MELISSO DI SAMO

 

Di Valerio Guagnelli Scanzani

 

 

 

 

INDICE

1. Melisso

1. Introduzione

1. Opere.

2. La critica di Aristotele.

3. I rapporti con i Pluralisti.

2. Frammenti 0 e 1: ETERNITÀ.

3. Frammenti 2, 3, 4, 4a: Infinità.

4. Aristotele.

5. Gli epigoni dell’interpretazione aristotelica.

6. Interpretazione temporale.

7. Il concetto di pan e la complementarità di tempo e spazio.

8. L’analisi della struttura interna del frammento 2.

9. Sui frammenti 3, 4, 4a.

10. Considerazioni.

4. Frammenti 5 e 6: Unicità.

5. Frammento 6a e 7,1: Omogeneità.

6. Frammento 7,2-3: Immutabilità.

7. Frammento 7,4-6: Assenza di Sofferenza e Dolore

8. Frammento 7,7-10: Immobilità e Pienezza.

9. Frammento 8: Illusorietà del molteplice.

10. Frammenti 9 e 10: incorporeità.

2. Conclusioni.

3. Bibliografia

 

 

 


1. Melisso

 

 

1. Introduzione

Lo scopo della tesina è in primo luogo quello di fornire un analisi più attenta di quattro problematici e discussi frammenti, e cioè il 2,3,4,9; analisi che risulti variamente dal confronto di questa con le conclusioni raggiunte e metodologie utilizzate dagli studiosi per l’esegesi degli stessi, oppure dal confronto di queste conclusioni e metodologie fra di loro. Nel fare ciò ho ritenuto che un esposizione compendiata dei rimanenti frammenti e delle più importanti considerazioni degli studiosi su questi, poteva essere facilmente inserita per fornire così una visione d’insieme sia dei problemi ermeneutici dei frammenti, nonché della dottrina melissiana stessa.

1. Opere.

Sembra certo che Melisso abbia scritto una sola opera «peri jusewV h peri tou ontoV», ciò è confermato sia dalla dossografia che dallo stesso scritto critico di Gorgia «peri jusewV h peri tou mh ontoV»[1]. I frammenti a noi pervenuti sembrano essere 10, secondo che pensano il Covotti e il Diels, ma, come vedremo, alcuni di questi sono stati messi in discussione riguardo alla loro autenticità (cfr. Frg.9 e 10), così come altri se ne sono ricavati (cfr. frg.0, 4a e 6a).

2. La critica di Aristotele.

Il problema maggiore che si incontra studiando Melisso è quello della questione della sua importanza all’interno dei pensatori Presocratici. Questo problema sorge in conseguenza all’accusa, che Aristotele[2] rivolge a Melisso, di essere “pensatore rozzo” e “grossolano”, accusa che ritroveremo nei pensatori antichi a lui posteriori, nei neoplatonici, che amplificheranno la critica, e in alcuni studiosi moderni che hanno contribuito alla riconferma di quella condanna. Lo Zeller e il Reinhardt lo considerano un dilettante, il Capelle lo esclude del tutto dai suoi «Presocratici», e ancora più incisivo sarà poi l’Albertelli[3]. Ma di recente si è dimostrata, la critica di Aristotele, essere distorcente verso tutti i filosofi predecessori. Egli critica tutta la filosofia anteriore col solo scopo di affermare la sua, ma nel perseguire la sua ambizione filosofica lascia fuori ogni indicazione storica con estremo danno ermeneutico e quindi storiografico. Penso quindi di concordare col Cherniss quando dice «…even the historical arguments are so generalised that their identification is almost impossible. These are set together on the same plane without any concern for historical accuracy. […] his method is aggravated by his firm belief that each previous thinker was groping blindly for the truth under the constraint of necessity…»[4], e con l’Albertelli che fa notare come «Aristotele tratti con una certa libertà la dottrina…», e come «…ne abbia potuto fare una contaminatio»[5]. Gli stessi critici di Melisso, prima di Aristotele, lo trattano conferendogli molta più importanza: p.e. Gorgia per avversare l’eleatismo si riferisce a Melisso, oppure nel “corpus hippocraticum” lo troviamo posto su un livello più alto degli stessi ionici; anche Platone mostra più rispetto per Melisso pur ritenendolo inferiore a Parmenide. Comunque approfondiremo i termini di detta critica nel capitolo 3.1, quando si discuterà del frammento 2 che è appunto oggetto di quella.

3. I rapporti con i Pluralisti[6].

Nei frammenti 7 e 8 alcuni studiosi, in modi e per motivi diversi, hanno ritenuto di vedere un qualche rapporto o polemica di Melisso con i filosofi pluralisti. È importante allora avere un quadro cronologico preciso per capire qual è la situazione sotto questo punto di vista. Che Melisso abbia scritto in polemica con questo o quel filosofo pluralista non è punto certo, perché non si è potuto dimostrare che essi siano più vecchi di lui. Anche questo problema verrà ripreso nei capp.7-9.

