LA METAFISICA DI ARISTOTELE

Kant sostiene la necessità di comprendere Platone meglio di quanto questi non comprendesse se stesso: in certa misura tale norma può essere estesa all’intero mondo greco, pur nella consapevolezza che abbiamo perso il contatto con la lingua greca e col suo lessico filosofico. Aristotele stesso si propone di comprendere la realtà nella sua enigmatica interezza, elaborando un sistema onnicomprensivo a cui nulla resta estraneo: egli sente perfino l’esigenza (e a ciò provvede il I libro della Metafisica) di fare storia della filosofia (cosa che a noi pare assolutamente normale, ma che all’epoca era sconosciuta), ripercorrendo il pensiero di quanti l’hanno preceduto. Tantissime sono le discipline che Aristotele tratta con quello spirito enciclopedico che caratterizzerà poi l’età illuministica: l’etica, la politica, la fisica, la psicologia, ecc. E nel trattarle egli si avvale (anticipando l’Illuminismo) del solo lumen naturale, mettendo da parte tutte le credenze religiose e mitologiche che affollavano la mente dei Greci (e a cui Platone sembra ancora in certo modo legato): questo processo di progressiva autonomia della ragione e, con essa, della filosofia, tale per cui essa diviene capace di gettare una luce del tutto terrena su argomenti celesti, era già stato avviato da Socrate, che peraltro aveva dovuto pagare tale innovazione con la vita. Ma l’idea di un conflitto tra religione e filosofia rispecchia solamente gli avvenimenti dell’età moderna: al tempo dei Greci, esse non configgono, ma anzi si integrano – come sottolinea Platone stesso. La Metafisica aristotelica costituisce poi, oltre che per l’autonomia della ragione che da essa traspare, un’importante novità anche sul piano formale, in quanto non si tratta di un libro unitario volto alla pubblicazione (di questo tipo erano i dialoghi platonici), ma di appunti stringati e concisi che Aristotele sviluppava poi a lezione nel Liceo dinanzi al suo uditorio. Così nel libro XII (libro L) ci viene presentata una specie di riassunto con un particolare sviluppo degli argomenti teologici (non a caso la Metafisica stessa può essere intesa come un libro religioso); il fatto stesso che alcune tematiche vengano trattate più volte ci aiuta a capire come si tratti di una serie di scritti slegati fra loro: così la problematica delle aporiai compare sia nel libro III sia nell’XI. Pertanto la prima cosa da fare di fronte a questo libro è non pensare che sia un libro: e non a caso Aristotele ad esso non pone alcun titolo, tant’è che se siamo abituati a chiamarla Metafisica ciò è dovuto al titolo datole dai curatori successivi, per i quali gli scritti componenti quest’opera venivano dopo quelli di fisica (ta meta ta fusika). Ma questa determinazione meramente editoriale ne contiene un’altra, più profonda: gli argomenti trattati nell’opera sono quelli che si pongono al di là di quelli di ordine fisico. Se gli enti fisici, infatti, sono caratterizzati dall’essere in movimento (e noi stessi pensiamo perché in movimento), al di là (e, in certo senso, al di sopra) di essi si collocano quegli enti fissi, immutabili ed eterni quali Dio, definito dallo Stagirita come "motore immobile", che muove senza essere mosso (pur essendo anch’esso uno zwn, ovvero un essere vivente). Proprio da qui parte quella ricerca delle cause (aitiai) e dei princìpi che anima l’indagine aristotelica. L’intelletto, dal canto suo, si pone al di là del moto: esiste una fronhsiV (di cui partecipano anche gli animali) e una sofia (che è prerogativa esclusivamente umana). Il motore della conoscenza è dato dalle sensazioni e dall’amore che per esse naturalmente provano tutti gli uomini. Un aspetto che può sconcertare è il fatto che l’opera s’intitoli Metafisica ma che, di fatto, tale termine sia ignoto ad Aristotele: anziché parlare di "metafisica", egli parla di una scienza di cui siamo in cerca ma che non ha un nome poiché non ha un oggetto preciso, se non ciò che sta "oltre". Questa concezione della metafisica come passaggio dal sensibile al sovrasensibile si protrarrà fino a Kant, che, nel definirla, la etichetterà come scienza che ha a che fare con ciò che cade al di là dell’esperienza. Per Aristotele soprasensibile può essere sia l’ambito concettuale e logico (ad esempio le categorie, trattate nel libro VII, ma anche nelle Categorie: la logica non è una scienza, ma un organon della scienza stessa) sia l’ambito teologico (quello della teologikh episthmh). Nel cap.8 del libro XII si parla curiosamente di molti (e non più di uno) motori immobili; similmente, nel cap.1 del libro VI la teologia è intesa come conclusione, ma nei libri XII e XIV la ricerca prosegue e verte sui numeri (non dello zero e d quelli negativi, sconosciuti al mondo greco). Sarà Kant a ribellarsi alla metafisica aristotelica, rifiutandosi – nella Critica della ragion pura – di considerare anima, mondo e Dio come "oggetti" metafisici che possono essere conosciuti. Lutero e il razionalismo di marca cartesiana, pur così diversi fra loro, costituiscono un unico fronte contro un Aristotele difeso ormai solo più – peraltro trasfigurato dal pensiero medievale – dai Cattolici; tale situazione (culminante nelle lotte galileiane contro l’aristotelismo o, meglio, contro gli Aristotelici seicenteschi) si protrae fino ai tempi di Heidegger, il quale si sforza di leggere Kant e Aristotele unitamente. Per Aristotele la scienza la si pensa, non la si fa: questo presupposto comincia a scricchiolare con Ruggero Bacone per poi crollare definitivamente ai tempi della Rivoluzione scientifica. In Occidente – è stato notato – penetra prima la figura del filosofo e solo secondariamente quella dello scienziato, tanto più che le stesse basi scientifiche trovano una loro prima fondazione in sede filosofica (così è per l’atomismo o per l’infinità dell’universo): questa priorità della filosofia si riverbera su Aristotele stesso, che in Occidente penetra primariamente come filosofo e solo successivamente (grazie alla mediazione araba) come scienziato. L’arrovellante quesito che egli si pone è: ti to on; "che cosa è l’ente?", ma anche "perché l’ente?". Tutte le cose sono, ma di alcune devo domandarmi che cosa sono, interrogandomi sul loro essere (sulla loro ousia); nella Repubblica Platone mette ben in luce come si tratti di un qualcosa che sta al di là dell’essere; ma l’ambiguità che caratterizza il pensiero platonico (e che invece manca in quello aristotelico) risiede nel fatto che egli, ogni qual volta si trovi in difficoltà, ricorra ai miti: così nel Fedro, anziché dirci che cosa sia l’anima, ci racconta il mito della biga alata, mito che, per quanto suggestivo, anziché risolvere il problema lo aggira abilmente. Dal canto suo, Aristotele non è ambiguo e non si abbandona all’invenzione di miti (fatta eccezione per quei dialoghi giovanili in cui l’influenza platonica era ancora predominante), bensì preferisce affidare la propria esposizione filosofica alla trattazione compiuta e sistematica; non è un caso ch’egli consideri piuttosto negativamente la dialettica (tenuta in grande considerazione da Platone), alla quale rimprovera una congenita inconcludenza: se per Platone non è possibile definire incontrovertibilmente che cosa sia la giustizia e, in forza di ciò, l’unica via percorribile consiste nell’accordarsi reciprocamente sul che cosa essa sia (in ciò sta appunto l’esercizio della dialettica), per Aristotele un discorso di questo tipo può valere esclusivamente in sede etica, là dove nel definire il bene non si può far altro che accordarsi. In tutti gli altri casi la dialettica è messa al bando, poiché poggiante sul falso presupposto che non si possano pienamente conoscere le cose. Chi è, dunque, il filosofo per Aristotele? Nel cap.2 del libro I della Metafisica è definito come colui che sa insegnare e spiegare senza fare ricorso ad atti di fede o a miti, bensì servendosi esclusivamente di argomenti probanti prodotti dall’esercizio del pensiero. Questa tesi, che conferma la teoria di un Aristotele in certa misura "illuminista", può essere smentita facendo riferimento a Jaspers e al suo confronto tra Bruno e Galileo: il primo – simboleggiante la verità filosofica – sale sul rogo e si fa martire del pensiero; egli va incontro alla morte perché la verità filosofica, per potersi affermare e per essere inverata, deve essere soggettivamente vissuta; il secondo – vessillifero della verità scientifica – abiura, rinunciando al martirio, giacchè la verità scientifica, per potersi affermare, non necessita di essere vissuta soggettivamente, ma è anzi autotrasparente. Da ciò appare evidente come l’elemento della fede non possa dirsi in toto escluso dalla filosofia, come invece ritiene Aristotele. Come accennavamo, la Metafisica può essere letta in chiave teologica, tenendo conto che, per lo Stagirita, la prova dell’esistenza di Dio risiede – come già per Platone – nell’esistenza di un mondo che si muove perché messo in moto da qualcos’altro (da Dio appunto). Cartesio – preceduto in ciò da Anselmo – rigetta questa prova dell’esistenza di Dio e la sostituisce con quella che Kant definirà "ontologica": è l’idea stessa di Dio a garantirne l’esistenza. Pur se avversato da Cartesio e da molti altri pensatori dell’età moderna, Aristotele torna nel Novecento a godere di enorme fortuna: in primis con Heidegger e con la sua scuola. A parte la successione dei libri VI, VII, VIII, IX – che presentano una loro sequenza logica -, il resto della Metafisica può essere letto in qualsiasi ordine, benché sia consigliabile partire dal principio: infatti i primi due libri dell’opera esplicano una funzione proemiale, fornendoci le nozioni preliminari. Il libro I contiene – come già notavamo – una storia della filosofia (la prima in assoluto) in cui Aristotele ripercorre le posizioni filosofiche dei predecessori, criticandole alla luce del proprio impianto filosofico. Il II libro è molto breve, ma ci presenta la metafisica come scienza della verità: uno dei sensi dell’essere è appunto l’essere come vero e come falso (concetto su cui Aristotele torna nei libri VI e IX). Heidegger (che parte da Parmenide) leggerà questo significato dell’essere come centrale, andando però in parte contro ad Aristotele stesso, per il quale il problema centrale resta l’essere come sostanza, e non come verità. Nei primi libri troviamo un Aristotele ancora seguace (seppur critico) di Platone. Il libro III si occupa delle aporie, ovvero di quelle contraddizioni che si presentano nel porre il problema metafisico: perché fondiamo la scienza di qualcosa che non sappiamo che cos’è? Appunto perché vi sono delle aporie: c’è bisogno di una scienza perché ci sono dei vicoli ciechi. Ad esempio: la scienza è una o sono tante quante le sostanze? Sono ambiti difficili da risolvere e un modo per leggere la Metafisica è leggere i luoghi in cui Aristotele discute le aporie che nel libro III sono solamente elencate: la quinta e la ottava riguardano la sostanza soprasensibile, ma se essa è