Aristotele

Etica Nicomachea

 

 

di Matteo Areni

 

 

L’Etica Nicomachea può essere considerata l’opera etica più importante di Aristotele. Essendo un’opera esoterica, ossia destinata alla scuola, essa è strutturata come un calco delle lezioni tenute dal filosofo e i temi trattati si susseguono nello stesso modo in cui Aristotele era abituato ad esporli agli scolari. Proprio perché si tratta di un tracciato delle lezioni, possiamo notare che l’Etica Nicomachea è sostanzialmente identica nei contenuti all’Etica Eudemia; quest’ultima possiede infatti la stessa struttura e tratta gli stessi temi, ma manca dei cosiddetti “libri comuni”(V-VI-VII), che essendo appunto comuni sono stati esclusi. Nonostante quest’affinità e nonostante che molto spesso l’Etica Eudemia offre preziose riformulazioni delle dottrine aristoteliche, possiamo considerare di gran lunga più importante l’Etica Nicomachea, essendo infatti lo scritto più letta e più influente del filosofo, più della Metafisica e dei testi di logica. La sua grandissima influenza è dovuta al fatto che la filosofia cristiana, elaborata da Tommaso d’Aquino, si attesta sostanzialmente sulle dottrine aristoteliche. Ora, se la metafisica di Aristotele, non essendo naturalmente creazionistica, esigeva di essere modificata e riadattata al pensiero cristiano, sostanzialmente l’etica aristotelica, basata sulla nozione di τέλος, non necessitava alcuna modifica, salvo la precisazione che il fine ultimo è Dio.

 

L’influenza del De Anima: La ricerca dell’unità e la nozione di τέλος

 

L’Etica Nicomachea fu scritta in più di dieci anni (335-322) ed è sostanzialmente coeva al De Anima; per questo motivo appare necessario considerare le tematiche etiche e quelle antropologiche come sostanzialmente relate. In particolare, notiamo in entrambe le opere che il desiderio che anima la speculazione di Aristotele è quello di dare una visione complessiva del reale che non contempli fratture e discontinuità. Nel De Anima ad esempio, il filosofo puntualizza che l’anima, pur essendo composta di tre parti (vegetativa, sensitiva e razionale), è una e una sola: l’anima è un’unità assolutamente inscindibile, solo considerabile nello studio come diversificata nelle funzioni, ma unità nell’attività, oltre che unitaria nella sostanzialità.Nell’uomo, infatti, la parte razionale dell’anima non si sovrappone alle altre due ma include le funzioni di queste. Nell’Etica Nicomachea allo stesso modo appare chiaro che Aristotele vuole costruire una teoria dell’azione che tenga insieme tutte le tradizioni in nome di un’unità dell’esperienza morale e questa teoria dell’azione deve essere legata agli studi antropologici, metafisici e così via.

 

All’interno di questa concezione unitaria del reale appare chiaro che la nozione di τέλος, sulla quale è basata l’etica aristotelica, tiene insieme l’elemento ontologico (tutta la realtà è ordinata a un fine), l’elemento antropologico (l’uomo ha un fine) e il piano pratico (ogni azione si compie in vista di un fine). Alla luce di questo ragionamento, l’azione buona per l’uomo sarà quell’azione che conduce alla realizzazione del fine proprio dell’uomo, il quale fine è un certo modo di vita che si inserisce nella catena dei fini di tutto ciò che esiste. Questo ragionamento rappresenta sostanzialmente la concezione ideale che ha in mente Aristotele, sulla quale il filosofo erigerà tutta la sua opera.

 

 

 

 

 

 

 

I libro

 

Etica Nicomachea, 1094a: «Comunemente si ammette che ogni arte esercitata con metodo, e, parimenti, ogni azione compiuta in base a una scelta, mirino ad un bene: perciò a ragione si è affermato che il bene è “ciò a cui ogni cosa tende».

 

Nelle prime frasi del testo, c’è in pratica, tutta la teoria dell’azione e del bene di Aristotele; passiamo ad indagarne i punti salienti analizzando alcune delle frasi.

 

Δοξεΐ

 