Anassagora è circa della stessa età di Melisso, così è difficile che questi abbia letto i suoi scritti. Leucippo (forse discepolo di Melisso) ed Empedocle sono comunque più giovani di lui, seppure di pochi anni. Diogene di Apollonia è molto più giovane. Melisso conosceva Zenone e le sue opere, anche perché frequentavano la stessa scuola di Parmenide. Su Eraclito vi è solo una notizia secondo cui questi si conoscevano e che Melisso lo impose all’attenzione degli Efesini.

2. Frammenti 0 e 1: ETERNITÀ.

FR.0 - «se nulla è, che cosa si potrebbe dire di esso, come se fosse qualcosa [che è].» [7]

DK B1 - «Sempre era quel che era e sempre sarà. Ché se si fosse generato, sarebbe necessario che prima che si fosse generato non fosse stato nulla: ma se non fosse stato nulla, in alcun modo si sarebbe potuto generare nulla dal nulla.»

Il Frammento 0, riportato soltanto dal Reale, introduce il successivo frammento 1, e come probabilmente autentico, o comunque fedele alle intenzioni di Melisso[8]. Nessuno degli altri studiosi parla mai di questo frammento, neanche per negarne l’autenticità. Infatti come dice il Reale contro di esse «non è stata addotta nessuna valida argomentazione», mentre invece vi sono molti studiosi che hanno sostenuto la tesi dell’autenticità[9].

Dai due frammenti, quindi, possiamo ricavare due importanti principi che Melisso condivide con Parmenide e coi naturalisti e con cui egli inizia il suo ragionamento. Il frammento 0 in particolare rappresenterebbe una ulteriore conferma del fatto che Melisso intende partire da punti condivisi con Parmenide; essi assiomi sono:

1. l’esclusione del nulla (Parmenide) ;

2. “nihil ex nihilo” (Ionici).

Ma è il concetto temporale la grande differenza che Melisso sembra mostrare già in questi frammenti rispetto a Parmenide, e che consiste nell’aver incluso l’«era» e il «sarà» nella definizione dell’essere; negando così quanto afferma Parmenide nel frammento 8,v.5 «ne mai fu, ne sarà, perché è ora tutto insieme», cioè venendo a negare il nun parmenideo; e su ciò, come nota Kirk[10], Melisso arriva a delle conclusioni più chiare di quelle del maestro; il Calogero aggiunge che Melisso è portato a ciò perché in lui l’ontologizzazione dell’«è» parmenideo non è un problema ma un punto di partenza. Comunque la maggior parte degli studiosi ritiene che Parmenide si riferisca ad una concezione extratemporale o atemporale, e che Melisso neghi ciò e affermi di contro l’eternità o pantemporalità. L’unico a contestare questa posizione è il Taran[11], dice infatti quest’ultimo «…col che intende il tempo presente del verbo essere. Il presente tuttavia è nel tempo; questo dimostra che Parmenide non intese qui affermare la atemporalità dell’essere, perché, se questa fosse stata la sua intenzione, non avrebbe potuto non sapere che il presente è una parte del tempo». In effetti per avallare questo ragionamento bisognerebbe stabilire se effettivamente Parmenide intendesse il tempo presente del verbo essere. E forse ha ragione il Mondolfo nel dire come non sia «in Parmenide stesso, così recisa trascendenza rispetto alla successione temporale, da escludere ogni riferimento a quest’ultima»[12]. Reale poi, si unisce a questa linea interpretativa, arrivando a dire che entrambi intendono una sorta di atemporalità solo che mentre Parmenide pone l’accento sul presente (nun), Melisso, volendo portare alle estreme conseguenza l’imperativo parmenideo, attribuisce all’essere anche il passato e il futuro[13].

Quello che mi sembra essere il punto fondamentale che si può trarre da tutte queste considerazioni è sicuramente la trasformazione dell’aspetto temporale dell’essere di Parmenide. E comunque più che discutere se Melisso sia o meno passato dall’atemporalità all’eternità, o se entrambi abbiano concepito diversamente un certo concetto di atemporalità, ritengo sia più interessante notare che già qui Melisso vuole togliere dall’indeterminatezza concetti parmenidei rimasti oscuri (in questo caso l’aspetto temporale), tramite l’applicazione di un rigorismo logico (che denota tra l’altro anche un certo coraggio, soprattutto per i problemi che ciò creerà al mondo del molteplice), i cui risultati, come vedremo, porteranno ad un’antinomia che determinerà la definitiva dissoluzione dell’eleatismo.

3. Frammenti 2, 3, 4, 4a: Infinità.

DK B2 - «dal momento dunque che non è nato ed è e sempre sarà così anche non ha principio ne fine, ma è infinito. Perché se fosse nato avrebbe un principio (a un certo punto infatti avrebbe cominciato a nascere) e un termine (a un certo punto avrebbe terminato di nascere); ma dal momento che non ha ne cominciato ne terminato e sempre era e sempre sarà, non ha ne principio ne termine. Non è infatti possibile che sempre sia ciò che non esiste tutto intero».

DK B3 - «ma come sempre è, così anche deve essere sempre infinito in grandezza».