soprasensibile non si possono avere garanzie sulla sua esistenza, cosicché ad essa si può pervenire esclusivamente per via extrasensoriale. I passaggi poi tra un libro e l’altro sono assai difficoltosi: ad esempio, il libro III tratta delle aporie, mentre quello seguente si occupa della negazione del principio di non contraddizione e della confutazione di chi crede che non esista la verità (chi dice "non c’è verità" già si contraddice). Il libro V è particolarmente interessante perché si configura come una sorta di glossario filosofico: si tratta senz’ombra di dubbio di un libro scritto da Aristotele in età giovanile, cosicché è interessante leggerlo per notare come molti termini mutino valore semantico man mano che Aristotele giunge alla maturità. Il sesto libro è un’introduzione alla metafisica in cui si precisa che essa è anche teologia (teologikh episthmh): il problema della religione è già affrontato nel libro I, ove si dice che "gli dei non sono invidiosi": tali sono, invece, i poeti che fanno di tali affermazioni (Omero, Esiodo). Anche Platone già si muoveva su questa linea di avversione per i poeti (Repubblica, X): in gioventù egli aveva composto tragedie, ma, giunto alla maturità, le distrusse, a riprova della sua insofferenza per la poesia. Aristotele dunque sospende l’atteggiamento dei poeti, i quali si affidano alla doxa popolare, e prova a pensare il divino indipendentemente dal rapporto con l’umano, come scienza teologica. I poeti mentono perché pensano che ci sia una trasparenza del divino nell’umano: a tal proposito, Platone nel Cratilo distingue tra un linguaggio divino e uno umano, per cui lo stesso fiume – stando ad Omero – è dagli uomini chiamato Scafandro, dagli dei Xantos; ma se davvero fosse un nome divino, allora dovrebbe essere sconosciuto a tutti gli uomini (compreso Omero). Ancora più di Platone, Aristotele parla del divino come appare all’intelletto: il mondo non è creato, tempo e movimento sono eterni; sicchè i poeti, sostenendo che il mondo nasce, non fanno che mentire. Il fatto stesso che ciascuno di noi abbia un padre, a sua volta generato da un altro padre e così via, non fa che deporre in favore dell’eternità della specie, nota Aristotele. Nei libri tra VII e XI il problema teologico viene accantonato e ne affiora un altro, presente in altri scritti (De interpretatione, Categorie): il problema logico della definizione, comprendente la questione della potenza e dell’atto (libro IX). Ma quando dico che qualcosa è, di che cosa dico che è? Tali problematiche non sono solamente logiche, ma anche metafisiche, anche perché la logica (pur avendo anch’essa una propria consistenza) non è se non un organon, uno strumento al servizio delle singole scienze: pensare è un qualcosa, e per l’esattezza è un qualcosa a cui l’uomo può dedicarsi solo dopo aver risolto i suoi problemi concreti. Solo quando li ha risolti, egli può qeorein, ovvero "vedere come vede Dio", il quale pensa perché non ha nulla da fare; la stessa distinzione tra atto e potenza è funzionale alla definizione di Dio, inteso come atto puro. Quel che Aristotele lascia senza nome è l’io, che diventerà poi con Kant Io penso, che non è una sostanza ma una funzione (sarà l’idealismo a trasformarlo in sostanza e per di più assoluta). Per Aristotele non c’è che un intelletto non mio ma di cui posso partecipare quando sospendo tutte le attività mondane e mi dedico all’esercizio del pensiero: in quel momento vivo da Dio, giacchè conduco – seppur per brevi momenti – la vita che Dio conduce ininterrottamente. In Kant e Hegel la logica è la metafisica: se per Aristotele, come abbiam visto, la logica non è una scienza, Hegel scrive significativamente un’opera intitolata Scienza della logica, ove la logica finisce per coincidere con l’ontologia. Quella di Kant, sull’altro versante, si configura come logica trascendentale. E’ curioso come Heidegger metta costantemente in relazione Hegel e Aristotele (perfino nell’ultimo paragrafo di Essere e Tempo). Gli ultimi due libri della Metafisica sono dedicati al numero. Nel IX si parla improvvisamente del bene, cosa che fa anche Kant, in maniera cursoria, nella Critica della ragion pura. A proposito di Sofocle, Heidegger fa coincidere poliV e essere: il problema dell’essere si determina isolando un ambito della poliV. Heidegger si propone di pensare senza distinzione tra sensibile e soprasensibile, Aristotele e Platone sono già la fine del pensiero greco perché loro hanno teorizzato il passaggio dal sensibile al soprasensibile, dicotomia assente nei primi filosofi. In Aristotele il tempo (Fisica, IV) è determinazione apiretica, del singolo istante dico che è, ma è nel momento in cui è già passato in quello successivo: Hegel dice a tal proposito che il tempo è "il sensibile non sensibile"; le cose trascorrono rispetto al tempo, ma esso non è sensibile. Per Kant esso è forma del senso interno. La soluzione teologica di Aristotele è criticatissima da Agostino, da Pascal e da molti altri. Il messaggio centrale della Metafisica potrebbe così essere sintetizzato: c’è una dimensione del reale che è intelligibile; certo, l’esperienza insegna alcune cose, ma poi occorre chiedersi il perché e – a questo punto – l’esperienza sensibile a nulla più giova, cosicché si rende necessario il salto metafisico. L’esempio che Aristotele ha in mente è quello dell’artigiano: a rigore, Dio stesso è l’artigiano (già Platone parlava di un Demiurgo come "divino artigiano" capace di plasmare la materia sul modello delle idee) che fa il mondo (meglio: lo mette in moto) col pensiero. In questa cornice in cui all’empiria è contrapposta la metafisica rientra anche la distinzione operata da Aristotele tra gli enti matematici (ai numeri sono dedicati i libri XIII e XIV) e i poioumena, ovvero le cose create dall’uomo. Di questi ultimi si può con grande facilità sapere a cosa servano, proprio perché n siamo noi stessi i facitori: così, a proposito del tavolo o della sedia, potrò senza tentennamenti asserire che son fatti per determinati scopi, proprio in virtù del fatto che li ho creati affinché adempissero a quel dato fine. Anche per gli enti di natura sussiste un finalismo tale per cui, per ciascuno di essi, è sempre possibile dire a che cosa serva (in ciò risiede il finalismo aristotelico), ma ciò è più difficile poiché non ne siamo noi gli autori (non siamo noi a creare la natura, ma anzi siamo un ingranaggio di essa): sicchè è ben più difficile rispondere al quesito "a cosa serve un albero?" rispetto a quello "a cosa serve un tavolo?". Si tratta, in certo senso, di un’anticipazione del principio vichiano del verum ipsum factum. Cartesio stesso parla di ens creatum: il mondo è stato creato, sebbene non dall’uomo. Il principio attribuito dalla tradizione scolastica ad Aristotele del scire est scie per causas può proficuamente essere inserito in un siffatto contesto: si conosce casualmente ciò di cui si è causa. Dicevamo che Aristotele condivide con Platone (ma in realtà con l’intero pensiero greco) l’esigenza di saltare dall’empirico al metafisico, esigenza che – abitualmente – tendiamo a leggere come caratterizzante il pensiero cristiano. Ora, Heidegger – troppo spesso erroneamente considerato come un filosofo grecofilo – mette sapientemente in luce (ad esempio nello scritto sulle Interpretazioni fenomenologiche della religione) come propriamente il passaggio dal fisico al metafisico caratterizzi esclusivamente il pensiero greco e come invece quello cristiano si risolva in un’esperienza della vita nel tempo: quando il cristianesimo arriva a porre al centro della propria speculazione il salto dal fisico al metafisico, dalla terra al cielo, lo fa perché ha ormai inglobato la tradizione greca. Kant stesso non rinuncia al passaggio alla metafisica, sebbene sia convinto che esso debba avvenire per via non già teoretica, bensì morale. Tant’è che nella Critica della ragion pratica la ricerca del soprasensibile non è affidata all’intelletto (Verstand), operante solo sui dati forniti dall’esperienza. Ma i Greci, più che distinguere tra intelletto e ragione (distinzione che avviene compiutamente solo a partire da Spinoza), preferiscono parlare di una generica facoltà del pensare (to noein). La metafisica, nella prospettiva heideggeriana, è un erramento: similmente Husserl si propone, con la fenomenologia, di rendere giustizia all’esperienza, e lo fa in maniera radicale (lo stesso Io penso di Kant viene etichettato come una fantasticheria). Nel libro VII Aristotele dice che il problema da lui affrontato (che cos’è l’essere della cosa?) è un problema vecchio, risalente – nella sua piena formulazione – al venerando Parmenide: la cosa è sempre un qualcosa di determinato, un todh ti, ma non ci si può arrestare all’apparenza. Sotto questo profilo, la stessa visione del cosmo che abbiamo è – tanto per Platone quanto per Aristotele – visione di qualcosa che ci appare come caotico e spaesante e di cui dobbiamo capire l’ordine attraverso la filosofia, capace di fare esperienza delle cose e di interrogarsi sulle loro cause: a tal proposito, la matematica è la prima disposizione ordinata delle nostre conoscenze; ma anche le cose materiali hanno un loro ordine, il che lascia aperta la possibilità di una fisica. Similmente posso prendere tale determinazione dell’ordine e farne una sostanza. Ma per Aristotele non tutte le cose che cadono sotto i miei sensi sono sostanze: così il bianco andrà qualificato come accidente e non come sostanza, giacchè esiste solo in riferimento a sostanze (non esiste il bianco: semmai esistono cose bianche); di sfuggita, una tale distinzione aristotelica tra sostanze (esistenti in maniera autonoma) e accidenti (esistenti in riferimento a sostanze di cui sono qualità) ritorna nella grammatica, là dove i sostantivi sono altra cosa rispetto agli attributi. In quest’ottica, ben si capisce come la filosofia aristotelica sia una filosofia del senso comune, quasi come se Aristotele avesse dato veste filosofica a ciò che tutti quanti sappiamo per istinto (che la terra sia ferma e al centro, che il mondo sia popolato da sostanze, ecc). Esiste un intelletto comune – stando al De anima – a cui dobbiamo provare ad accedere per poter così pensare come Dio: nei brevi lassi di tempo in cui ci dedichiamo all’esercizio del pensiero conduciamo la stessa vita condotta eternamente da Dio; una tesi di questo genere non poteva che risultare blasfema agli occhi della religione tradizionale: si tratta di quella che, con un’espressione felice, è stata definita la violenza della scienza e della metafisica sulla religione. Possiamo leggere la diversità intercorrente tra Platone e Aristotele alla luce del differente rapporto da essi intrattenuto con la religione: Platone ha una visione religiosa della filosofia (come ha acutamente notato Kruger, l’allievo di Heidegger); Aristotele ha una visione filosofica della religione; non è un caso che, nel celebre dipinto di Raffaello sulla scuola di Atene, Platone venga raffigurato col dito indicante