Aristotele ci fornisce già dalla prima riga un’importante informazione riguarda al suo metodo di ricerca in campo etico; infatti inizia la sua opera scrivendo “comunemente si ammette” (δοξεΐ). Come sappiamo la parola δοξεΐderiva da δόξα (opinione), termine solitamente utilizzato, ad esempio in Platone, con un’accezione negativa, giacché indica quella conoscenza solo probabile e sotto un certo aspetto falsa, non epistemica. Aristotele al contrario considera l’opinione comune, o almeno quella degli άριστοι, come punto di partenza della sua ricerca etica. Aristotele argomenta ciò dicendo che i dati di partenza dell’etica, ossia le concezioni intorno a problemi come “ciò che deve essere fatto” o “quale sia la vita virtuosa”, non sono oggetto di una conoscenza dello stesso grado della conoscenza degli enti matematici e metafisici, la cui verità degli enunciati può essere apodittica, legata alla logica. Per il giusto e il bene dobbiamo infatti partire da opinioni, ma tali opinioni dovranno essere salde e condivise dai più, o almeno dai migliori. In etica dunque, non bisogna ricercare nelle premesse più verità di quanta ce né può essere, e poiché qui la verità delle premesse è solo probabile non avremo conclusioni più certe delle premesse.Sotto questo punto di vista Aristotele è molto lontano dalla fondazione di qualsiasi etica geometrica, tanto che afferma chiaramente che nel campo dell’agire non si arriverà mai a verità assolute dimostrate matematicamente.

 

Etica Nicomachea, 1094 a20: «Bisogna contentarsi, quando si parla di tali argomenti con tali premesse, di mostrare la verità in maniera grossolana e approssimativa, e, quando si parla di cose solo per lo più costanti e si parte da premesse dello stesso genere, di trarne conclusioni dello stesso tipo».

 

Questa concezione attribuisce naturalmente all’etica un certo grado di vaghezza, cosa molto positiva perché sarebbe assurdo pensare di poter congelare l’infinita capacità di agire dell’uomo e ridurla a degli aridi comportamenti matematicamente dedotti. È importante tuttavia considerare che Aristotele, pur ammettendo un certo grado di vaghezza nella sua etica, è chiaro nel suo categorico rifiuto del relativismo. Non è vero che in etica, non potendo fare nessun discorso vero apoditticamente, un’opinione morale vale l’altra; noi abbiamo delle opinioni morali che funzionano e moltissime cose che facciamo possono essere regolate in conformità a queste opinioni. Le opinioni inoltre possono essere rese salde attraverso un percorso di fondazione che si appoggia anche alla metafisica e soprattutto all’antropologia; dell’anima, ad esempio, sappiamo moltissime cose che possono aiutarci a giudicare le opinioni morali. L’ultima precisazione che richiede l’argomento appena trattato consiste nel notare che l’etica non è dedotta a partire dalla metafisica e dall’antropologia; Aristotele nell’analisi etica parte dalla πραξις e il contenuto dell’etica è appunto la πραξις, ossia il livello del probabile e del valido “per lo più”.

 

 

 

I concetti fondamentali di bene e di fine

 

Aristotele nell’incipit del primo libro I afferma che l’ambito dell’agire comprende sia le arti poietiche, ossia le tecniche/arti, sia la prassi intesa nel senso stretto del termine, ossia come azione. I due campi si differenziano perché la τέχνη ha come fine la produzione di un oggetto mentre la prassi è un atto il cui fine è interno all’atto stesso, ossia al soggetto. Ora, poiché arti e azioni esauriscono l’ambito dell’agire e poiché ogni arte che viene esercitata con il proprio metodo e ogni azione che viene compiuta in base ad una scelta mirano ad un bene, si può concludere che “il bene è ciò a cui ogni cosa tende”.In questo senso si può dire che bene e fine coincidono.

 

Aristotele, pur non avendoci ancora detto niente di nuovo, poiché la proposizione secondo la quale “non c’è azione senza un fine” è una verità analitica, ci ha già offerto i concetti base intorno ai quali deve svolgersi una teorie etica; in particolare bisognerà risolvere i problemi inerenti alla scelta delle azioni e dei metodi, a quali fini siano beni, se esiste un vero bene ecc.Inoltre l’analisi dell’azione porterà sicuramente anche a un’analisi dell’agente, ossia a una analisi antropologica sull’uomo.Aristotele parte nelle sue riflessioni dal bene e ci dice che, in effetti, non c’è un solo bene ma, così come i fini sono molti, anche i beni saranno molti. Questa concezione pluralistica del bene, visto come un concetto molteplice, è assolutamente antitetica rispetto a quella platonica che vede il bene come una sostanza, addirittura separata.

 

Il bene supremo è oggetto della politica

 

Una volta compreso che i beni e i fini sono molti, bisogna ordinarli in una concatenazione di fini. Infatti, molti beni, detti intermedi o strumentali, sono desiderati solo in vista di beni superiori, ad esempio la ricchezza e la salute non si desiderano in sé ma si desiderano per i piaceri e i vantaggi che possono portare.Ma ci deve essere un bene che non è desiderato come condizione o fine di un bene superiore ma che è desiderato in se stesso; tale sarà il bene sommo, ciò a cui tutto tende. Allo stesso modo le attività che perseguono un bene in vista di beni superiori dovranno essere tutte subordinate alla scienza che persegue il bene sommo.

