MUSONIO RUFO

 

A cura di Marco Machiorletti

 

 

 

 

 

 

Musonio Rufo nacque a Volsini intorno al 30 d.C. Costretto all’esilio in più occasioni, morì verso la fine del primo secolo d.C. Le lezioni di Musonio, Le diatribe, furono raccolte dal suo discepolo Lucio. Il suo pensiero fu caratterizzato innanzitutto da una forte riduzione dell’aspetto teoretico della filosofia in favore del suo aspetto pratico.

 

“Chiunque abbia sempre bisogno di una dimostrazione, anche nel caso in cui la questione sia chiara, oppure voglia che gli si dimostri con molti passaggi quello che gli si potrebbe dimostrare con pochi, è in tutto e per tutto stolto e ottuso”

(Diatribe, I, ed. Bompiani, pp. 41 sgg.)

 

È ravvisabile una sensibile distanza dallo Stoicismo di Crisippo, che alla logica assegnava un grandissimo spazio; questo, tuttavia, non deve farci pensare che disprezzasse la logica, anzi, la riteneva necessaria ed era severissimo con i discepoli che commettevano errori in tale disciplina. Egli riteneva che la logica dovesse essere ridotta al minimo indispensabile, e assegnava alla pratica il primato sulla teoria.

 

“Come potrebbe essere molto più importante sapere la teoria in ogni questione, piuttosto che abituarsi ad agire secondo la guida della teoria? Infatti l’abitudine conduce alla capacità di agire, mentre la conoscenza della teoria porta alla capacità di discorrere. È senz’altro vero che la teoria collabora con la pratica, insegnando come si debba agire e cronologicamente essa precede l’abitudine, poiché non è possibile acquistare un’abitudine positiva se non secondo la teoria; ma per importanza la pratica viene prima della teoria, dal momento che essa è capace, più della teoria, di guidare l’uomo all’azione”.

(Diatribe, V, ed. Bompiani, pp. 81 sgg.)

 

In coerenza con questa convinzione, affermò la necessità dell’esercizio (askesis). La virtù, che costituisce il fine stesso di ogni uomo e ogni donna, è impossibile senza l’«esercizio». In altri termini, la virtù è come l’arte della medicina e della musica. Essa non è fatta di sola teoria, bensì postula la pratica, e chi vuole essere virtuoso non deve accontentarsi di  «apprendere» quegli insegnamenti che conducono alla virtù, ma deve diligentemente «esercitarsi» secondo tali insegnamenti. Questo «esercizio», che è proprio del filosofo e che conduce alla virtù, è il più complesso e il più difficile che esista. Poiché l’uomo è costituito di corpo e di anima, e il corpo serve da strumento, vi sarà un duplice ordine di esercizi: uno che riguarda anima e corpo insieme e uno che riguarda l’anima sola. Secondo il nostro filosofo bisogna abituare il corpo alla fame, alla sete, alla rinuncia dei piaceri e alla sopportazione delle fatiche. Questo per esercitare anima e corpo insieme. L’esercizio proprio dell’anima invece consiste nel dimostrare quali siano i veri beni e i veri mali e saper seguire i primi ed evitare i secondi.

Le cose «che appaiono buone» ma che in realtà non lo sono, per Musonio come già per l’antica Stoa, sono il «piacere», la «ricchezza», la stessa «vita» e, in genere, ogni cosa che non partecipi alla virtù, mentre le cose «che appaiono cattive» ma che in realtà non lo sono, sono la «fatica», la «povertà», l’«esilio», la «vecchiaia» e la «morte» stessa. In particolare, Musonio esaltò l’alto valore morale della «fatica», che è strettamente connessa all’«esercizio», e giunse ad affermare che colui il quale non vuole faticare «si dichiara da sé indegno di qualsiasi bene»

Ecco le sue parole:

 

“Mi è possibile affermare che, chi non vuole faticare, subito si autocondanna a non essere degno di alcun bene, poiché i beni noi li acquistiamo tutti con fatica”

(Diatribe, VII, ed. Bompiani, p. 101)

 

Per quanto concerne, poi, l’esilio, Musonio rilevò come esso, in realtà, non potesse privare l’uomo della sua patria, dato che il cosmo intero è la vera patria dell’uomo, facendo valere un cosmopolitismo radicale:

 

“La patria comune a tutti gli uomini non è forse il mondo, come riteneva Socrate? Cosicché, non si deve pensare di essere esiliati veramente dalla patria, se ci si allontana dal luogo in cui si è nati e cresciuti, ma soltanto di ritrovarsi privi di una certa città, specialmente se ci si reputa una persona ragionevole. Chi, infatti, è tale, non onora né disprezza una terra come fosse causa di felicità, ma pone tutto quanto in se stesso e si considera cittadino della città di Zeus, che consiste, insieme, di uomini e di dèi”.

(Diatribe, IX, ed. Bompiani, p.123)

 

Musonio sosteneva che il mezzo più conveniente al filosofo per guadagnarsi da vivere fosse l’agricoltura, la quale costringe a un tipo di vita naturale, favorisce in tutti i sensi la pratica dell’esercizio e della fatica, e permette di non aver bisogno di altri per soddisfare le proprie necessità. Il pensiero del nostro filosofo ebbe un forte respiro sociale, che desunse dall’ethos della romanità, e che lo portò a concepire il matrimonio «come cosa grande e degna del più alto rispetto» e come base della società stessa.

 

“La cosa più importante in un matrimonio è la comunanza di vita e la generazione dei figli. Infatti lo sposo e la sposa devono unirsi l’uno all’altra, generare insieme e considerare tutto in comune, nulla come proprio, neppure il corpo stesso. E grande evento è la generazione di un essere umano che questo giogo procura. Ma per lo sposo non basta questo soltanto, che invero potrebbe risultare anche al di fuori del matrimonio, da altre unioni, come anche gli animali si uniscono tra loro. Bisogna invece che nel matrimonio abbia luogo una completa comunanza di vita e una reciproca sollecitudine dell’uomo e della donna, sia nella salute, sia nella malattia, sia in qualsiasi circostanza. […] Quando dunque tale sollecitudine è completa, e gli sposi che convivono se la donano compiutamente in modo reciproco, facendo a gara per vincersi l’un l’altro, questo matrimonio funziona come si deve ed è degno di emulazione, perché simile unione è bella”.

(Diatribe, XIII A, ed. Bompiani, pp. 173 sgg.)

 

Nel pensiero di Musonio ricorrono inoltre precetti che hanno riscontri nel Vangelo, ancorché giustificati con motivazioni differenti, in particolare il precetto dell’amore e del perdono. Interrogato sulla questione se il filosofo dovesse sporgere querela in caso di oltraggio, Musonio rispose negando che ciò fosse lecito e giustificando la sua asserzione non solo facendo richiamo al cinico disprezzo che il filosofo deve avere per le percosse e per il biasimo, ma anche alla fecondità e alla positività del perdono verso chi ci ha offesi. 



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