i cieli della religione, Aristotele con la mano rivolta verso la terra della filosofia. A proposito di Aristotele, Ricoeur parla significativamente di technologie, alludendo a come egli concepisce l’intelletto, come puramente determinato dallo stato delle cose; diversamente in Platone noi uomini non siamo che entità finite. Il ricorso costante che gli fa al mito non è casuale, né un omaggio ad una forma letteraria particolarmente accattivante: nota Pareyson – in merito al cristianesimo – che sussiste una sorta di "mito cristiano", giacchè la crocifissione non è che un mito (alla stregua dei miti platonici), ossia una storia raccontata. Il mito, in questo senso, interviene direttamente tra l’umano e il divino, e tal rapporto non può essere risolto in maniera meramente scientifica (come pretenderebbe Aristotele), mediante un sapere universale quale è quello proposto dalla Metafisica. I primi due capitoli del libro I costituiscono una vera e propria introduzione alla metafisica aristotelica: si tratta di cercare le cause e i principi che mancano nelle altre scienze; tali due capitoli sono stati diffusamente commentati da Heidegger nel famoso scritto Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, un corso scritto per Natorp al fine di ottenere la cattedra a Marburgo. Il capitolo 3 pone fin da principio in risalto la tematica delle quattro cause (con rimando al libro II, cap.3 della Fisica) ed è a questo punto che Aristotele indossa la veste di storico della filosofia, compiendo una ricognizione sul pensiero di quanti l’hanno preceduto (quelli che egli chiama fusiologoi) per vedere a quante cause sono pervenuti nelle loro indagini: in particolare, egli parte da quei pensatori che si sono fermati alla causa materiale (cap. 4); al centro del capitolo 5, invece, troviamo i Pitagorici, i quali hanno ravvisato come causa non già un principio materiale, bensì i numeri. Il cap. 6 è dominato dall’imponente figura di Platone, mentre il 7,l’8 e il 9 non sono che una ripresa del 4, del 5 e del 6, nel tentativo di fornire soluzioni plausibili ai problemi precedentemente formulati. Ed è nel cap.9 che ricompare Platone, figura che è sempre presente in modo massiccio nella Metafisica, giacchè su di lui Aristotele costruisce criticamente la propria metafisica. Fin dalle prime pagine, si prospetta un problema difficile da risolvere: che cos’è la sofia? Quel che è certo è che gli animali non ne sono equipaggiati, benché molti di essi possano ugualmente essere detti intelligenti: ad esempio, l’ape, che agisce sicuramente in vista di fini precisi, è un animale intelligente, benché privo dell’udito. Gli uomini, dal canto loro, tendono per natura al sapere, come recita l’incipit dell’opera e amano tutti le sensazioni, cosicché ogni conoscenza non può prescindere da esse. Ciò non toglie, però, che la conoscenza non debba arrestarsi ad esse, che anzi costituiscono una sorta di trampolino di lancio per scavalcarle. A ciò provvede la sofia - di cui Aristotele parla anche nei trattati etici (in particolare nel libro VI dell’Etica nicomachea) – che è contrapposta alla fronhsiV (di cui sono dotati anche gli animali). Fino al cap.3 ricorre con una certa insistenza l’espressione "la scienza che siamo cercando", come se il problema centrale su cui Aristotele si affatica potesse così essere compendiato: perché non ci bastano le singole scienze? Studiate le singole scienze, infatti, ci manca ancora l’insieme ed è a ciò che provvede la sofia, la quale non potrà in nessun caso essere intesa come scienza poetica, giacchè non produce nulla. Nel cap.2 viene messa in luce l’importanza della meraviglia (to qaumazein) come fonte del filosofare: solamente quando proviamo stupore e meraviglia di fronte ad aventi per noi inspiegabili proviamo il desiderio di filosofare, in maniera tale da "sfuggire all’ignoranza" (feugein thn anagnoian), senza ottenere risvolti pratici. La sofia, in questo senso, non produce nulla, è scienza totalmente fine a se stessa e trova in ciò la propria superiorità su qualsiasi altra scienza: essa è la scienza delle scienze; risolti tutti i problemi pratici che ci si parano dinanzi nel cammino, resta ancora il problema della sofia, del sapere per il sapere. Essa è una scienza divina per due motivi: in primis, perché posseduta da Dio stesso (la cui attività consiste appunto nell’esercizio ininterrotto del pensiero); in secundis, perché ha per oggetto cose divine. Ne segue che si può vedere Dio solo se si vede come Dio. A questo punto, Aristotele inserisce nella propria trattazione la figura del poeta Simonide, il quale diceva che l’uomo è cattivo e invidioso, ragion per cui non può mai essere come Dio. Aristotele si oppone a Simonide e, in generale, alla sapienza poetica, replicando che i poeti mentono e che all’uomo è dato vedere Dio: a permettere che questo avvenga è quella scienza che stiamo cercando. Qui avviene la saldatura tra una scienza astratta che nulla produce e il sapere divino (teologia), su cui Aristotele ritornerà nei libri VI e XII; l’idea sotterranea che Aristotele lascia affiorare è che teologia e ontologia coincidano, poiché entrambe alla ricerca del sapere supremo. Per il comune modo di penare dei Greci – a cui Aristotele stesso non sfugge – l’invidia, di per sé, non è un male, è anzi la base di ogni competitività ed è su di essa che si fondano, ad esempio, le competizioni sportive (i Giochi Olimpici, ove l’importante era non partecipare, ma vincere) e non è un caso che Esiodo stesso (nelle Opere e i giorni) riconosca l’esistenza di una eriV buona, perché stimolo di miglioramento. Aristotele, allora, non se la prende tanto con l’affermazione dei poeti secondo cui gli uomini sono invidiosi; piuttosto non accetta che tale affermazione possa essere estesa agli dei, poiché è ai suoi occhi (come del resto a quelli di Platone) assurdo che essi siano succubi di passioni umane: il divino non ha più nulla da raggiungere, cosicché la sofia – che del divino è propria – non deve produrre nulla. Emerge a questo punto un altro quesito non da poco: sussiste un conflitto tra intelletto e passioni? O, piuttosto, essi convivono armoniosamente? Aristotele, corifeo della filosofia greca, risponde che il conflitto tra i due c’è ed è a tutti evidente. Così Socrate asseriva di sentire dentro di sé un daimwn che gli suggeriva di agire diversamente dalle prescrizioni che gli provenivano dalla propria ragione. Nel cap.2 Aristotele mette in luce come la scienza di cui è alla ricerca non debba produrre nulla, giacchè essa giunge quando tutto ciò che serve è stato prodotto: la filosofia, in questo senso, può essere praticata solo in quelle società in cui vi è chi può dedicarsi al pensiero senza dover provvedere al proprio sostentamento, perché altri vi provvedono in sua vece. Non è un caso che Heidegger scorga nella tecnh un pericolo e la critichi aspramente facendo leva su presupposti aristotelici, quasi come se vi fosse un rimpianto per il sapere fine a se stesso, in antitesi a quello – proprio della tecnica – ritenuto valido esclusivamente in riferimento alla sua utilità. Ed è proprio Heidegger a mettere in evidenza come il termine greco tecnh racchiuda entro di sé il duplice significato di "tecnica" e di "arte", poiché per i Greci la tecnh non è necessariamente legata alla produzione di qualcosa, è piuttosto una determinazione del sapere implicante progettualità. Il cap.4 si apre con l’enunciazione della dottrina delle quattro cause (materiale, efficiente, formale, finale): sapere è sapere quale è la causa, ma la causa in questione è non già quella particolare, bensì quella complessiva, capace di rendere conto del mondo nel suo insieme. Proprio alla ricerca degli aitia kai arcai si è rivolta l’indagine dei primi filosofi della Ionia (Talete, Anassimandro, Anassimene): essi hanno tentato di rinvenire quell’arch che fosse aition della realtà nel suo complesso; ciò che accomuna questi pensatori – anche se per quel che concerne Anassimandro il discorso è un po’ diverso – è l’aver ritenuto che l’arch in grado di rendere conto del mondo dovesse essere materiale (l’acqua di Talete, l’aria di Anassimene, il fuoco di Eraclito). Ne seguirebbe – il che appare assurdo già ad Aristotele – che tutto il mondo deriverebbe ad esempio dall’acqua, ma che poi essa stessa resterebbe presente nel mondo, come se il principio se ne stesse all’interno di ciò che da esso deriva. E’, questa, una non-spiegazione, poiché dire che tutto nasce dall’acqua non spiega che cosa sia l’acqua né la materia. Non-spiegazioni di questo genere sono anche quelle addotte da Empedocle, il quale pone come principio tutti e quattro gli elementi (perfino la terra, unico fra tutti), ma finisce poi col ridurre, a propria volta, questi quattro principi a due: l’Odio e l’Amore, introducendo con essi quella causa efficiente sconosciuta agli ionici. Discorso analogo può valere per Anassagora di Clazomene, il cui grande merito sta per Aristotele nell’aver introdotto un’Intelligenza (NouV) tale da porre in moto gli elementi senza però identificarsi in essi: in questa maniera, Anassagora ha intravisto la causa finale. Nell’esposizione delle dottrine anassagoree, Aristotele insiste su come – per il filosofo di Clazomene – in ogni oggetto siano presenti tutti gli infiniti elementi e su come sia l’Intelligenza a porre ordine in tale caos (Dilthey nota che questo è l’inizio della teologia): l’ordine è posto e, in forza di ciò, può essere conosciuto. La figura di Anassagora, dunque, gode in certa misura della simpatia di Aristotele, benché Socrate – stando a quel che Platone racconta nel Fedone – fosse rimasto assai deluso dalle indagini naturalistiche anassagoree. Proprio Socrate è da Aristotele menzionato, ma non collocato tra questi filosofi di cui egli si occupa nel libro I: e ciò a ragion veduta, poiché esula dagli interessi di Socrate la spiegazione della natura; egli si interessa solo di questioni etiche e, come si dice nel Fedro platonico, egli svolge a propria attività di filosofo non fuori, ma dentro le mura della città, in quanto hanno molto più da insegnargli gli uomini rispetto alla natura. Platone, invece, è da Aristotele inserito a pieno titolo tra gli investigatori della natura: e lo Stagirita gli fa dire cose che nei dialoghi (l’unico dialogo che ha per oggetto la natura è il Timeo) non leggiamo, ma che dovevano appartenere a quelle dottrine non scritte (agrafa dogmata) sviluppatesi all’interno dell’Accademia. Perfino Parmenide – messo accanto a Esiodo - è qui da Aristotele ricordato come naturalista, poiché – in quella parte del suo poema dedicata alla doxa – egli trattava di quel mondo fisico in cui gli uomini scorgono illusoriamente il divenire. Sotto questo profilo, gli atomisti (Leucippo e il suo discepolo Democrito) rappresentano la perfezione del naturalismo. I naturalisti non tengono in considerazione che ci sono anche cose buone e cattive: se tutto si fa da sé, perché mai ci sono cose buone e altre cattive? E’ qui introdotto, di sfuggita, il problema