DK B4 - «ciò che ha principio e fine di sorta, non è ne eterno ne infinito».

FR.4a - «infatti il limite confinerebbe col vuoto».[14]

 

L’importanza di questi frammenti sta innanzitutto nel fatto che in essi, più che in altri, Melisso si discosta in modo significativo dalla dottrina di Parmenide (cfr. frg.8 vv.26-33 e vv.42-44). Tralasciando le argomentazioni dei vari studiosi a riguardo, che sarebbero allora da trattare in altra sede, è indubbio che non è in alcun modo possibile attribuire all’essere di Parmenide l’infinità, mentre è invece evidente una sorta di limite che implicitamente (poiché i termini della questione sono piuttosto sfocati) gli conferisce. In definitiva si può essere sostanzialmente d’accordo col Reale «l’affermazione della finitudine dell’essere in Parmenide è arbitraria, e, quindi, è un presupposto […] che Parmenide non riesce a conciliare con la sua tesi di fondo». Parmenide in sostanza sembra in difficoltà. Ed è qui allora che si riattacca Melisso, il quale si avoca la responsabilità di prendere uno dei corni del dilemma creatosi in Parmenide, e di portarlo alle estreme conseguenze (il che potrebbe, senz’altro, far pensare ad un facile semplificare di tutta la problematizzazione parmenidea, con la conseguente svalutazione del pensiero di Melisso); cosa che gli comporterà la critica di Aristotele e che sarà ripresa in parte da molti interpreti moderni.

4. Aristotele.

Quindi per cercare di fare chiarezza circa la legittimità dell’accusa sollevata da Aristotele bisogna definire innanzitutto in cosa quest’accusa consista. Egli attribuisce l’epiteto “rozzo” o “grossolano” a Melisso in quanto questi avrebbe usato, nel suo ragionamento, un paralogismo[15], e dato che Aristotele parla di questo paralogismo, di premesse e conclusioni, è evidente che vuole vedere il ragionamento di Melisso in forma di sillogismo. Esso paralogismo consisterebbe nell’aver attribuito carattere di necessità alla conclusione che identifica il generato col finito, quando invece quest’ultima è solo una qualità accidentale delle due categorie. In sostanza egli ci fa notare che ”se A allora B” non necessariamente “se B allora A”. Aristotele ha ragione se ci si pone dal punto di vista del ragionamento sillogistico, ma, come vedremo, questa posizione risulterà storicamente distorcente. Si può allora rimarcare quanto affermato nell’introduzione, e cioè il fatto che Aristotele abbia manipolato le filosofie precedenti Ad usum Delphini. Riprenderemo l’argomento comunque in fase conclusiva, ora vediamo le posizione degli altri studiosi[16].

5. Gli epigoni dell’interpretazione aristotelica.

Si possono suddividere in due correnti di pensiero: la prima fa capo allo Zeller, Gomperz, Windelband[17]. Essi credono di potersi appoggiare all’accusa di Aristotele con l’argomentazione detta “quaternum terminorum”, ma in effetti sono due cose diverse, perché con ciò si viene ad indicare una precisa intenzionalità (secondo il Reale che usa il termine «surrettiziamente») nel salto logico che scambia o mescola l’infinità temporale con quella spaziale.[18]

L’altro ramo invece fa capo all’Albertelli e al Ross. Costoro accettano essere decisivo in sede storiografica ciò che Aristotele rileva in sede teoretica[19]. L’errore di Melisso sarebbe stato quello di ritenere esatta la “conversio simplex”, cioè una volta stabilito che ciò che nasce ha inizio e termine allora ciò che non nasce non ha inizio ne termine, ma ciò sarebbe invece un passaggio logico errato, mancando l’identità tra soggetto e predicato[20], e questo perché questi interpreti ritengono che il Samio pensi l’inizio come attributo esclusivamente spaziale. Secondo me però l’Albertelli, criticando il Calogero, non s’avvede che la tesi di questi è conseguente la sua, dimostrando anche qui la rigidezza della sua posizione nei confronti di Melisso. Il Calogero, infatti, sa della mancata identità concettuale tra il soggetto “essere” e il predicato “è infinito” (il primo è riferito al tempo, il secondo allo spazio) e allora pensa che questo errore non sia dovuto ad un’effettiva “rozzezza” di Melisso, quanto a quella più generale in cui versava ancora il concetto di “essere” oscillante e commisto di tempo e spazio.

Pasquinelli[21] individua due elementi di critica molto convincenti, verso tutti questi modi di interpretare Melisso. In primo luogo tutti riducono il ragionamento in forma di sillogismo, dimenticando che esso non era in questa forma perché si fonda su elementi impliciti, che non possono essere messi in secondo piano. Inoltre nella riduzione a sillogismo si lasciano fuori gli elementi della chiusa del ragionamento (che vedremo saranno fondamentali per una corretta interpretazione).