 

Etica Nicomachea 1094 a18:«Orbene, se vi è un fine delle azioni da noi compiute che vogliamo per se stesso, mentre vogliamo tutti gli altri in funzione di quello, e se noi non scegliamo ogni cosa in vista di un’altra (così infatti si procederebbe all’infinito, cosicché la nostra tensione resterebbe priva di contenuto e di utilità) è evidente che questo fine deve essere il bene, anzi il bene supremo».

 

 A questo punto bisognerà determinare cosa sia questo bene sommo e di quale scienza sia oggetto. Tale scienza è sicuramente la politica. Infatti, anche se tutte le scienze mirano al bene, la politica è quella scienza che mira al bene nel senso più ampio del termine, ossia al bene della collettività. Aristotele non riesce a pensare gli individui come isole a sé stanti perché l’azione si compie nella società ed è relazione; il bene individuale è riassunto nel bene più ampio della comunità.

 

Etica Nicomachea 1094 a25:«Se è così, bisognerà cercare di determinare, almeno in abbozzo, che cosa mai esso sia e di quale delle scienze o delle capacità sia l’oggetto. Si ammetterà che appartiene alla scienza più importante, cioè a quella che è architettonicamente in massimo grado. Tale è manifestatamente la politica (…) Infatti, se anche il bene è il medesimo per il singolo e per la città, è manifestatamente qualcosa di più grande e di più perfetto perseguire e salvaguardare quello della città: infatti, ci si può, si, contentare anche del bene di un individuo singolo, ma è più bello e più divino il bene di un popolo, cioè di intere città».

 

Da questo ragionamento sembra che Aristotele intenda subordinare l’etica alla politica poiché il bene del singolo è ricompreso in un bene più ampio che è quello della città. In realtà Aristotele ha ben chiaro che il bene della comunità, in ultima analisi, dipende dal vizio o dalla virtù dei singoli cittadini e quindi la vera modificazione da attuare sta al livello dei costumi individuali. Infatti, una buona legislazione rimane subordinata ai fini dell’etica in quanto ricerca le strutture e le norme che possano garantire il bene individuale.

 

Etica Nicomachea, libro X: «A sua volta, una corretta legislazione deve fondarsi sulla dottrina dello Stato, cioè sulla scienza politica in senso stretto, che, in tal modo, resta subordinata ai fini dell’etica, per la cui realizzazione essa studia le costituzioni, le strutture sociali e le norme legali più adatte».

 

Per rafforzare questa interpretazione è illuminante riportare una citazione di Gauthier intorno a quest’argomento.

 

R.A. Gauthier: «L’oggetto della morale è il bene supremo dell’individuo; ma, benché, essa, a rigore, possa contentarsi di assicurare questo bene a un solo individuo, la morale preferirà evidentemente assicurarlo a tutti gli individui. Ora, la città non ha altro fine che il bene dell’individuo, o più esattamente, ma ciò non fa alcuna differenza, la somma dei beni individuali. Dunque la morale, per il fatto stesso che determina il bene dell’individuo, è la politica nel senso forte della parola, la politica architettonica che detta alla città il suo fine; in altri termini, la vera politica è la morale».

 

A questo punto Aristotele, secondo il canone di definizione di una scienza, ci ha fornito l’oggetto e il metodo della ricerca. Per ricapitolare, in questo caso, l’oggetto della politica e dell’etica è il bene, o meglio l’azione rivolta al bene, etali scienze se ne occupano secondo i principi metodologici suggeriti dall’oggetto; giacché l’oggetto è la prassi, che è una cosa contingente, non è un ente metafisico dotato di una necessità assoluta, ma è l’azione umana, la scienza politica avrà un metodo ragionato ma secondo il grado di certezza della probabilità (il “valido per lo più”). A questo punto, stabiliti l’oggetto e il metodo della ricerca, il filosofo può passare ad analizzare cosa sia effettivamente il bene e, più nello specifico, il bene sommo.

 

Il bene per noi

 

Aristotele, seguendo la linea della Δοξεΐ, afferma che nell’analisi del bene bisogna partire da “ciò che è noto a noi”. Infatti, noi non ci interroghiamo su cosa sia il bene in sé, ma su cosa sia il bene per noi, cioè indagheremo intorno a ciò che ci appare buono. Ma ciò che ci appare buono è in sé intrinsecamente buono? Naturalmente questa domanda sul bene in sé è fondamentale e necessaria, Aristotele intende solo dirci che in questo tipo di analisi non deve essere questo il punto di partenza; a noi non interessa il bene in sé ma il bene pratico, il bene come fine dell’azione.