del male, a cui Esiodo e Parmenide hanno provato a rispondere. Platone stesso (nel Sofista e nel Protagora) mette in luce come bello, buono e addirittura l’ente coindicano, cosicché l’ente come tale è bello e buono. Ancora una volta, ciò risponde ad un ideale greco, e più precisamente all’ideale del kaloV kai agaqoV, secondo cui ciò che è bello è anche buono, e viceversa. Nella seconda parte del suo poema, Parmenide si interroga su tali questioni. Sembra quasi che per Aristotele sapere significhi portare le cose dal movimento all’immobilità, e la coppia potenza/atto non è se non una ripresa di questa tematica, giacchè l’atto è l’essere fisso, colto nella sua sostanzialità. Non a torto Heidegger insiste nel sostenere che, per capire realmente la metafisica aristotelica, si debbano veramente capire l’etica e la fisica di Aristotele, opere nelle quali occupa una posizione incontrovertibilmente centrale il movimento: si tratta, nella fattispecie, di capire perché il movimento non sia un’illusione (come credeva Parmenide), ma un qualche cosa di determinato. Nel cap.6 si parla di principi e di idee come di due realtà distinte: i principi reggono le idee e i numeri o stanno sul loro stesso livello? E’ difficile stabilirlo, anche perché in quei punti il testo è corrotto; tuttavia, sappiamo che per Platone vi erano principi addirittura superiori alle idee stesse. Porre il problema delle cause significa porre un problema di fisica: si dovrà allora indagare qualcosa che non appartiene al mondo fisico (su ciò verte la Metafisica) come se ad esso appartenesse. Ma l’atteggiamento materialistico dei primi filosofi appare insufficiente per spiegare le cose come stanno, poiché occorre rinvenire anche una causa del movimento non risolvibile nella materia stessa: ad essa sono pervenuti Empedocle (con la sua teoria dell’Odio e dell’Amore) e Anassagora, con la teoria del NouV che ordina le particelle. Introdurre un’Intelligenza – come fa Anassagora – è come riconoscere che le cose siano in equilibrio ma che poi debba intervenire un’Intelligenza per riordinarle. Dal canto loro, gli atomisti cercano determinazioni meramente materiali, come l’ordine, la figura e la posizione: così A si distingue da N per figura, AN da NA per ordine, N da Z per posizione. E gli atomisti, nel loro tentativo di spiegare la realtà, non debbono in alcun caso fare riferimento ad un’Intelligenza esterna agli atomi stessi. Di tutt’altra specie è l’atteggiamento di Platone e dei Pitagorici, ad avviso dei quali la causa principale cessa di essere quella materiale o quella efficiente e diviene l’essenza (il che resta valido anche per Aristotele), sinonimo di definizione (con l’idea del determinare le cose a partire dalla loro stessa definizione). Ma quella pitagorica dev’essere intesa in realtà come una non-soluzione, giacchè asserire che la determinazione formale è il numero (per cui, per definire una cosa, dovrei ricondurla ai numeri o creare contrapposizioni legate al numero, come vuoto/pieno, finito/infinito) non risolve in maniera definitiva i problemi. Il caso di Platone è più articolato e complesso, giacchè Aristotele stesso aveva abbracciato in gioventù le sue tesi (e aveva scritto opere – andate perdute - fortemente platoniche sulle idee e sul bene); ora, nella Metafisica, la dottrina delle idee è ormai alle spalle e Aristotele può criticare il suo ex maestro (cap.6 e 9) con più argomenti, talvolta anche banali (così ad esempio quando critica le idee come raddoppiamento del numero delle cose: ogni cosa sensibile ha la sua corrispondente idea). Se non si riescono a spiegare gli enti empirici, tanto meno sarà possibile rendere conto di quelli ideali, anche perché è facile incappare in un ostacolo non da poco (di cui Platone stesso aveva preso atto nel Parmenide): se per ogni cosa c’è un’idea, allora anche per ogni idea dovrà esserci un’idea, e così via all’infinito. E’ questo l’argomento che Aristotele battezza come argomento del "terzo uomo" (Socrate in carne ed ossa rimanda all’idea di Socrate, ma questa rimanda a sua volta all’idea dell’idea di Socrate). Sempre nell’ambito della dottrina platonica delle idee sussiste l’annoso problema di come si relazionino le idee fra loro e col mondo sensibile che di esse è pallida copia: problematiche a cui Platone aveva provato a rispondere nel Sofista e ne Parmenide; ma Aristotele insiste su come il mondo delle idee non spieghi affatto quello sensibile, ma anzi renda ulteriormente difficile la sua spiegazione. Per spiegare questo mondo – che per Aristotele è l’unico – occorre spingersi al di là di esso, addivenendo al soprasensibile, che tuttavia dev’essere ben delimitato. Del resto, se ogni cosa è transitoria e sfuggente – come è nel nostro mondo – come potrò conoscere la realtà se non fisso determinazioni che non periscono? Si affaccia qui l’esigenza di porre un mondo non transeunte, ma la risposta platonica del mondo delle idee come perennemente fisso e sottratto al divenire non persuade Aristotele. Occorre rinvenire una realtà sottratta al movimento, senza nascita e morte: tale può essere il mondo dei numeri. Nel cap.9 Aristotele insiste sulle dottrine non scritte di Platone, in particolare sulla contrapposizione tra Uno e Molteplice (piccolo e grande), con riferimento alla Diade indefinita e alle cose che si oppongono. L’Uno, più che come numero, va inteso qui come ciò che manca di manifestazioni sensibili, poiché il mortale vive sempre calato nel mondo dei sensi. La sofia è appunto la visione delle cose non soggette al processo di nascita e di morte: ma è, questa, la posizione più criticata tra quelle assunte dallo spirito greco, posizione che si rafforzerà con l’incontro del mondo dei Greci con quello cristiano (nonostante le profonde diversità trai due). Già Talete può essere considerato, lato sensu, un illuminista, benché nel suo pensiero risuonino le suggestioni mitiche: egli si avvale della sola ragione nell’indagare intorno al mondo e il principio a cui approda – l’acqua – è, nella sua materialità assoluta, qualcosa di profondamente sganciato dalla religione; sull’altro versante, un filosofo della statura di Socrate, nemico dichiarato della tragedia e della sofistica (che dell’illuminismo greco è una delle massime espressioni), pare suggerirci che la vera comprensione sia raggiungibile non tanto per via razionale quanto piuttosto passionalmente. Anche il secondo libro è un’introduzione ai problemi della metafisica, mentre col terzo si entra nel vivo dell’indagine: esso è connesso al primo in quanto anche qui troviamo il riferimento alla "scienza che stiamo cercando" (la metafisica) e di cui ancora non disponiamo: si tratta di una scienza fatta di domande e tali sono le aporie costituenti l’ossatura di questo libro terzo. In greco, poroV è il passaggio, la via d’uscita: e aporia designa, in tal senso, un vicolo cieco, una strada senza uscita; le aporie saranno allora domande in cui ad una tesi è contrapposta un’antitesi senza che sia possibile dire più vera l’una rispetto all’altra. Si tratta dunque di nodi da sciogliere, ma non nel senso che si debba e si possa trovare una risposta, bensì nel senso che si debba capire da dove nasca la domanda: il fatto stesso di porsi la domanda, ancorché questa rimanga irrisolta, è un passo avanti. In questo senso, l’aporia diventa euporia. In fin dei conti, il cuore delle diverse aporie messe in luce da Aristotele può essere ridotta ad una sola: è vera la tesi dei naturalisti o, piuttosto, l’antitesi dei platonici? A tale domanda lo Stagirita non risponde unilateralmente: per lui, la metafisica non deve sposare né l’una né l’altra soluzione, benché nei libri I e III egli si senta in certa misura ancora – per usare l’espressione del Sofista – un filoV twn eidwn, un "amico delle idee", pur non condividendo pienamente la dottrina platonica. Le aporie sono sparse qua e là per il libro III: Giovanni Reale, che di Aristotele è uno dei massimi interpreti a livello mondiale, ne conta quindici e tende ad attribuire maggior importanza a certe aporie anziché ad altre: ad esempio, egli ritiene assolutamente centrale quella che chiede se esistano solo sostanze materiali o se ve ne siano anche, accanto ad esse, di soprasensibili. Egli dà molta importanza anche all’aporia (la ottava) che pone il problema di come sia possibile una scienza (intesa come universalizzazione) se tutte le sostanze sono individui (ove l’individuo è il todh ti). Non è un caso che queste due aporie siano incentrate sul problema del soprasensibile. Nel libro XII – che è per molti versi un libro a sé stante -, lo Stagirita risponde con certezza che c’è una sostanza soprasensibile: ma il libro III risale probabilmente ad un’età in cui Aristotele non era ancora addivenuto a tale certezza e ancora ignorava che cosa realmente fosse la scienza, sicchè egli non poteva che porre tali questioni per via apiretica, lasciando in sospeso il problema. Il principale punto di distacco dal maestro Platone può essere rinvenuto nel fatto che questi intendeva l’essenza come genere, tale per cui le cose sono le loro definizioni (il vero essere di Socrate è l’essere uomo): Aristotele, dal canto suo, nell’aporia tredicesima si domanda a che giovi l’introduzione delle Idee platoniche e intende l’essenza come todh ti, come sunolon di ulh e morfh. Ne segue, allora, che posso domandarmi che cosa è Socrate solo perché c’è Socrate come todh ti, ovvero come ente in carne ed ossa, e non già perché c’è l’Idea iperuranica a cui fare riferimento: tutte le aporie sono percorse dalla contrapposizione tra genere ed elementi materiali: per i naturalisti ionici esistono solo i secondi, per i platonici solo i primi. Aristotele assume invece una posizione mediana e mantiene sia gli elementi materiali sia i generi. Inoltre per i naturalisti ionici vi è un’unica scienza perché unica è la causa (la causa materiale), ma se le cose stessero in questi termini, allora – avendo Aristotele ravvisato ben quattro cause – le scienze dovrebbero essere quattro! Se leggiamo con attenzione il libro XII, pare che la scienza sia unica e sia quella teologica: ma il motore immobile, che muove senza essere mosso, non racchiude in sé tutte e quattro le cause; esso è anzi solamente causa finale. Un’altra aporia di gran rilievo è quella con cui Aristotele chiede se la scienza che studia le sostanze sia la stessa che studia le dimostrazioni. Per i platonici parrebbe di sì, mentre Aristotele lascia in sospeso la questione. La scienza è unica o ce n’è una per ognuna delle sostanze che popolano il mondo? Come dicevamo, nel libro XII essa è unica, ma il libro XII costituisce una specie di inganno ottico, in quanto è posto alla fine della Metafisica ma in realtà non è certo tra gli ultimi ad essere stato composto, è anzi piuttosto precoce, mentre più tardi sono i libri centrali. La quarta aporia si chiede se la scienza studi solamente le sostanze o anche gli accidenti. Per i naturalisti ionici, questi ultimi rientrano a pieno titolo nella sostanza e dunque