6. Interpretazione temporale.

Un altro gruppo di studiosi (Offner, Burnet, Covotti, Mondolfo[22], Nestle) sostengono la tesi secondo cui Melisso con “infinità”, nel frammento 2, si riferisce esclusivamente all’infinito temporale. Essa tesi è debole, perché contrasta con tutta la dossografia e con il preciso significato che il termine ha negli altri frammenti, e poi perché introdurre un nuovo termine, e solo nel frammento 2, visto che prima aveva sempre usato “eterno” e “sempre”, termine che sarà poi usato, come questi stessi studiosi ammettono, in senso spaziale? Si veda infatti il frammento 3, oppure il passo di Aristotele “de gen. et corr.”.

7. Il concetto di pan e la complementarità di tempo e spazio.

Abbiamo poi un altro gruppo di interpreti (Kern, Apelt, Chiappelli, Mondolfo, Tannery[23], Calogero[24], Joel, Vermehren[25]) che ho raggruppato perché propongono delle linee interpretative[26] che appaiono, viste nel loro insieme, risolutive. Infatti solo con esse ci si pone, a mio avviso, sulla strada per una giusta valutazione del pensiero del filosofo Samio. Secondo che pensano questi studiosi, il ragionamento è attaccabile più nella forma che nel contenuto: il Kern e l’Apelt ritengono i due concetti inscindibili o reciprocamente condizionati, oltre a ciò l’Apelt aggiunge che i due concetti sono «reciprocamente connessi mediante il concetto di totalità (pan)», perché solo ad esso possono essere attribuiti infinitudine ed eternità; il Mondolfo e il Calogero precisano che la spazialità dell’essere è consequenziale solo nelle parole, ma non nel concetto, il quale contiene, per la sua arcaicità, entrambe le accezioni. Per il Calogero non è sufficiente il concetto di pan e allora aggiunge (in modo arguto, ma anche secondo me un po' artificioso) che il passaggio dall’ aidion all’ apeiron, Melisso, non solo lo attua per mezzo dell’olon, ma soprattutto per mezzo del concetto di suneceV (continuo) che include l’apeiron ed è incluso nell’aidion e quindi è così dimostrata l’infinità spaziale con quella temporale[27]. Ma, tornando al concetto di “tutto”, il Chiappelli fa inoltre notare come lo stesso Aristotele in A10 menzioni il concetto pan, ma lo esautori poi del suo significato originale. Anche Mondolfo fa notare un’aporia in Aristotele, il quale si contraddice se, riferendoci alle sue argomentazioni, contenute nella “fisica” III.4.203, sull’arch’-che in quanto tale impedisce al suo contenuto di essere il tutto- le compariamo con la sua accusa. In sostanza il tutto per essere tale deve comprendere tanto l’eternità quanto l’infinità (spaziale). Ora non ci resta che esaminare l’ultimo tentativo di interpretazione e poi passare alle conclusioni.

8. L’analisi della struttura interna del frammento 2.

Infine abbiamo questi ultimi due studiosi il Cherniss e il Verdenius. Il Cherniss nel suo scritto[28] fa un analisi accurata della struttura logica di questo frammento, ricostruendolo nel seguente modo:

«poiché, dunque, esso non è il risultato di un processo,

[1] esso è e sempre era e sempre sarà

[2] e non ha principio o fine, ma è infinito

[a] poiché se fosse stato il risultato di un processo, avrebbe un principio ( poiché in un dato tempo sarebbe iniziato) e una fine (perché in un dato momento sarebbe stato alla fine del processo),

[b] ma poiché non è cominciato ne finito e sempre fu e sempre sarà, esso non ha principio ne fine,

[c] perché non è possibile che sempre sia ciò che non è il tutto».

E arriva alle conclusioni che:

A)  [1] è dimostrato da [a] e [2] è dimostrato da [b], [a] e [b] sono collegate da [c]; quindi…

B)  per Melisso l’essere non è un processo, perché…

C)  l’inizio di un processo è sia spaziale che temporale, quindi…

D)  l’essere, in quanto tale, deve essere sempre e ovunque.

Il Verdenius parte da questa impostazione e ammette esserci ancora confusione. Egli fa notare che [c] non può essere la connessione di [a] e [b] perché [b] non è altro che la conversione di [a]. Inoltre Melisso formula la seconda premessa in modo che contenga implicitamente la conclusione, così il ragionamento per il Verdenius sarebbe:

E) l’essere è eterno;

F) ciò che è eterno non ha principio ne fine;

G) dunque l’essere non ha principio ne fine (è infinito).

Ma la loro analisi non è molto efficace, perché non sembra introdurre alcuna novità sostanziale, infatti: il Cherniss viene a concordare con quanti pensano che i due concetti (tempo e spazio) siano «due dimensioni complementari», e anche il Verdenius arriva alla conclusione della consequenzialità, cioè che sostanzialmente l’essere «se non fosse infinito non potrebbe essere eterno».