 

 

 

 

 

 

Il bene sommo è la felicità

 

Al bene sommo, inteso come nome di ciò che si persegue non in vista di altro ma per se stesso, noi comunemente diamo il nome di felicità (ευδαιμονία). Tuttavia la felicità è una condizione che si realizza diversamente in diversi soggetti e in diverse circostanze; non occorre dunque indagare cosa sia la felicità in sé ma cosa ci rende felici. Per tentare di risolvere questa domanda per Aristotele sembra essere utile capire qual è la funzione propria dell’uomo. Infatti, se riusciamo a dimostrare che c’è un’azione propria dell’uomo, quando l’uomo raggiunge il fine di quell’azione egli sarà felice. La felicità è dunque una condizione in cui l’uomo si trova quando fa quello che gli è proprio; bisogna ora comprendere cosa è proprio dell’uomo, quale sia il suo έργον specifico. Aristotele lo individua procedendo per esclusione rispetto a ciò che è comune anche ad altre forme di vita. Ricordando la divisione dell’anima in parte vegetativa, sensibile e razionale, Aristotele argomenta che le prime due sono rispettivamente proprie oltre che dell’uomo anche delle piante e degli animali, dunque la funzione propria dell’uomo andrà ricercata nell’attività razionale dell’anima. L’uomo sarà dunque felice quando vivrà secondo ragione. Tuttavia Aristotele ha la profondissima consapevolezza che non si riesce a essere felici se non si posseggono un certo numero di beni esteriori, che sono oggettivi e non dipendono da noi. Per capire questo importantissimo punto è fondamentale ricordare che nella mentalità di Aristotele, e più in generale in quella di tutta la grecità, la felicità non consiste soltanto nel vivere secondo ragione ma anche nel trovarsi in una condizione in cui la persona è sana, e quindi in grado di dispiegare tutta la sua capacità di essere quello che è e di fare quello che gli è proprio. In quest’ottica non si possono realizzare tutte le proprie potenzialità, dispiegare e compiere il proprio fine, se non c'è capitata una serie di rapporti umani buoni, se ci troviamo in una condizione di schiavitù o di povertà ecc. Si noti in queste considerazioni tutto il realismo della concezione aristotelica di bene e felicità. Alla domanda “può essere felice uno schiavo/povero/indigente?” Aristotele risponderebbe categoricamente no. Non è che la ricchezza sia importante ma l’estrema povertà impedisce il completo dispiegarsi delle possibilità dell’individuo; l’indigenza spesso costringe a essere ingiusto, a rubare; questa naturalmente non è una colpa ma non può neanche essere considerato bene e tanto meno felicità. Fortunatamente c’è un aspetto per cui le condizioni esteriori non sono tutto; molto dipende da noi e il nostro modo di stare nelle condizioni decide per gran parte della nostra felicità. Per fare un esempio, un uomo ricco non può essere felice in quanto ricco, anche ad esso viene richiesta la virtù, ossia la possibilità di considerarsi autore e legittimo proprietario delle condizioni in cui si trova. Il contributo personale è l’elemento decisivo che determina la felicità. Questo discorso è emblematico per comprendere ancora meglio il desiderio di sintesi e di ricerca dell’unità che anima Aristotele: se filosofie come lo Stoicismo affermano che tutto ciò che conta davvero dipende da noi e filosofie come l’edonismo affermano che tutto ciò che conta sono i piaceri esteriori, l’etica aristotelica offre un grandioso esempio di sintesi in cui entrambe le posizioni sono compresenti. A questo punto è facile comprendere il motivo per cui Aristotele parla della felicità in termini di “viver bene” e “riuscire”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I tre tipi di vita

 

Secondo Aristotele gli uomini ricavano dal loro modo di vita la loro concezione di bene e di felicità; è dunque necessario indagare quali siano i vari tipi di vita. Aristotele né individua tre: la vita dedita ai piaceri, la vita dedita agli onori e la vita contemplativa. Quella dedita ai piaceri non può sicuramente portare alla felicità perché, come è noto, i piaceri ci rendono schiavi. Quella dedita agli onori ci porta invece a ricercare cariche e onorificenze, inchiodandoci quindi al giudizio della massa. Sembra che Aristotele associ a questo tipo di vita negativo anche la politica; in realtà il filosofo precisa che gli uomini cercano di essere riconosciuti e onorati per le proprie virtù, dunque il fine della vita politica è la virtù piuttosto che l’onore. Difatti si vedrà che la vita politica, intesa dunque come vita secondo virtù, sarà un elemento essenziale della felicità. L’ultimo modello di vita è quella contemplativa, unica vita che dipende solamente da noi e non ci vincola a condizioni esterne. Quest’ultima è la forma più alta della vita propria dell’uomo, tuttavia non è una condizione in cui si possa permanere naturalmente e costantemente; essa deve essere mantenuta nella possibilità da tutto l’insieme di cose che sono appropriate all’uomo. Innanzitutto la vita contemplativa non può escludere il soddisfacimento dei bisogni primari; la contemplazione, infatti, presuppone il nutrirsi, il dissetarsi, l’avere una vita sociale e delle relazioni ecc.La vita secondo ragione non è dunque una vita senza corpo; questo sarebbe uno svilimento della vita umana e impedirebbe il completo dispiegarsi delle possibilità individuali. La vita contemplativa deve anche tener conto delle condizioni esterne: non si può essere contemplativi se intorno c’è morte, guerra e sofferenza; questo comportamento sarebbe immorale. Le filosofie religiose potrebbero rispondere che la preghiera e la contemplazione valgono quanto spendersi sul fronte ma per la mentalità di Aristotele questa strada è completamente preclusa. È proprio a questo punto che ritorna prepotentemente il tema della vita politica: si è degni della felicità se si vive la vita secondo ragione in tutte le sue forme (vita commerciale, sociale, familiare), in particolare la politica, che garantisce il bene della comunità e dei singoli contenuti in essa, è indispensabile. È assurdo per Aristotele pensare che qualcuno viva una vita completamente contemplativa; l’attività politica, nel senso della vita sociale vissuta secondo ragione, è il bene da perseguire.