sono oggetto di scienza; sull’altro versante, i platonici sostanzializzano gli accidenti. Se però si restasse nel sensibile senza innalzarsi al di sopra di esso, non ci si potrebbe rendere conto nemmeno del sensibile stesso: da qui nasce l’esigenza di fare metafisica. L’essere e l’uno non sono sostanze, cosicché è vero che servono per determinare i generi, ma non sono sostanze (perciò il motore immobile non è né l’uno né l’essere). L’unità dei principi è specifica o numerica? I principi delle cose corruttibili sono gli stessi di quelle incorruttibili? Il moto dei corpi celesti segue le stesse regole di quello dei corpi terreni? Agli occhi di Aristotele, i platonici tendono a distinguere troppo marcatamente il mondo sensibile da quello intelligibile: quest’ultimo per Aristotele non è che il nostro mondo concepito sotto forma di pensiero, anche se poi lo Stagirita finisce per dare del platonismo interpretazioni sue (così fa quando assimila platonici e pitagorici). L’aporia dodicesima pone il problema se i numeri siano essi stesse sostanze oppure no. Lo stesso Platone (Repubblica, VI – VII) parla di scienze dianoetiche e, al di sopra di esse, di cose superiori collocantisi al di là dell’ousia. Aristotele tenta la fondazione di una scienza che stia al di sopra anche della scienza dianoetica (cioè matematica), seguendo in ciò (almeno nelle intenzioni) le orme di Platone. La specie vale come specificazione di un genere – l’uomo come animale (genere) bipede (specie) – e, in certo senso, la specificazione non fa che negare il genere: non c’è mai, infatti, il genere animale, ma sempre e soltanto le varie specie (il cane, il cavallo, ecc). E’ astraendo da tutto ciò che le specie hanno in comune che ricavo il genere animale, che dunque non esiste autonomamente (a dispetto di quel che credeva Platone). Così, Socrate può avere cose in comune con Callia, può essere musico o camuso, ma queste non sono Idee che si aggiungono all’uomo Socrate: ed è da queste problematiche che trae origine l’aporia con cui Aristotele si domanda se esistano oppure no gli universali; si tratta di un problema destinato a restare nel tempo e a costituire il cuore della riflessione filosofica in età medievale. Aristotele riesce a mantenere una scienza e, al contempo, a salvare l’esistenza delle singole sostanze. Per la scienza attuale vi sono solo individui, cosicché la scienza degli universali prospettata da Aristotele sembra definitivamente tramontata: ma egli già si era domandato – anticipando in ciò la scienza attuale – se la scienza dovesse riguardare gli individui o gli universali, benché poi al bivio egli avesse svoltato nella direzione opposta rispetto alla scienza attuale. Heidegger nota come Aristotele sia stato il primo fenomenologo della storia, benché di un fenomenologo del senso comune si tratti: il mondo è infatti per lo Stagirita così come appare. Tutto passa e tutto scorre, ma è necessario cogliere quelle determinazioni in cui tutto passa e tutto scorre. Per i naturalisti ionici, la forma è mera parvenza; per i platonici, ad essere mera parvenza è la materia: il comune esito che tali posizioni producono è l’impossibilità di una scienza in senso pieno, ed è a ciò che Aristotele si oppone vivamente, imboccando una via intermedia che pone aporeticamente le due alternative. Pensare significa porsi il problema del tutto, ma il tutto non è mai dato ai sensi: ed è per questo che gli animali, inevitabilmente legati ai sensi, non possono pensare. Non è però possibile asserire né che tutto sia materia né che tutto sia "spirito", sostiene Aristotele anticipando tematiche su cui si interrogherà con particolare insistenza il XVII secolo: il problema è allora quello di riuscire a pensare alla totalità senza però uscire da essa. Significativamente, Aristotele menziona uno scritto di Protagora – andato perduto – in cui il sofista negava il valore della matematica e della geometria facendo leva sul fatto che, nel momento stesso in cui ci avvaliamo di supporti fisici per fare matematica e geometria, già non stiamo più facendo matematica e geometria, giacchè nell’esperienza è impossibile trovarle. Nulla è più sbagliato di un tale ragionamento, obietta Aristotele: viceversa, la matematica è valida proprio perché sganciata dal sensibile. Dietro il nostro mondo, ne vediamo un altro: il mondo matematico e geometrico. Jaeger nota con acutezza come il libro III sia provvisorio, nel senso che il libro IV avrebbe dovuto sostituirlo, ipotesi che – se si guarda al contenuto assai vicino dei due libri – pare assai plausibile, benché Giovanni Reale la rigetti. Molte cose presentate nel libro III in via apiretica (ad esempio: gli assiomi sono anch’essi parte della scienza teoretica o fanno invece parte di una scienza a sé stante?) vengono riprese nel libro IV in maniera definitiva (si dice appunto che gli assiomi fanno parte della scienza teoretica: la logica non è scienza a sé, il che fa di Aristotele un "fondazionalista", poiché egli ritiene che i principi primi siano fondati per intuizione). Ciò non toglie, tuttavia, che alcune aporie restino tali anche nel libro IV: è questo il caso dell’essere e dell’uno, di cui Aristotele continua a non saper dire con certezza se siano o meno sostanze. Ma le aporie che vanno dall’ottava all’undicesima sono risolte tutte in favore dell’unica scienza, tant’è che nel par.1 del libro IV si parla di una "scienza che studia l’essere in quanto essere" ed essa è diversa da tutte le altre, il che è e resta aporetico: se è diversa, non è determinabile e, di conseguenza, non ha un suo determinato settore dell’essere di cui occuparsi; sicchè essa, propriamente, non ha un oggetto particolare, a differenza delle altre scienze, tutte indaganti su precise porzioni dell’essere. Ciò resta un’acquisizione fondamentale per la fenomenologia novecentesca: non è un caso che Heidegger parli delle "altre" scienze (nel cui novero pone la teologia) e, separatamente, dell’unica scienza (fenomenologica), tale per cui è come se dalle cose guardate guardasse a chi guarda. La metafisica come Aristotele la intende studia l’ente in quanto ente, non in quanto essere vivente o in quanto elemento fisico: è quasi spontaneo dire che allora essa studia l’ente in quanto pensiero. Ed è proprio in difesa del pensiero che Aristotele difende quel "principio di non contraddizione" messo in forse da Protagora: nell’impossibilità di argomentare in favore di esso, lo Stagirita ragiona per assurdo, mettendo in luce le assurdità che deriverebbero dalla sua negazione (l’assurdità più grande è che non si potrebbe nemmeno parlare!). Come notavamo, nel libro III la disposizione delle aporie non è casuale, ma segue un preciso ordine: nel par.2 sono presentate le prime cinque, nel par.3 la sesta e la settima, nel par.4 quelle che vanno dall’ottava all’undicesima e, infine, la tredicesima e la quindicesima sono affrontate nell’ultimo paragrafo. Tutte quante, se ridotte all’osso, riguardano un unico problema: la fondazione della scienza di cui siamo alla ricerca. Non v’è alcuna scienza dell’individuale e, poiché i sensi ci danno solo casi individuali, non potrò fondare su di essi la scienza: ma l’uomo, che delle sensazioni è amante (libro I), non può rinunciare ad esse e, in forza di ciò, prova a fondarle scientificamente in un sapere tale da dare la certezza di quel che si riceve dai sensi. Nel par.8 del libro IV fa la sua prima comparsa cursoria il "motore immobile", alla cui trattazione specifica è dedicato il libro XII: esso non è un qualcosa che sta al di fuori del mondo, è anzi richiesto dal mondo stesso. Il par.3 del libro III è dedicato alle aporie sui generi: i principi sono generi o elementi materiali? Ben si vede qui come Aristotele dia ragione a Platone senza però asserire che i principi siano senz’altro dei generi esistenti: i generi non esistono, se per esistenza intendiamo quel che Platone riferiva alle Idee. La nozione stessa di ousia assume diversi significati in Platone e Aristotele: per il primo, essa è l’essenza; per il secondo è invece la sostanza individuale (todh ti), sinolo di materia e forma, per cui nel definire l’uomo non cogliamo la sostanza individuale Socrate (come credeva Platone). La quarta aporia si domanda a ragione se la scienza debba occuparsi solamente della sostanza (Socrate) o anche degli accidente ad essa inerenti (camuso, musico, bianco, ecc): Socrate sarebbe Socrate anche se non fosse camuso, musico, bianco ecc, poiché egli è quel che è perché è un todh ti. Nel libro VII, Aristotele asserisce che né la forma né la materia sono creati, ma si deve cogliere la sostanza nel tempo e nel movimento, tenendo conto che non esiste alcun movimento infinito lungo una retta (ed è per questa ragione che lo Stagirita ricorre al moto circolare, che perpetuamente ritorna su se stesso). L’uno e l’essere (accomunati anche nel libro IV) sono sostanze? Pare che non lo siano, giacchè tra "uomo" e "un uomo", tra "uomo" e "uomo essente" non v’è differenza; similmente Kant nota (in L’unico argomento possibile per una dimostrazione di Dio) che tra dire quel che Cesare ha fatto e dire che Cesare è stato non v’è differenza: descritta la vita di Cesare, se poi aggiungo che "Cesare è stato", in realtà non aggiungo nulla. La posizione opposta a quella aristotelica è quella degli eraclitei e dei sofisti, per i quali non si dà scienza, se non in maniera meramente convenzionale perché fondata su determinazioni umane. Viceversa, per Aristotele sussistono assiomi e determinazioni reali che permettono la scienza; lo stesso "principio di non contraddizione" – che pure non è dimostrabile – è principio regolante il reale oltrechè il pensiero. Se accentuo troppo l’antiplatonismo finisco per dire che Socrate è solo Socrate, arrivando in maniera eraclitea a negare la possibilità della scienza: occorre schierarsi in un mhson ariston, un’ottima via di mezzo che non neghi la scienza senza però incorrere nel platonismo. Heidegger coglie l’antipatia che l’età moderna ha per il pensiero e, dunque, per Aristotele: il parmenideo "pensare ed essere sono la stessa cosa" è diventato "essere e percepire sono la stessa cosa" (l’esse est percipi di Berkeley). In certo senso è come se il problema dell’essere fosse ricondotto al problema del numero, cosicché chiedersi che cosa sia l’uno e che cosa sia l’essere equivale a porsi un’unica domanda. Il numero, del resto, non è necessariamente la numerazione, tant’è che propriamente l’uno non è un numero, giacchè non serve per contare (dire "uomo" e dire "un uomo" è la stessa cosa, come dire "uomo" e "uomo che è"). Nel cap.2 del libro IV ci si accosta all’essere per analogia: l’essere si dice in molti modi (to on legetai pollacwV), ma ciò non toglie che esso abbia una sua unità: così l’aggettivo "salubre" può essere riferito all’aria o ad una punizione – cose ben diverse fra loro -, mantenendo un suo significato unitario di fondo. Parimenti di ogni cosa posso dire che è, e dietro ai tanti significati dell’essere ve n’è uno che li lega