9. Sui frammenti 3, 4, 4a.

I frammenti 3 e 4 riprendono le argomentazioni del 2. Per l’Albertelli entrambi i frammenti 3 e 4 sembrano essere una rielaborazione del 2 da parte di Simplicio con lo scopo di difendere Melisso dalle accuse di Aristotele: il 3 vuole mettere in risalto l’infinità “sostanziale”, il 4 tenta di correggere il tiro di Melisso in modo che l’accusa non faccia più presa. Di parere opposto è invece il Calogero[29], il quale, dal suo punto di vista, non contempla affatto la possibilità di manomissione da parte di Simplicio, bensì trova qui un ulteriore conferma alla sua teoria della «coessenzialità più profonda» o «intrinseca subordinazione e connaturalezza» tra infinito ed eterno.

Per ciò che riguarda il frammento 4a, in cui l’infinità scaturisce dall’impossibilità del vuoto (vedi DK B7,7-10), il Reale[30] dice «…Melisso ha ritenuto necessario dichiarare l’essere infinito proprio perché finitudine e non esistenza dello spazio vuoto non sono conciliabili e, dunque, per togliere una contraddizione del sistema di Parmenide», esso è stato inserito come testimonianza da Diels-Kranz, ma solo col Reale esso viene proposto come «autentico […] o, comunque, una precisa eco di un frammento melissiano». In effetti le argomentazioni addotte dal Reale e da altri studiosi (Zeller, Raven) appaiono essere più tosto convincenti, e importanti visto, soprattutto, che si tratta di una testimonianza di Aristotele che inficia la sua stessa famosa accusa; dice infatti il Reale «questa prova, si sottrae completamente alle critiche della Fisica e degli Elenchi sofistici».

10. Considerazioni.

Da tutte queste considerazioni si possono trarre dei punti, a mio avviso molto convincenti:

1.si deve escludere l’utilizzo della forma sillogistica come tecnica ermeneutica, perché come abbiamo visto non chiarifica il pensiero di Melisso;

2.il concetto di pan è quello che giustifica tanto l’eternità quanto l’infinità: «l’essere non è infinito perché eterno, ma è infinito perché è tutto»[31], però esso concetto onnicomprensivo non esaurisce l’interpretazione…

3.è molto probabile che i due concetti siano in Melisso ancora intrinsecamente connessi: non si può escludere questa tesi, ché altrimenti, secondo me, non si capirebbe perché nel frammento 2 Melisso dica «se infatti fosse nato, avrebbe un principio e una fine»: una sorta di arcaicità del pensiero, e in questo sono d’accordo col Calogero, è ancora presente;

4.le varie argomentazioni di Aristotele denotano, ancora una volta, se correlate, una certa imprecisione e contraddittorietà, nonché lasciano intravedere quella certa “leggerezza”, di cui si è detto nell’introduzione, che egli usa nel trattare le filosofie precedenti;

5.la infinita grandezza di cui parla Melisso è quindi senz’altro da intendersi nel senso dell’estensione spaziale. Comunque è importante notare che nel frammento 3 Simplicio afferma che «per grandezza Melisso non intende l’estensione spaziale […] chiama invece grandezza la trascendente sublimità dell’ipostasi», perché? È possibile che questo metta in discussione l’infinità spaziale? Cosa intendeva veramente Melisso con l’infinita grandezza espressa in questi frammenti? Il problema dell’interpretazione di Simplicio, che potrebbe ancora mettere in dubbio il senso spaziale dell’infinità o creare comunque confusione, verrà ripreso e sarà chiarito in relazione all’analisi del frammento 9 che negherà la possibilità che l’essere abbia corpo; cosicché anche quel tentativo di Simplicio apparirà sotto una nuova luce.

4.Frammenti 5 e 6: Unicità.

DK B5 - «se non fosse uno avrebbe limite in altro».

DK B6 - «se infatti è infinito deve essere uno: perché se fossero due, i due non potrebbero essere infiniti, ma l’uno avrebbe limite nell’altro».

In questi frammenti Melisso dimostra che per quanto detto in precedenza l’essere deve essere “unico”. Ecco che si affaccia un’altra novità nel pensiero di Melisso, con cui egli si distingue ancora una volta da Parmenide e Zenone. Infatti deduce la caratteristica dell’unità (nel senso di unicità) partendo da quella dell’infinitudine che non era stata invece accettata ne da Parmenide ne da Zenone. Insomma per Melisso l’essere è infinito e l’infinito è unico proprio perché onnicomprensivo. Melisso è qui molto più rigoroso e chiaro rispetto agli altri due eleati, perché fa capire bene il senso di unicità. Problemi di autenticità non ve ne sono come confermano anche la parafrasi di Simplicio (B6 103,28 segg.), il “de M.X.G.” (974a 11 segg.) e l’esclusione del vuoto attribuita a Melisso da Aristotele nel “de gen. et corr.” (A8 325a2 segg.).

Alcuni problemi rilevati dai studiosi su questi frammenti sono:

1.se la frase riportata da Simplicio nel frammento 5 sia o meno una citazione. Albertelli afferma che si tratta di un’argomentazione e non di una citazione, semmai il frammento 6 è la citazione da cui è tratto il 5[32].

2.Calogero segue Simplicio e critica l’ipotesi di Eudemo su una possibile infinità parziale anche nel caso di due o più enti. Inoltre conferma che il “...se è infinito” non è un’ipotesi vera, ma «un’inflessione concessiva»[33].