 

II libro

 

Virtù etiche e dianoetiche

 

Il secondo libro dell’Etica Nicomachea si occupa delle virtù e in particolare del modo in cui gli uomini possono diventare virtuosi. Le virtù si dividono sostanzialmente in etiche e dianoetiche: le prime consistono nell’esercizio stesso della ragione e richiedono insegnamento mentre le seconde consistono nel dominio della ragione sugli impulsi sensibili e richiedono perciò esercizio. È chiaro che questo binomio nasce sicuramente da una distinzione antropologica di base: poiché nell’uomo, oltre alla parte razionale dell’anima vi è anche la parte appetitiva, la quale, pur essendo priva di ragione, può essere regolata e diretta dalla ragione, allo stesso modo vi saranno virtù che appartengono alla ragione propriamente detta e virtù che devono essere raggiunte mediante la regolazione della parte appetitiva.Le virtù sostanzialmente sono un dispiegamento particolarmente efficace di ciò che tutti sappiamo fare; sotto questo aspetto la virtù è differenziale: bisogna agire nel modo specifico che è proprio dell’uomo; chi fa questo meglio degli altri è virtuoso. La virtù più alta è la φρόνησις (saggezza), virtù dianoetica che si basa sulla capacità di saper deliberare bene. Proprio per questa caratteristica la φρόνησις è come un ponte tra intelletto e azione, poiché ci permette di vagliare e confrontare le ragioni a favore di uno o l’altro desiderio in vista dell’azione. La capacità di fare questo bene (nel modo migliore), di desiderare la cosa giusta nel modo giusto e al momento giusto, è la saggezza. Le virtù etiche sono invece quelle abilità che, regolate dalla saggezza, fanno dell’uomo un uomo virtuoso. Detto in altri termini le virtù sono modalità del desiderare che sono regolate secondo una buona deliberazione.

 

La metafora dell’arciere: medietà e costanza

 

Aristotele riesce a descrivere in modo preciso le virtù etiche ricorrendo a una delle metafore più felici dell’intera storia della filosofia. Secondo il filosofo la virtù etica è come quella capacità che ha il buon arciere di mirare al bersaglio e caricare la freccia esattamente della quantità di forza necessaria, non di più e non di meno. Le virtù etiche consistono dunque nella modulazione dei desideri dell’uomo, i quali, se lasciati sfogare liberamente senza controllo, sono negativi. Si noti beni che questa medietà non è una mediocrità ma è un’eccellenza: il coraggio non è una cosa mediocre tra il gesto eroico e disperato che conduce alla sconfitta e il gesto vile della fuga; il coraggio è il giusto mezzo, ossia quella proporzione che è la più vicina al successo e proporzionata alle capacità dell’uomo. Allo stesso modo il non desiderare troppo non è una mediocrità ma rappresenta il massimo dispiegamento delle forze dell’individuo conforme a quella determinata circostanza.Proseguendo con la metafora, noi non consideriamo un buon arciere chi colpisce il bersaglio una volta, per caso; noi consideriamo un buon arciere l’uomo che ha una certa continuità nel colpire il bersaglio.L’uomo virtuoso è, infatti, colui che agisce in modo virtuoso con costanza, come se fosse una disposizione abituale. Una volta che l’arciere ha imparato il movimento giusto da compiere non ci sta più a pensare, o meglio, ci riflette, ma è un perfezionamento di qualcosa che ormai gli è entrato nella pelle, è insito nella sua natura. In definitiva possiamo dire che le virtù etiche sono quelle della parte irrazionale dell’anima; l’etica ha a che fare con la modulazione del desiderio e delle inclinazioni, che sono appunto proporzionate grazie alla saggezza.