tutti: è quel significato in cui appunto emerge la connessione tra uno ed essere. C’è l’essere della "sostanza seconda" (ovvero l’essere della fisica), caratterizzato dal movimento e a proposito Heidegger nota come per i Greci fusiV sia sinonimo di "essere" e l’essere in questione è innanzitutto quello delle cose fisiche che popolano il mondo. Ma, al di sopra di quello fisico, c’è un essere superiore, una sostanza immateriale (il motore immobile) studiata dalla teologia; è proprio tale motore immobile a permettere di non andare avanti all’infinito nella ricerca delle cause (anagkh sthnai ,dice Aristotele: "bisogna fermarsi"), poiché per i Greci l’infinito è – a differenza dell’eterno – sempre qualcosa di negativo. In quest’accezione, l’essere è determinazione immobile di ciò che sta al di sopra del mondo in movimento: sbagliano allora Eraclito e Cratilo a sostenere che tutto scorre (panta rei) senza individuare quella sostanza prima di cui nulla si perde perché nulla si muove. Ed è qui che trae origine anche l’errore di Parmenide, che descrive l’essere come una sfera immobile (dunque perfetta). Lo sforzo che Aristotele condivide con Platone sta nel mantenere la concezione parmenidea e, al contempo, mantenere il movimento non già come deformazione doxastica (quale era in Parmenide e nei paradossi di Zenone), ma di addivenire ad una concezione concreta del movimento. La scienza di cui siamo in cerca deve allora anche prendere in esame gli assiomi e non la sola sostanza: l’analitica (termine col quale Aristotele designa la logica) rientra a pieno titolo nella scienza in quanto ricerca dei principi (ad esempio il principio di non contraddizione). E se stiamo cercando una scienza è proprio perché la dialettica – alla quale si erano fermati Platone e Socrate – è insufficiente in quest’ambito. Uno dei grandi errori in cui è incappata la modernità sta nell’aver ridotto l’essere all’univocità (Duns Scoto, Ockham, Giordano Bruno, Cartesio, Suarez, Leibniz, Wolff, Kant, ecc), in antitesi ad Aristotele, ad avviso del quale esso si dice in molti modi tutti collegati soltanto da un’analogia (ancora in Verità e metodo di Gadamer risuona una condanna contro la riduzione dell’essere ad univocità). Se elimino l’analogia dell’essere, allora elimino anche la metafisica: ed è questo uno degli aspetti più tipici del moderno (pensiamo al positivismo o al pragmatismo). Significativamente Brentano intitola il suo scritto su Aristotele Sulla molteplicità dei significati dell’essere, a rimarcare come ciò sia l’argomento centrale della metafisica aristotelica, il che consente aperture religiose, benché Aristotele non nutra grandi interessi per la religione (il motore immobile stesso non ha nulla di religioso). La religione stessa, oltrechè la modernità, si ribella alla metafisica: pensiamo a Pascal che attacca il Dio dei filosofi (Aristotele) e degli scienziati, di Cartesio e di Galilei, che a loro volta attaccano tangenzialmente – pur essendo buoni cristiani – il Dio della religione. Dalle aporie emerge bene la presa di posizione antiplatonica: Socrate non è che quella determinata carne (e per Aristotele la carne è unione di terra e fuoco) che assume quella determinata forma, senza che vi sia alcuna creazione divina. Lo stesso interrogarsi platonico sull’esistenza di entità matematica è un domandare privo di senso, giacchè mal formulata è la domanda (domanda che ancora Bertrand Russell si pone): le verità matematiche sono nel senso in cui la parola "essere" è comune a tutte le espressioni in cui la si impiega. Posso indagare l’essere in tutti i suoi modi quando colgo le cose nel loro essere. Heidegger, Gadamer (il concetto di frwnesiV è in lui centrale) e Arendt accentuano la valenza pratica della filosofia aristotelica; come si ricorderà, la filosofia pratica è l’unico ambito delle scienze in cui Aristotele fa ricorso alla dialettica e dove lo Stagirita (come nota acutamente Gadamer) è "socratico" a tutti gli effetti. Il motto di Edmund Husserl "alle cose stesse" fa – secondo Heidegger – di Aristotele il primo fenomenologo della storia, giacchè egli lascia che le cose si mostrino, in opposizione a Protagora (l’uomo misura di tutte le cose), a Eraclito e ai Sofisti in generale, dove per sofisti dobbiamo qui intendere tutti coloro che negano la possibilità di una scienza che sia realmente tale. Il breve libro VI è un’introduzione alla parte centrale della Metafisica anche se è un’introduzione che non rispecchia pienamente ciò che introduce: ad esempio, in essa troviamo esposto il concetto di teologia ma su di esso Aristotele non tornerà più fino al libro XII. Nel par.1 è posta la distinzione delle scienze teoretiche (filosofia prima, matematica, fisica): si riprende inoltre il concetto della polisemia dell’essere e i suoi vari sensi vengono ora specificati: vi sono due sensi "forti" (dei quali trattano i libri VII e VIII) e due "deboli" (dei quali tratta il libro VI). I due sensi forti sono l’essere come categorie e l’essere come potenza e atto (coppia a cui è dedicato il libro IX); i due sensi deboli sono invece l’essere come accidenti e l’essere come vero e falso, su cui Aristotele si sofferma nei cap.2-3-4 del libro VI. L’essere come vero e falso è assai importante ed è strano che Aristotele lo riprenda – peraltro in maniera differente – nel libro IX cap.10. Nel tratteggiare le differenze tra la filosofia e le altre due scienze teoretiche, lo Stagirita segnala una contraddizione: da una parte, la filosofia prima cerca un oggetto universale (l’essere in quanto essere) e, dall’altra, si dice che il suo oggetto particolare è Dio (non più metafisica, ma teologia). Perché mai questa scienza universale dovrebbe occuparsi di un oggetto particolare quale è Dio? Nel libro VII. Aristotele tratta della sostanza come sinolo di materia e forma, senza mai parlare – se non di sfuggita – dell’altra sostanza non composta. Alla luce degli insegnamenti aristotelici, gli Stoici insisteranno sulla logica, la Scolastica medievale sulla teologia naturale (Tommaso). Questa scienza si distingue dalle altre perché non è ritagliata su un certo ambito dell’ente: le altre scienze presuppongono l’essere di ciò che trattano (esistono come scienze perché c’è il loro oggetto), mentre la filosofia prima ha per oggetto il problema dell’essere in quanto tale. Le tre scienze teoretiche si distinguono tra loro per due determinazioni: l’essere separato e l’immobilità. La fisica si occupa di oggetti separati ma mobili (i corpi celesti e quelli terrestri) e Aristotele fa l’esempio del camuso e del concavo. In Saggi e discorsi, Heidegger scrive il saggio La cosa (Das ding), dove, partendo dalla considerazione degli antichi, dice che nel vaso la materia è sì essenziale, ma la vera essenza è l’interno, cioè il vuoto. Così la fisica, per Aristotele, si occupa della dimensione separata della materia non mobile. La matematica si occupa invece dei numeri: essi sono immobili e – forse – non separati. Dio, oggetto della teologia, è separato e immobile. Sembra a questo punto che Aristotele debba occuparsi di Dio, ma poi, nel libro seguente, la sua attenzione si appunta sulla sostanza: egli dirà che vi sono sostanze sensibili corruttibili, sostanze sensibili non corruttibili, sostanze soprasensibili. Egli poi non parla più né della teologia, né della matematica, né della fisica: la scienza che stiamo cercando le rende possibili e le rende tali le une rispetto alle altre (come dire che se c’è metafisica, allora ci sono la matematica, la teologia e la fisica). E’ errato credere che la Metafisica sia una teologia: ciò era già stato notato da Tommaso nel suo commento all’opera; a Dio si arriva conoscitivamente alla fine, benché egli stia all’origine di tutto. L’essere in senso debole è innanzitutto l’essere come accidente: già la quarta aporia chiedeva se la metafisica dovesse occuparsi solo della sostanza o anche degli accidenti, che non sono determinazioni necessarie. Ad esempio, che Socrate sia vestito di bianco o di nero, che sia musico o camuso, è accidentale, giacchè non toglie che egli sia comunque Socrate; sostanziale è, invece, il fatto che egli sia bipede, razionale, ecc. Il secondo senso "debole" dell’essere è quello de vero e del falso: è un significato debole perchè riferito al pensiero, alla sostanza trasferita nella mia mente. Quando ho Socrate dinanzi a me e dico che egli non c’è, sto dicendo il falso, ma si tratta di un procedimento della mia mente e, in virtù di ciò, è debole, in quanto riguardante non già l’essere, ma il mio pensare l’essere. Heidegger dedica il cap. 33 di Essere e Tempo a questa problematica, al logoV tradizionalmente inteso come luogo della verità. Nel De interpretatione (cap.4), Aristotele si pone il problema del vero e del falso come logoV apofantikoV ("proposizione dichiarativa"): ed egli nota con acutezza come vi siano anche proposizioni non dichiarative e, dunque, soggette ad essere né vere né false (tale è, ad esempio, il comando "chiudi la porta!"). Sulla scia di queste riflessioni aristoteliche, Heidegger parla di un "in quanto apofantico" e di un "in quanto ermeneutico": nel par.44 di Essere e Tempo, asserisce che "l’esserci è sempre nella verità", in quanto ermeneutico: la cosa è sempre in un dato modo e quel modo è sempre vero. La nozione di ousia è il punto nodale per comprendere la distinzione tra il pensiero platonico e quello aristotelico: in Aristotele anche l’ousia, al pari dell’essere, si dice in molti modi e, del resto, la stessa filosofia aristotelica può essere compresa e detta in più modi, senza mai avere un senso unilaterale (benché si possa seguire, sì, un filo conduttore, nascosto dietro ad una pluralità di determinazioni). Così lo Stagirita asserisce che l’essere dev’essere inteso anche come categorie, ma poi, nello scritto sulle Categorie, egli parla di esse solamente in senso logico, mai ontologico. Resta in ogni caso vero che la ricerca metafisica non si muove nell’ambito del vero e del falso, poiché essi riguardano soltanto quel che io dico delle cose (e ciò esula dalla ricerca metafisica). Il Trattato sull’emendazione dell’intelletto di Spinosa e la IV delle Meditazioni metafisiche di Cartesio si soffermano sugli errori dei sensi (Cartesio adduce l’esempio, di sapore lucreziano, della torre che, vista da lontano, pare tonda, ma che poi in realtà, quando la avviciniamo, è quadrata). Il problema dell’essere (che cos’è l’essere?) tende a trascolorare nel problema dell’ ousia (che cos’è l’ ousia?), ovvero il problema della sostanza, che è senz’ombra di dubbio il più complesso tra quelli esaminati nella Metafisica. La sostanza non dev’essere intesa a partire dai sensi, benché tutti noi siamo abituati a farlo, in quanto avvezzi a muovere dalle cose materiali: si deve invece partire dall’essere in quanto tale, tenendo sempre presente che l’ordine della nostra conoscenza non necessariamente corrisponde all’ordine del reale, cosicché il sensibile, che per noi viene prima di ogni altra cosa, in realtà sta dopo