In Kirk è molto interessante la considerazione che le prove del monismo eleatico, così caratterizzato sia da Platone che da lo stesso Aristotele, sono più forti in Melisso che in Parmenide. Egli pensa che Platone e Aristotele abbiano interpretato il monismo eleatico anche grazie alla lettura di Melisso[34].

5. Frammento 6a e 7,1: Omogeneità.

FR.6a [dimostrazione che l’essere è omogeneo][35]

DK B7,1 - «(1) in tal modo esso è dunque eterno e infinito e uno ed uguale tutto quanto.»

Che il frammento 6a sia andato perduto, e che Melisso prima del frammento 7 aveva già dedotto l’omogeneità, lo confermano sia l’inizio stesso del frammento 7, sia la presenza di altre citazioni di Melisso di questa caratteristica, sia il “de M.X.G.” (A5 974a 4). Quindi appare chiaro che dall’unicità Melisso sia passato all’omogeneità, che è da intendersi nello stesso senso parmenideo (cfr. Parmenide B8,22-25), anzi non si può escludere che Melisso vi si sia ispirato, come anche Kirk fa notare[36].

6. Frammento 7,2-3: Immutabilità.

DK B7,2-3 - «(2) E neanche può perire ne diventare maggiore ne modificarsi nella sua natura o nella sua disposizione, ne sente dolore o tristezza. Perché se andasse soggetto a una qualsiasi di queste cose, non sarebbe più uno. [p1] Se infatti si altera nella sua natura, è necessario che non sia più omogeneo, ma si distrugga quel che prima esisteva, e si generi quel che non esisteva. [p2] Ora, se si alterasse di un solo capello in diecimila anni, si distruggerebbe tutto quanto nella totalità del tempo. [p3] Ma neppure è possibile che muti disposizione: infatti la disposizione che c’era prima non perisce e quella che non c’è non nasce. Ma dal momento che nulla ne si aggiunge ne perisce ne diventa diverso, come potrebbe mutare disposizione? Difatti se una cosa diventasse diversa con ciò già sarebbe mutata la disposizione.»

Questi due passi del settimo frammento sono stati interpretati in vario modo dagli studiosi, i quali tendono a separare il passo 2 dal 3, pensando di individuare discorsi diversi: p.e. il Reale nel passo 2 individua la immutabilità quantitativa e nel 3 quella qualitativa. Io credo invece che con entrambi egli voleva dimostrare la assoluta immutabilità dell’essere, quindi sotto ogni rispetto. Infatti lui vuole dimostrare che:

a)   non può perire; in effetti questo non viene dimostrato nel seguito, forse perché è già stato fatto nel primo frammento (nihil ex nihilo).

b)   non può diventare maggiore; sembra dimostrarlo nel punto (p2) «se infatti si alterasse di un solo capello…». È un’argomentazione di tipo quantitativo.

c)    non può modificarsi nella sua natura; questo invece lo dimostra nel punto (p1) «se infatti si alterasse nella sua natura…». È un’argomentazione di tipo qualitativo.

d)   non può modificarsi nella sua disposizione; la dimostrazione di questo è nel passo 3 «ma neppure è possibile che cambi disposizione…», ed è interessante notare questa dimostrazione è introdotta dalle tre dimostrazioni precedenti a), b), c): «…Ma dal momento che nulla ne si aggiunge ne perisce ne diventa diverso…». È un’argomentazione di tipo qualitativo.

e)   non può soffrire ne provare dolore; ciò verrà dimostrato nei passi 4-6.

Nel passo numero 3, inoltre, c’è un problema che riguarda l’interpretazione dei termini metacosmhJhnai e cosmoV. Si può interpretare questo passo in tre modi:

1.O come una visione del mondo, se si traduce cosmoV con “mondo”, col che Melisso intenderebbe «escludere la possibilità che i mondi si succedano l’un l’altro».[37]

2.Oppure il Calogero parla dell’ordine intrinseco all’essere: egli ritiene che Melisso stia cercando di dimostrare l’assurdità della realtà del molteplice, e ciò potrebbe essere visto come una polemica contro gli atomisti e Leucippo. Altri studiosi intraprendono questa via interpretativa, ma essa è debole sia perché deriva da una illazione nell’interpretazione di un passo del “de M.X.G.”, sia perché, come abbiamo visto nell’introduzione, una tale polemica è debole dal punto di vista cronologico.

3.Oppure si può aderire alla linea interpretativa che traduce cosmoV con “forma”, quindi per Melisso non è possibile che l’essere cambi forma cioè «qualità»[38]. Quest’ultima precisazione del Reale lascia dubbiosi, perché non si capisce cosa egli intenda esattamente (forma esterna?).