 

Come si diventa virtuosi: l’importanza dell’educazione (παιδεία)

 

Una volta stabilito cosa sono le virtù, Aristotele passa a domandarsi in che modo l’uomo possa diventare virtuoso. Il filosofo imposta la ricerca sostanzialmente su una questione di priorità, cioè si domanda se l’uomo agendo bene diventa virtuoso o se l’uomo essendo virtuoso può agire bene. La domanda aristotelica potrebbe dunque essere impostata in questo modo:” Viene prima l’azione buona, grazie alla quale io divento buono, perché ripetendo le azioni buone mi abituo a farle, dunque la virtù è l’abitudine ad agire bene; oppure io posso agire bene se e solo se sono virtuoso? E se è così, come posso agire bene se virtuoso non nasco?”. La risposta che Aristotele dà a questi quesiti è chiarissima: è evidente che noi non siamo virtuosi dalla nascita ma abbiamo la predisposizione ad agire in modo tale che la nostra capacità di fare il bene diventi abitudinaria (ricordiamo che un uomo è virtuoso solo quando agisce virtuosamente con costanza e abitudine). Questa capacità, che abbiamo in potenza dalla nascita, viene tradotta in atto grazie all’educazione, che infatti, nella mentalità greca, riveste un ruolo fondamentale. La παιδεία, sostanzialmente, ci fa agire secondo quello che è buono in base all’indicazione di un maestro, ma al tempo stesso ci impara a riconoscere le azioni buone. Si noti bene che noi non giudichiamo certe azioni buone in base ad un comando che ci viene imposto da altri ma le giudichiamo buone perché le riconosciamo come tali, ossia vediamo che corrispondono alla nostra esigenza di bene. Aristotele non pensa all’educazione come aun tentativo di plasmare l’allievo e di imporgli un’attività ripetuta semplicemente per mera obbedienza; obbedire è giusto nelle prime fasi della crescita ma poi sta all’alunno discernere ciò che è giusto fare. Certo esiste un modello da tenere presente come riferimento, che Aristotele identifica nell’uomo saggio, ossia l’uomo le cui potenzialità sono pienamente dispiegate, controllate e continue temporalmente fino alla morte, ma alla fine le circostanze in cui ti trovi potrebbero richiedere un comportamento diverso, e sta dunque all’uomo singolo il compito di discernere quale sia effettivamente l’azione giusta da compiere in quel frangente. In definitiva si può dire che l’educazione mira a far nascere nell’allievo la capacità di discernere il bene dal male. 

 

Le condizioni per essere virtuosi

 

Come abbiamo detto la virtù è la capacità di compiere le azioni migliori in relazione a piaceri e dolori. Ma quali sono le condizioni per comprendere quale è l’azione giusta da compiere? Innanzitutto abbiamo detto che esistono dei modelli di riferimento (φρόυιμος) che poi devono essere adattati alle diverse situazioni e circostanze in cui ci troviamo. Oltre a questo criterio operativo, Aristotele ci dice che esiste anche un criterio pratico, ossia un principio, che descritto in termini kantiani potrebbe suonare in questo modo: “ agisci sempre in modo che la tua azione rappresenti il giusto mezzo fra due vizi opposti”. La virtù è dunque una disposizione a scegliere bene in conformità a questo principio, che è la μεσότης (il giusto mezzo). Questo principio, dice Aristotele, è un principio formale, ossia privo di contenuto: esso non mi dice niente; acquista senso solo se viene calato in determinate circostanze. Il principio del giusto mezzo non mi dice cosa fare ma mi dice quale è la giusta proporzione da osservare per scegliere l’azione. Infine esiste anche un criterio che potremo definire metodologico: la recta ratio (ρθς λόγος). La retta ragione è definita da Aristotele come la capacità di determinare l’azione giusta che realizza un desiderio retto. Per comprendere quest’affermazione bisogna soffermarci sulla nozione di desiderio; quest’ultimo viene definito retto se è naturale, ossia se si rivolge agli oggetti che lo soddisfano in modo sano. L’errato rapporto del desiderio con l’oggetto, se s’instaura con abitudine, perverte il desiderio e si cade dunque nella dipendenza. Per fare un esempio accessibile, se il desiderio di mangiare i dolci, che in sé è buono, viene sfogato in maniera sbagliata, per esempio mangiando continuamente dolci senza freno, il desiderio si perverte e, persistendo con questa abitudine, si raggiunge la dipendenza. Si noti bene che la retta ragione non ci dice che un determinato desiderio è male; essa ci dice solo che il modo in cui è regolato è sbagliato, lo rovina e rende la nostra vita infelice. In quest’analisi Aristotele ha dunque trovato un modello operativo, un criterio pratico e un criterio metodologico; a questo punto il filosofo, grazie alla sua grandiosa capacità di sintesi, riesce a dare una definizione della virtù estremamente minuziosa e densa di concetti chiave.