il soprasensibile. I primi capitoli del libro VII sono introduttivi al problema della sostanza, mentre il cap.3 entra in medias res, mettendo in luce come la sostanza si dica in quattro modi: la sostanza come sostrato o come materia o come forma o come sinolo di materia e forma. In rottura con Platone, si fa notare come la sostanza non sia né un universale né un genere autonomamente esistente. Nei capitoli tra 4 e 6 si affronta il tema della sostanza come essenza, mentre nei capitoli tra il 7 e il 12 si parla del divenire, ma i cap.7-8-9 sono a sé stanti. Nel cap.17 c’è la conclusione, in cui si tirano le fila. Giovanni Reale dice che questo libro resta in attesa di parlare delle sostanze soprasensibili, che vengono in esso trascurate in favore di quelle a cui accediamo tramite i sensi. In realtà, però, il libro VII affronta il tema della sostanza in generale, senza distinguere nettamente tra quella sensibile e quella soprasensibile. Nel definire la sostanza mi riferisco al "per sé" (kaqauto) e all’essenza (le definizioni): per essere sostanza, deve sussistere per sé e dev’essere definibile, il che implica un inevitabile riferimento al linguaggio (su cui Aristotele si sofferma nelle Categorie e nel De interpretatione). Parlare di sostanza come sostrato equivale a dire che non la si può predicare di qualcos’altro. La domanda che pare a questo punto spontanea è la seguente: perché ogni cosa ha una sua unità? A tal proposito Aristotele dice che l’Iliade è una cosa unica, ma che non ogni cosa mi dà un’essenza. Spinosa intende l’unica sostanza come Dio e, per far ciò, nega l’esistenza del vuoto (è infatti il vuoto a distinguere le cose le une dalle altre). Ma non ci si può arrestare alla sostanza: ci vogliono anche i generi (così l’uomo appartiene al genere animale). Ma che rapporto intercorre tra la singola cosa e l’essenza? E’ un rapporto o di totale identità o di separazione: la sostanza in quanto essenza è sempre separata, in quanto definibile. Ma non vi sono Idee separate dalle cose stesse: Socrate è Socrate perché è quella determinata carne e quelle determinate ossa che lo rendono tale. Il problema della sostanza diventa allora il problema della definizione: che cosa posso definire? Non posso mai definire il bianco se non in riferimento a cose bianche. Ma la "filosofia prima" non dice nulla della sostanza in quanto tale, bensì si limita a parlare delle sue determinazioni: c’è un rimando alle cose divine, nel senso che ci si occupa della sostanza in maniera "logica", il che lascia tutto in sospeso: non ci occupiamo della sostanza in termini sensibili, così sembra dire Aristotele. La sostanza è strumento per riconoscere l’unità delle singole cose. Per Aristotele non si tratta di cercare "un mondo dietro il mondo" (Nietzsche), come era invece per Platone: la ricerca delle cause serve invece a comprendere la cosa stessa, senza ipostatizzare la causa. Le Idee platoniche non hanno per Aristotele alcuna esistenza autentica: materia e forma sono presupposte come necessarie e sufficienti a spiegare ogni cosa. Ad esserci sono le sostanze, il problema sta nel definirle: nel cap.5 si dice che non sono possibili definizioni di cose come il "naso camuso"; seguire le orme di Platone è rischioso, poiché porta a paradossi come quello del "terzo uomo". Il problema centrale è allora quello del "per sé", ovvero di ciò che costituisce un’unità analogica: gli esempi addotti in merito da Aristotele sono quello dell’"uomo bianco" e del "bene". "Uomo bianco" ed essenza di "uomo bianco" sono due cose differenti poiché, se fossero la stessa cosa, allora sarebbero la stessa cosa anche "uomo" e "uomo bianco", il che è palesemente assurdo; similmente, "musico" e "bianco" dovrebbero coincidere. Nessun uomo è uomo perché è bianco. Il bene e l’essenza del bene, invece, coincidono, cosicché non debbo uscire dalla cosa per trarne l’essenza (un unico atto buono è sufficiente per definire il bene). Mentre nel cerchio di bronzo il bronzo non fa parte della sostanza "cerchio" , nell’uomo le ossa e la carne fanno parte della sostanza dell’uomo. La Metafisica stessa, più che come opera teoretica, si limita a descrivere le cose come esse si presentano. La materia è sostanza in senso debole, mentre il sinolo lo è in senso più forte: la forma pura è sostanza in senso pieno e tale è il motore immobile, che non ha più nulla di materiale in sé (non pensa nemmeno ad alcunchè di materiale). Lo stesso concetto di potenzialità è assente in Dio. Aristotele prova a pensare l’essere senza l’ente quando suppone Dio come sostanza attuale, scevra di materia e potenza, e dedita alla vita teoretica (bioV qewretikoV). I cap.7-8-9 risalgono ad una redazione più antica e infatti parlano delle cause del divenire, non più della sostanza; dal cap.10 si riprende il cammino e nel 12 si spiega che cosa è una definizione (che per Platone coincide con l’Idea). Per Aristotele interviene il genere (che non è un’Idea), il quale serve per arrivare alla definizione, che è sempre composta da due termini: "uomo bianco" non è una definizione poiché nessun uomo si definisce per l’esser bianco; "l’uomo è animale bipede" è invece una definizione, poiché esula dall’accidentale. Degli individui singoli (Socrate, Callia, ecc) non v’è definizione. Gli atomisti sono criticati perché non s’accorgono della polisemia dell’essere. Il cerchio può essere di vari materiali (bronzo, legno, ecc), mentre l’uomo deve per forza essere di carne e ossa, cosicché pare che la forma faccia a pieno titolo parte della materia. Il cap.12 è dedicato alla definizione, cui si perviene per genere e per differenza specifica: l’uomo è un animale (genere) bipede (differenza specifica). Dal cap.13 al 16 si adducono argomentazioni per mostrare come la sostanzia non sia un universale, di contro alla tesi platonica: nel cap.14, poi, si riprende il problema dell’universale come sostanza e si mette in luce come, se la dottrina platonica fosse vera, allora si dovrebbe rinvenire lo stesso animale tanto nell’uomo quanto nel cavallo. Se ne evince allora che ogni individuo è una sostanza a sé stante: il grande errore platonica sta nel prendere il genere e farne un "in sé", mentre in realtà esistono sempre e solo individui singoli calati in una data materia e in una data forma. Ciò che rende definibile l’individuo è il fatto che è legato alla materia: non vi sono Idee universali, tuttavia l’individuo non è definibile. Dal punto di vista empirico, è sostanza la materia, ma come determinazione non specificamente legata alla materia è sostanza la forma, che è la causa dell’essere: essa non è propriamente individuale, ma non è neanche idea universale, giacchè è sempre in una materia specifica. Sicchè l’uomo è una determinata forma che accade in una determinata materia, cosicché l’uomo non può essere uomo se non in riferimento ad una materia (non posso pensare Socrate separatamente dal suo corpo). Nel cap.16 è affrontato il problema delle sostanze eterne – il sole e i corpi celesti -, costituite da materia incorruttibile. La luna è il confine che separa ciò che è eterno (il mondo sopralunare) da ciò che è caduco (il mondo sublunare). Aristotele aveva aperto l’opera notando come tutti gli uomini tendono naturalmente (Heidegger direbbe "ontologicamente") all’eidenai, al sapere o, anche, alle forme (eidh). Heidegger rimproverava a Kierkegaard di essersi opposto a Hegel dimenticando Aristotele, per il quale – nota Heidegger – ad esistere sono solamente le sostanze individuali. La materia è potenzialmente tutti gli uomini, come le 24 lettere dell’alfabeto sono potenzialmente tutte le parole possibili: è poi la forma che esse assumono a farle passare a parole in atto, così come è la forma assunta a far sì che quella materia diventi Socrate in atto. Passiamo ora ad esaminare il libro IX: la difficoltà sta nel comprendere quell’insieme di determinazioni non create. Platone – almeno nella visione che Aristotele ha di lui – propone le Idee come esistenti in modo autonomo. Anche Aristotele, in certo senso, dice che esistono, ma a partire dalla considerazione che l’essere si dice in molti modi (di contro all’univocità imperante nel mondo odierno). Forme e "atto puro" sono eterni e, dunque, imperituri (ciò resta vero anche in Tommaso, per il quale Dio è actus purus). La distinzione potenza/atto (introdotta nel libro V, cap.7-8) è ora analizzata nel dettaglio: potenza (dunamiV) e atto (energeia) vanno indagati in coppia, poiché altrimenti non li si può capire: i cap. dall’1 al 5 trattano della potenza e dell’atto a partire dal movimento (è la concezione più ovvia, una concezione meramente fisica), ma una siffatta considerazione non è sufficiente: nei cap. dal 6 al 9 – nota Giovanni Reale – si parla metafisicamente di potenza e atto, e nel cap.8 v’è un’autentica dimostrazione dell’esistenza di Dio, che sarà l’argomento cardinale del libro XII. L’artigiano produce la sfera di bronzo, ma non produce la materia e la forma, le trova invece già esistenti: similmente, Dio non crea le cose, il che fa del Dio aristotelico un Dio esulante da quello della tradizione. Riprendendo le argomentazioni sulla forma e sulla sostanza alla luce della distinzione tra potenza e atto, Aristotele asserisce che esistono una potenza attiva e una potenza passiva (cap.1), giacché anche il subire è una potenza. Nel cap.2 lo Stagirita chiarisce che esistono potenze irrazionali (quelle che realizzano un’unica cosa: ad esempio, il fuoco può solo produrre calore) e potenze razionali (quelle che realizzano entrambi i contrari, ma non al contempo: così la medicina può guarire oppure non guarire, ma non può compiere nello stesso tempo le due operazioni); in particolare, potenze razionali sono tutte le scienze. In questi termini, il male è un non realizzare ciò che andrebbe realizzato (la medicina che, anziché guarire, non guarisce). Nelle potenze razionali è necessario un principio dell’attualizzazione, che può essere il desiderio (epiqumia) o la capacità razionale. Resta sempre, come determinazione costante, la definizione di potenza come realizzarsi di qualcosa in altro (o su se stesso, se inteso come altro: è il caso del medico che cura se stesso e che dunque è medico e paziente insieme). Sia potenza sia atto, in greco, hanno a che fare col movimento, benché per Aristotele essi siano due parole connesse ma indicanti due momenti diversi: la potenza ha a che fare con la possibilità che qualcosa si realizzi, mentre l’atto è quel qualcosa che effettivamente si realizza: a tal proposito, Aristotele adduce (cap.4) l’esempio di Ermes scolpito nel legno; il legno è potenzialmente Ermes e solo quando è effettivamente scolpito diventa Ermes in atto. Similmente, ogni retta contiene due semirette, ma se non spezzo la retta le due semirette restano a livello potenziale. L’atto è dunque qualcosa di compiuto che non rimanda ad altro: e si può capire una cosa in potenza solo se se ne considera l’atto (posso capire che cosa è il seme solo se so cosa è l’albero), cosicché l’atto