Comunque se è vero quanto dice lo stesso Reale confutando il Calogero, e cioè che «i concetti […] non possono essere calibrati in base al concetto melissiano dell’essere» ciò è vero anche per il concetto di forma appoggiato dal Reale stesso. Infatti quale forma può avere un essere infinito (senza limiti) qual è quello melissiano? Come altro si può intendere conformazione, forma o ordine se non come qualcosa di interno, visto che l’essere è illimitato? E questo si vedrà nel frammento 9 dove Melisso parlerà di “incorporeità” col che intenderà la forma esterna.

7. Frammento 7,4-6: Assenza di Sofferenza e Dolore

DK B7,4-6 - «(4) neppure prova sofferenza: perché non potrebbe essere tutto se soffrisse; infatti non potrebbe soffrire una cosa che soffre e neppure ha una forza pari a una cosa sana. Neppure sarebbe uguale, se soffrisse; infatti soffrirebbe o perché qualcosa viene a mancare o perché qualcosa sopravviene: e in questo modo non sarebbe più uguale. (5) Neppure potrebbe ciò che è sano provare sofferenza: perché perirebbe ciò che è sano e ciò che è, e ciò che non è nascerebbe. (6) Ancora, per provare pena vale la stessa dimostrazione che per il soffrire.»

Melisso qui mostra come qualsiasi ipotesi che l’essere provi dolore o sofferenza risulta incompatibile con tutte le altre categorie fino ad ora dimostrate: totalità, eternità, omogeneità. Poi però c’è un’ambiguità in due termini che Melisso introduce «ne può avere una dunamiV uguale a una cosa che è ugieV». Il primo termine è da intendersi come “forza” (quindi potenziale, virtuale) o come “efficacia” (quindi dinamica) ? È da notare che qualsiasi possibilità di movimento, il quale infatti è di seguito confutato, contrasta anche con tutte le dimostrazioni precedenti. Ancora più ambigua poi appare l’interpretazione di Reale del secondo termine che egli traduce con “sano”[39]: ciò allora si deve intendere come “salute” in senso vitale o come “integrità” in senso strutturale? Reale dice in senso strutturale perché non vi è nessuna indicazione di vita nei frammenti ne nei dossografi. Ci chiediamo allora, se così è, come può il Reale non applicare lo stesso ragionamento ai termini “dolore” e “soffrire”? Cioè in che senso può Melisso usare questi termini se non in senso vitale? Sono d’accordo quindi, come hanno rilevato molti studiosi, nell’attribuire a Melisso una influenza del pensiero animistico-teologico della cultura ellenica, anche se questo non era evidentemente l’argomento centrale delle speculazioni melissiane. Infatti l’Albertelli[40] ritiene che tutte le tesi circa una sorta di misticismo o di teologia in Melisso sono deboli, e concorda col Calogero nel considerare questo passo come «uno dei più antichi e tipici documenti della direzione ideale della teologia ellenica»[41]. Kirk, come il Calogero[42], non esclude che Melisso «may therefore have been inspired by Xenofanes»[43]. Anche il Mondolfo è potenzialmente d’accordo nel considerare detti passi come un paradigma di un certo modo di pensare antico, non si può infatti spiegare l’eleatismo, secondo lui, «prescindendo dai rapporti […] specialmente con la teologia xenofanea e con la metafisica e fisica pitagorica»[44].

8. Frammento 7,7-10: Immobilità e Pienezza.

DK B7,7-10 - «(7) e non c’è vuoto alcuno perché il vuoto è nulla: dunque non può esistere ciò che è appunto nulla. Neanche si muove, perché non ha luogo ove subentrare, ma è pieno. Giacche se ci fosse il vuoto subentrerebbe nel vuoto: non essendoci il vuoto non ha dove subentrare. (8) Non può essere denso o rado, perché non è possibile che il rado sia pieno allo stesso modo del denso, ma il rado, appunto perché rado è più vuoto del pieno. (9) Questa è la distinzione che bisogna fare tra pieno e non pieno: se qualcosa fa luogo e da ricetto, non è piena, se ne fa luogo ne da ricetto, è piena. Cosicché è necessario che sia pieno se il vuoto non c’è. Se dunque è pieno non si muove».

Le caratteristiche di pienezza e immobilità vengono dedotte dall’esclusione del vuoto e del denso-rado.

VUOTO - dimostrando l’assenza del vuoto introduce un’ulteriore innovazione rispetto a Parmenide. Vista la caratteristica di infinità dell’essere è perfettamente inutile discutere se il vuoto di cui parla sia interno o esterno (un po' come per la forma interna o esterna). Melisso contesta il vuoto in senso assoluto come incompatibile col suo essere, sia esso interno o esterno, perché sarebbe comunque un non-essere che Melisso ha già escluso.

DENSO-RADO - esclude la possibilità che l’essere possa essere denso o rado, e con ciò è dimostrata sia la immobilità che la pienezza. Infatti per considerare questi aspetti dovremmo ammettere l’esistenza del vuoto, che invece è escluso da Melisso, quindi l’essere è pieno; e quindi non c’è possibilità di movimento.