 

Etica Nicomachea, II, 1106b, 35: «La virtù, dunque, è una disposizione (ξις) concernente la scelta (προαίρεσις), consistente in una medietà (μεσότης) in rapporto a noi, determinata in base ad un criterio (λόγ), e precisamente al criterio in base al quale la determinerebbe l’uomo saggio (φρόυιμος)».

 

Focalizzandoci su questa definizione capitale si possono estrapolare anche altri concetti importanti. Innanzitutto la parola ξις, tradotta con disposizione, è di fondamentale importanza perché trasmette l’idea non di una mera ripetizione inconsapevole di un atto ma appunto di una disposizione, estremamente consapevole, ad un certo comportamento. Nella traduzione latina “habitus”, il senso originale del termine già andava sfumandosi mentre notiamo subito che nella parola italiana abitudine il senso originale si è perso completamente.

 

Proseguendo nell’analisi, è importante soffermarci sul fatto che Aristotele reso evidente che la medietà è “in rapporto a noi”. In questa frase si nota una grande sensibilità all’individualità che le etiche del dovere, ad esempio quella kantiana, non concedono in nessun modo. Ad esempio in una guerra, noi ci aspettiamo un comportamento diverso dal soldato di professione che vive per le armi e il semplice cittadino che è chiamato a combattere in una situazione di estrema difficoltà: può capire che il cittadino sia vile e fugga ma questo comportamento non possiamo concederlo al soldato professionista. Fuor di metafora, la scelta dell’azione per Aristotele dipende molto dal nostro essere, dalla nostra storia, dalla nostra forza ecc.; il punto è che bisogna scegliere l’azione che permette il massimo dispiegamento della nostra forza in base alle nostre possibilità e alle nostre capacità. Naturalmente le nostre possibilità non dipendono da noi, sono oggettive; ritornando alla metafora precedente, non decido io quale sia il grado di coraggio cui sono adeguato, io sono semplicemente fatto così.

 

Le azioni non virtuose

 

Aristotele nel corso di tutta la sua analisi non redige mai un decalogo di azioni vietate o consigliate, tuttavia a questo punto egli afferma che la malevolenza, l’invidia e l’impudenza fra le passioni e l’adulterio, il furto e l’omicidio fra le azioni, sono le uniche che non possono essere intrinsecamente praticate come virtù perché sono malvage per natura e come tali non hanno una medietà. Tuttavia queste azioni, se compiute, non cancellano in un attimo l’intera virtù della persona: esistono cose come il pentimento, il perdono e il riscatto morale. Infatti, non bisogna assolutamente pensare che Aristotele consideri gli uomini saggi come perfetti, anch’essi sbagliano perché errare è proprio dell’uomo. Una vita virtuosa non è solo e soltanto una vita senza macchie: vite umane di quel tipo non ne esistono.

 

III-VI libro

 

In questi due libri Aristotele sviluppa la sua teoria dell’azione. Inizialmente il filosofo, domandandosi quali sono le condizioni per ascrivere un’azione a un soggetto, divide l’azione in volontaria e involontaria: l’azione volontaria è quella che ha il principio nell’agente, l’azione involontaria è quella compiuta sono costrizione o per ignoranza. Il concetto di costrizione è molto chiaro mentre è necessario approfondire ciò che Aristotele intende per ignoranza; essa riguarda un certo insieme di situazioni, la conoscenza delle quali, muterebbe il mio giudizio sull’azione da compiere. Difatti sui principi non ci può essere ignoranza (tutti sappiamo che non si mente e non si fa del male), o meglio, non c’è ignoranza ammessa, ma sulle circostanze si può essere ignoranti. Se dunque una persona sbaglia per ignoranza delle circostanze e poi, venendo a sapere come stavano invece le cose, prova rincrescimento e dispiacere, egli ha compiuto un’azione involontaria e quindi può essere scusato; se invece una persona sbaglia perché non segue i principi che conosce (perché non può esserci ignoranza dei principi), non può essere scusata perché ha compiuto l’azione volontariamente, deve essere al massimo perdonata. Si noti la sottile differenza tra perdono e scusa: il perdono presuppone il riconoscimento di una piena colpevolezza dell’agente e quindi non cancella la colpa, è piuttosto un dono che consiste nell’assolvere il colpevole e nel rimetterlo nella possibilità di rinascere moralmente; la scusa invece elimina la colpa perché si riconosce che il soggetto, non conoscendo le circostanze, ha sbagliato involontariamente.

 

Etica Nicomachea, III, 1111a: «si dovrà ritenere che il volontario è quello il cui principio sta in colui stesso che agisce, conoscendo le circostanze particolari in cui si attua l’azione».

