, Roma 1984, a cura di A. Santucci, p. 55.

[29] E. Balibar, La philosophie de Marx, 1993; tr. it. La filosofia di Marx, Manifestolibri, Roma 1994, a cura di A. Catone, p. 90.

[30] K. Marx, Il capitale, I, cit., p. 590.

[31] K. Marx, Salario, prezzo e profitto, cit., p. 55.

[32] K. Marx, Theorien über den Mehrwert, 1863; tr. it. Storia delle teorie economiche, Einaudi, Torino 1988, vol. III, a cura di E. Conti, p. 15.

[33] K. Marx, Il capitale, I, cit., p. 626.

[34] Ivi, p. 208.

[35] K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, cit., I, p. 499.

[36] Ivi, I, p. 435.

[37] Ibidem.

[38] Ibidem.

[39] Ibidem.

[40] Ibidem. Cfr. ID., Il capitale, I, cit., p. 626: «l’operaio stesso produce costantemente la ricchezza oggettiva in forma di capitale, potenza a lui estranea, che lo domina e lo sfrutta, e il capitalista produce con altrettanta costanza la forza-lavoro in forma di fonte soggettiva di ricchezza, separata dai suoi mezzi di oggettivazione e di realizzazione, astratta, che esiste nella pura e semplice corporeità dell’operaio, in breve, egli produce l’operaio come operaio salariato».

[41] Ivi, I, p. 234.

[42] K. Marx, Il capitale, libro I, capitolo VI inedito, cit., p. 66.

[43] Ibidem.

[44] Come è noto, l’espressione «coscienza di classe» (Klassenbewusstsein), come del resto lo stesso termine «capitalismo» (Kapitalismus), esula completamente dalla costellazione di parole proprie del lessico marxiano.

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