Per Calogero l’ontologizzazione dell’essere qui raggiunge il suo estremo in un modo precipuamente eleatico, cioè identificando il vuoto con il “non-essere”; e aggiunge, in modo a mio avviso ambiguo, che Melisso «ignora in realtà le più profonde ragioni dei problemi sui quali lavora»[45]. Con ciò si vuole dire che forse Parmenide invece ne era cosciente? E se si, è possibile che Parmenide ne fosse al corrente e il suo allievo, Melisso, no? È più verosimile che anche Parmenide ignorasse quelle ragioni profonde che lui stesso aveva sollevato, in modo infatti così ambiguo. Kirk[46] prosegue nella rivalutazione di Melisso che secondo lui qui ha due grandi meriti: primo chiarifica i problemi del cambiamento e del movimento, che Parmenide aveva lasciato nell’ambiguità; secondo crea (a parte Xuthus) la nozione fisica del pensiero classico: il vuoto come condizione del movimento.

Per le ipotesi sollevate da vari studiosi circa una polemica contro Leucippo (Zeller, Joel, Windelband, Nestle, ecc.) si rimanda sempre all’introduzione. Che invece egli qui intenda confutare anche la possibile obiezione della scuola anassimenica dell’avvicendarsi del denso e del rado, non sembra se ne possa dubitare[47]. Mentre è dubbia una polemica contro il vuoto dei pitagorici, il Reale p.e. propende per questa ipotesi. Sia Kirk[48] che Reale[49] infine ritengono che Leucippo si sia appropriato delle due tesi, con l’intento di rovesciare poi le conclusioni di Melisso (e ciò varrà anche nel paragrafo seguente).

9. Frammento 8: Illusorietà del molteplice.

DK B8 - «(1) questo che abbiamo detto è dunque massima prova che l’essere è soltanto uno. Ma sono prove anche le seguenti. (2) se ci fossero molte cose dovrebbero essere così come io dico che è l’uno. Infatti se c’è la terra e l’acqua e l’aria e il fuoco e il ferro e l’oro e una cosa è viva e l’altra è morta e nera e bianca e quante altre cose gli uomini dicono essere, se dunque tutto questo esiste e noi rettamente vediamo e udiamo, bisogna che ciascuna cosa sia tale quale precisamente ci parve la prima volta e che non muti ne diventi diversa, ma che ciascuna sempre sia quale precisamente è. Ora noi diciamo di vedere udire intendere rettamente. (3) invece ci sembra il caldo diventi freddo e il freddo caldo, il duro molle e il molle duro e che il vivente muoia e venga dal non vivente e che tutte queste cose si trasformino e che ciò che era e ciò che è ora per nulla siano uguali; anzi che il ferro che pure è duro, si logori a contatto col dito e così l’oro e le pietre e ogni altra cosa che sembra essere resistente, e che all’inverso la terra e le pietre vengano dall’acqua. Cosicché ne viene di necessità che noi ne vediamo ne conosciamo la realtà. (4) perché non c’è certo accordo in questo. Mentre infatti diciamo che le cose sono molte ed eterne e che hanno certi aspetti e resistenza, ci sembra che tutto si trasformi e si muti da quel che ogni vola l’occhio ci fa vedere. (5) è chiaro dunque che non rettamente vedevamo e che quelle cose non rettamente sembrano essere molteplici; infatti non si trasformerebbero se fossero reali, ma ciascuna sarebbe tale quale precisamente sembrava. (6) ma se si trasforma ecco che l’essere perì e il non essere nacque. Così se ci fosse il molteplice esso dovrebbe essere tale quale è appunto l’uno».

Qui Melisso porta come ultima prova a favore dell’unicità dell’essere quella dell’assoluta fallacia del mondo del molteplice, dato che questo non possiede le caratteristiche attribuite da lui stesso all’essere. L’argomentazione, concordo con quanto dicono il Calogero e il Reale, è secca e indefettibile, logicamente corretta[50], e col Kirk che arriva a dire che «the strategy of the argument is simple but ingenious»: il mondo sensibile non viene semplicemente svalutato, ma confutato come reale, esso è quindi irreale, ed è evidente una polemica innanzitutto contro il senso comune, il quale viene posto in contraddizione. Sul fatto che le conclusioni di Melisso siano il punto di partenza, almeno da un punto di vista ideale[51], se non proprio storico[52], del pluralismo, la maggior parte degli studiosi concorda. Melisso svolge un ruolo fondamentale nel passaggio dal monismo eleatico al pluralismo. Devo invece dissentire, anche qui per quei motivi cronologici trattati nell’introduzione, dai molti studiosi hanno pensato esserci, soprattutto nel passo 2, una polemica contro Empedocle o contro Anassagora e Leucippo. Concordo quindi col Calogero per il quale l’ipotesi antianassagorea del Burnet e del Covotti non è convincente, e che nella sua opera non menziona ne Empedocle ne Leucippo. Infine mi pare importante rilevare due punti interessanti:

1.il Calogero individua la krisiV di Melisso tra l’uno e il molteplice, dove quella di Zenone è tra l’uno e se stesso. [53]

2.secondo il Mondolfo invece Melisso determina la nascita di un vero concetto di “sostanza” dalle precedenti e indistinte nozioni della jusiV.[54]