viene prima sia logicamente sia cronologicamente (perché qualcosa in potenza passi all’atto occorre l’intervento di qualcosa che sia già in atto). Il cap.3 sospende l’indagine teoretica e fa considerazioni storiche sui Megarici, i quali sostenevano l’identità di potenza e atto. A loro avviso, il costruttore è tale solo nel momento in cui costruisce. Aristotele – come con il principio di non contraddizione – non può dimostrare che atto e potenza siano separati, può solo far vedere l’assurdità che deriva dal negare la loro separazione: se ciò che dicono i Megarici fosse vero, allora chi è seduto non potrebbe alzarsi, e viceversa. Per i Megarici il mondo è composto da istanti completamente separati gli uni dagli altri: manca del tutto – come già mancava per gli eleatici – l’idea del movimento, concepito come mera illusione. Nel cap.4 Aristotele si sforza di far vedere come altra cosa rispetto alla potenza sia l’impossibilità: il lato e la diagonale del quadrato sono incommensurabili nel senso che è impossibile che si commisurino; il pezzo di legno, invece, è potenzialmente Ermes nel senso che posso farlo diventare tale. Esistono però cose che paiono in potenza ma che in realtà sono impossibili e sta alla scienza capirlo. Nel cap.5 si conclude l’analisi dei concetti di potenza e atto alla luce della nozione di movimento: a partire dal cap.6 si passa al tratto metafisico di tali concetti, cosicché si analizza la sostanza stessa. Si tratta, in particolare, di mostrare come l’atto venga prima della potenza e come, se v’è qualcosa in potenza, sia tale in quanto potenza di un atto. Giovanni Reale individua due gruppi di prove e il secondo gruppo è costituito come separazione del sensibile dal soprasensibile, come se l’atto appartenesse al sovrasensibile e la potenza al sensibile. Sicchè la forma equivale all’atto, la materia alla potenza. Stando così le cose, tutto quel che abbiamo detto sulla materia trapassa qui nella potenza e così per forma e atto. Il discrimine tra potenza e atto sono la morte e la nascita: l’atto non ha inizio né fine; è eterno. Dio stesso è puramente in atto. Bergson accusa Aristotele di dar troppo poco peso al movimento, quando in realtà Aristotele – nell’attaccare i Megarici – lo difende a spada tratta. E’ il movimento stesso a porre la differenza tra reale e irreale (delle cose irreali, infatti, non posso dire che siano in movimento). E poi Aristotele torna nel cap.10 sul vero e sul falso, asserendo che pensare il vero equivale a pensare le cose come realmente sono, per cui, se penso unite due cose che sono separate, penso il falso. Si tratta di un processo tutto interno alla mente, ma l’atto è un processo che avviene nell’essere e non nella mente. La metafisica stessa è episthmh thV alhqhiaV (libro II), dove la "verità" in questione non è l’ordine del mondo pensato, ma è adesione totale alla realtà e l’atto stesso si realizza interamente nella cosa. "Conosciamo le cose facendole", dice Aristotele: ciò significa che conosciamo le forme e l’atto nella materia, sicchè conosciamo i tavoli perché li produciamo. Nel libro XII compare l’argomento secondo cui il divenire sarebbe legato alla materia, cosicché la vera conoscenza non è mai quella riguardante cose materiali, benché essa non possa non partire da qualcosa di materiale (perfino il tempo e il movimento sono da noi conosciuti nella materia). Nel cap.1 del libro XII, Aristotele asserisce che non tutti ammettono le sostanze sovrasensibili, ma costoro si trovano poi costretti ad applicare la sola categoria della sostanza, che è la più ovvia di tutte. Lo Stagirita precisa che l’espressione "tu sei bianco" è vera per il fatto che tu sei effettivamente bianco: non è che sia vera per il semplice fatto che la pronuncio, giacchè le cose sono in un determinato modo e io non posso fare altro che prenderne atto. Che conosciamo producendo è vero anche per quel che riguarda gli oggetti della geometria e della matematica, dove ci avvaliamo sempre e comunque di supporti materiali. Ciò non toglie, naturalmente, che per Aristotele l’asserto eracliteo/cratileo del "tutto scorre" resti vero, sì, ma solo se riferito all’ambito materiale, ove ogni cosa è soggetta ad un incessante divenire; ma se lo riferiamo all’ambito della forma e dell’atto, tale asserto perde ogni validità. Tuttavia le forme sono conoscibili solamente nella materia e grazie ad essa, il che rende in parte conto dell’espressione aristotelica per cui "conosciamo le cose facendole". In certo senso, il grande sforzo di Aristotele consiste nel provare a pensare l’essere in quanto tale e non solo in quanto materia (giacchè si tratta di una delle tante determinazioni dell’essere), a differenza di quel che facevano quei naturalisti ionici che avevano reso conto dell’intera realtà servendosi esclusivamente della causa materiale. Le stesse Idee platoniche – a ben vedere – non sono che enti materiali intesi come se materiali non fossero (così l’idea di cavallo non è che il cavallo materiale concepito come extramateriale): ciò è stato perfettamente colto da Gilson e dal modo pregnante in cui egli qualifica questo aspetto del platonismo ("realismo delle idee"). Se Aristotele si fa promotore della pluralità dei significati dell’essere, la modernità si è invece appiattita sull’univocità, atteggiamento che ha raggiunto il vertice con la scienza moderna. Così Kant evita oculatamente di parlare dell’essere, limitandosi a parlare di "categorie", ovvero modi di pensare l’essere. Spetta invece ad Heidegger l’ambizioso tentativo – avanzato in Essere e Tempo – di riproporre la Frage (domanda) intorno all’essere, risollevando un problema che pare caduto nell’oblio dopo Platone e Aristotele. In particolare, lo Stagirita ha per la prima volta proposto in maniera chiara la pluralità dei significati dell’essere e, quando egli ci suggerisce che "l’essere si dice in molti modi", è come se ci stesse invitando a distaccarci da quella troppo banale visione dell’essere come sola materia. Questa è la grande scoperta di Aristotele, scoperta che sarà duramente combattuta da gran parte del pensiero moderno: non è un caso che detrattori di Aristotele siano Lutero, Pascal, Kierkegaard, i quali rifiutano in primis quella sua teologia al cui centro è un dio non religioso, non personale, privo di rapporti col mondo e – soprattutto – con l’uomo: il dio quale Aristotele lo concepisce finisce in fin dei conti per ridursi a sostanza posta come conferma della polisemia dell’essere (dio è la prova più fulgida che l’essere non è solo materia). Pur nella generale ostilità dell’età moderna verso Aristotele, vi sono anche pensatori che lo apprezzano e che a lui si rifanno: caso emblematico è quello di Tommaso, il quale – accanto alla teologia rivelata – ne ammette una naturale, la quale altro non è se non il pensiero che ammette l’esistenza di Dio a prescindere dalla rivelazione. Nel cap.8 del libro XII si parla di una pluralità di motori immobili: ciò ha indotto Giovanni Reale a sostenere che l’intero libro XII risalga alla maturità (e non alla giovinezza, come sosteneva Jaeger). Platone si accorge dell’impossibilità di superare il sensibile e, per parlare del sovrasensibile, inventa miti esulanti dalla razionalità; Aristotele, invece, parla razionalmente dell’essere in quanto tale nei suoi molteplici significati, tra i quali va ascritto quello di essere come forma. Sicchè nel libro XXI le quattro cause ammesse nel libro I (e nella Fisica) sono ridotte a due: atto e potenza; il primo, racchiude in sé la causa finale e quella formale; la seconda, invece, comprende la causa materiale e quella del movimento. Werner Jaeger legge il libro XII non già come conclusione della Metafisica, bensì come libro redatto da Aristotele in gioventù: ciò in base all’assunto jaegeriano – rivelante la sua formazione di marca positivista e comteana – per cui lo Stagirita si sarebbe in gioventù dedicato alla teologia, in età adulta alla metafisica e nella vecchiaia alla scienza. Diametralmente opposta è la posizione di Giovanni Reale. Ma, al di là delle questioni inerenti il periodo in cui il libro fu composto, al suo centro sta la nozione del Motore immobile, costituente l’unità del pensiero: esso è, infatti, una sola "cosa" e pensa ad una sola cosa, a se stesso. E’ uno zwn, dotato di una vita risolventesi nel pensiero: anche l’uomo può vivere in tale condizione beata, ma – a differenza di Dio, che si trova eternamente in essa – solo ad intermittenze, giacchè deve continuamente interrompere la beatitudine per soddisfare le esigenze fisiche derivatigli dal suo essere materiale. Dio è sostanza senza altre determinazioni, noi siamo sostanza più altre categorie (qualità, luogo, ecc): la sua sostanza è costituita dall’intelligenza e in lui coincidono pensiero e pensato, poiché egli non fa altro che pensare a se stesso. L’argomentazione che Aristotele dispiega per dimostrare l’esistenza di dio poggia sul fatto che il moto non ha inizio: occorre necessariamente supporre un essere che metta in moto l’universo senza a sua volta essere messo in moto: tale è appunto dio. Nel libro XII, grazie alla nozione di motore immobile, è risolta l’aporia del libro III in cui ci si chiedeva se esistessero anche sostanze immateriali; è al contempo sciolta anche l’aporia con cui Aristotele si chiedeva se le cose nascessero dagli elementi o dalle sostanze. Anassagora rispondeva dicendo che ogni cosa è originariamente mescolata fino a che un’Intelligenza non trae dall’insieme le singole cose: dal caos primordiale deriva la realtà. Per Aristotele una spiegazione di questo tipo è inaccettabile: egli non la pensa né come i fisiologi né come i poeti; per lui dio si limita a mettere in moto il mondo, che verso di lui agisce come l’amante verso l’oggetto amato. Si tratta di un dio che attira a sé il mondo come finalità, quasi come se l’intero universo cercasse di imitare dio. Il pensiero è l’unico aspetto che ci accomuna ad un tale dio, cosicché pensare è l’attività più nobile che possiamo esercitare. Questa causa prima, che non fa altro che pensare, è sommamente bella e buona, va ripetendo Aristotele, poiché la vita divina non è inficiata dal mondo materiale delle esigenze fisiche (mangiare, bere, riprodursi, ecc). Ritorna nel cap.7 l’idea (già espressa nei libri I e II) secondo cui quanto più pensiamo, tanto più ci avviciniamo a dio, a tal punto che, nei momenti in cui esercitiamo il pensiero, siamo in una condizione divina. In dio non v’è nulla di potenziale, poiché egli non deve diventare null’altro rispetto a ciò che attualmente è: pensiero di pensiero, amore di amore. Proprio come le scienze teoretiche, dio non produce nulla: in lui il desiderio di sapere è continuamente attuale, benché resti desiderio (ancorché interamente realizzato: dio sa ciò che vorrebbe sapere, ovvero sa se stesso), mentre la vita umana è in cerca di un tale sapere ed è ostacolata dalla corporeità che impedisce di dedicarsi appieno al pensiero.

 

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