Etienne-Gabriel Morelly

 

A cura di Diego Fusaro



 

 

Etienne-Gabriel Morelly, nato nel 1717 (la data della morte resta incerta), fu un importante filosofo e scrittore politico francese del XVIII secolo. Nel 1753 diede alle stampe un poema in quattordici canti ferocemente criticato per le sue idee innovative: il Naufrage aux iles flottantes ou la Basiliade (Naufragio alle isole galleggianti o la Basiliade). In quest’opera, che si inscrive nel filone del genere utopistico, Morelly descrive uno stato organizzato sul principio del comunismo, inteso come una più giusta forma di esistenza e di vita pubblica. E in effetti per tutta la vita Morelly non fece altro che declinare in modi diversi la sua idea di una società strutturata comunisticamente, intendendola come progetto da realizzarsi. In questo senso, l’istanza comunistica morellyana si fonde con quella – tipicamente illuministica – di riorganizzazione della società in base ai principi della ragione. In un’altra opera, destinata a godere di maggiore fortuna e curiosamente a lungo attribuita a Denis Diderot, il Code de la nature (Codice della natura, 1755), Morelly ripercorre il tema della società giusta e comunisticamente strutturata: egli muove dal presupposto che le leggi di natura sono buone perché sono al contempo leggi di Dio e della ragione (senza che tra i due ambiti sussista alcuna contrapposizione) e, in virtù di tale presupposto, si propone di costruire un nuovo sistema sociale che impedisca all’uomo di diventare malvagio quale invece è – secondo un tema che viene codificato nel modo più efficace, oltre che più noto, dalla riflessione di Rousseau – nella società esistente, in cui a dominare è l’egoismo, frutto dell’esistenza della proprietà privata. Nella nuova società – argomenta Morelly – deve essere abolita la proprietà privata, poiché essa è la scaturigine dell’egoismo e dell’avidità, i due principali mali che dilaniano la società esistente. Da questi due mali derivano tutti gli altri. Sicché, eliminando quelli, verranno poi anche meno tutti gli altri e si avrà un vero e proprio “paradiso in terra”; espressione che, a tutta prima, potrebbe sembrare fuorviante, se adoperata per un autore illuminista; ma che in realtà ben adombra il carattere fortemente religioso – di una religione, ben inteso, del tutto secolarizzata – che innerva il progetto morellyano (ma il discorso potrebbe, forse, essere esteso a ogni altro progetto di tipo comunista, non da ultimo a quello “scientifico” di Marx ed Engels, secondo quanto suggerito – tra gli altri – da Karl Löwith in Meaning in History). Riattivando un’utopia vecchia quanto la Repubblica di Platone (e già a sua volta riattivata, per altro, da un Tommaso Moro con Utopia o, con un timbro più marcatamente teocratico, da Tommaso Campanella con La città del sole), Morelly sostiene che nella “società giusta” nessuno dovrà possedere se non gli oggetti di uso immediato, il mantenimento dei cittadini sarà a carico della Società a cui tutti contribuiranno secondo le loro possibilità ai bisogni generali grazie a una organizzazione sistematica del lavoro. Infine, lo stato dovrà prendersi cura dei fanciulli indirizzandoli presto a un lavoro manuale: un aspetto interessante dell’utopia morellyana, che ne mette bene in luce il retroterra illuministico, è la sua avversione alla metafisica, intesa come un retaggio della superstizione del passato. In forza di questa idiosincrasia per la metafisica, Morelly si spinge a sostenere che nella società comunista i fanciulli devono essere indirizzati al lavoro manuale e tenuti a debita distanza della sirene ammalianti della metafisica. Pensatore vigoroso e originale, Morelly, per il suo pensare la società comunistica nei termini di un’utopia da realizzare o, se preferiamo, di un ideale a cui dare cittadinanza nelle pieghe del reale, può essere con diritto inteso uno degli iniziatori di quel “socialismo utopistico” tratteggiato nelle pagine del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels: anch’egli, come più tardi faranno Saint-Simon, Fourier e Owen, immagina una società giusta (e comunisticamente strutturata) da realizzare. Certo, il suo – proprio perché le sue radici affondano nell’immaginazione e non nel “movimento reale della storia”, per utilizzare un’altra espressione marx-engelsiana – resta un utopismo astratto, incapace di fare presa sulla realtà. Ma il fatto stesso che egli vagheggi con tanta forza una società “altra” già racchiude in sé – proprio come sarà per Saint-Simon, Fourier e Owen – fortissimi elementi di critica sociale indirizzati contro la reale società del suo tempo. In altri termini – e qui sta sicuramente il merito dell’opera di Morelly –, se anche il suo progetto resta utopico e irrealizzabile, la sua denuncia delle ingiustizie della società reale, sospesa tra egoismo e avidità, resta di una potenza (e di un’attualità) straordinaria. Non è certo un caso che il movimento egualitario di François Noel Babeuf si richiamerà esplicitamente alla sua opera.

 



INDIETRO