 

Dopo aver distinto le azioni volontarie da quelli involontarie, Aristotele entra nel nucleo della teoria dell’azione distinguendo la nozione di volere da quella di scelta (προαίρεσις), concetto fondamentale dell’etica aristotelica. Quest’ultima è qualcosa di più specifico rispetto al volere, infatti, si può volere anche l’impossibile, ma non si può sceglierlo. Per Aristotele il volere è un semplice orientamento consapevole a un oggetto, che non presuppone necessariamente l’azione, al contrario la scelta presuppone una deliberazione, cioè il vaglio delle buone ragioni pro e contro la scelta. La προαίρεσις è dunque l’azione che risulta da un’attività mentale che è la deliberazione; si sceglie quando, dopo un ragionamento, ci si orienta a compiere una certa azione. A questo punto si delinea una certa struttura dell’azione umana che può essere sostanzialmente schematizzata in questo modo:

 

volontà (βουλήσις) à deliberazione (βουλή) à scelta (προαίρεσις) à azione (πραξις)

 

La deliberazione, in greco βουλή, corrisponde alla considerazione delle ragioni pro e contro ad una azione che noi mentalmente operiamo. L’etimologia è in questo caso illuminante, così come in campo politico la βουλή era ad Atene l’assemblea nella quale si discuteva sul da farsi, allo stesso modo nella teoria dell’azione la βουλή è la discussione che avviene mentalmente sulle ragioni pro e contro una certa inclinazione (ρεξις).

 

Mentre avviene la deliberazione, ad un certo punto ci affidiamo alla ragione che ci sembra più esaustiva ed affidabile ed avviene dunque la scelta, che sostanzialmente è basata su di un atto di fiducia verso la nostra capacità di discernere il bene dal male. La scelta ha due caratteristiche fondamentali; in primo luogo riguarda i mezzi e non i fini e in secondo luogo riguarda le cose che dipendono da noi.

 

Etica Nicomachea, III, 1112b: «Deliberiamo non sui fini, ma sui mezzi per raggiungerli. Infatti, un medico non delibera se debba guarire, né un oratore se debba persuadere, né un politico se debba stabilire un buon governo, né alcun altro delibera sul fine. Ma, una volta posto il fine, esaminano in che modo e con quali mezzi questo potrà essere raggiunto».

 

Si noti che la scelta dei mezzi coincide anche con la scelta degli scopi specifici delle varie pratiche (la scelta dei mezzi da parte del medico coincide con il fine di guarire il paziente), dunque la scelta dei mezzi coincide con i fini intermedi rispetto al fine ultimo che è sempre la felicità.

 

Altre considerazioni interessanti ci vengono fornite dall’etimologia della parola προαίρεσις: il verbo αίρεω, che significa afferrare, unito al prefisso προ, inteso in senso temporale, può essere tradotto come “la prima fra le cose che afferro”. Infatti, tra le varie ragioni, la scelta ne afferra una che sta a favore di un certo tipo di azione e comincia ad agire. La scelta dunque non è intesa da Aristotele come un movimento intellettuale, essa è già movimento, è l’ultimo pezzo intellettuale dell’azione fisica e precede quest’ultima nel senso stretto del termine. Nella scelta, dunque, l’intelletto è talmente pratico da risultare già muscolare; è come se afferrassi insieme la ragione e l’azione che mi raccomanda, traduco la ragione nell’azione corrispondente.

 

Questo spiega come mai Aristotele afferma che l’azione, una volta scelta, non può non essere compiuta. Questa asserzione sembra essere contraddittoria poiché nella realtà è possibile, anzi, succede spessissimo, che le nostre azioni non seguono la scelta (che noi scegliamo di non fare una cosa e alla fine la facciamo o viceversa). In realtà, risponde Aristotele, il problema non sta nella scelta ma avviene precedentemente, a livello del volere e della deliberazione.Infatti la volontà, definita come desiderio orientato ad un fine inteso come bene, vuole sempre il bene; la debolezza del volere (κρασία) è la debolezza di un volere che si lascia determinare da una deliberazione sbagliata e si traduce in una scelta sbagliata. Il volere dunque vuole il bene ma non può sapere sempre quale sia veramente il bene: ogni tanto sbaglia e vuole il male. A questo punto se si delibera in maniera sbagliata su qualcosa che appare bene ma non lo è, si giunte alla scelta sbagliata. Il volere partecipa attivamente alla scelta dell’azione; spesso noi non scegliamo veramente ma ci teniamo sempre, a livello della deliberazione, l’alternativa che il nostro volere preferirebbe.

 

 

Libri VIII-IX

La dottrina dell’amicizia

 

L’VIII e nel IX libro dell’Etica Nicomachea sono interamente dedicati all’analisi dell’amicizia; questa dottrina è probabilmente la più corposa e notevole che sia mai stata scritta in materia. La grande importanza che Aristotele attribuisce alla φιλíα è peraltro manifesta già dal primo paragrafo della trattazione, dove il filosofo non solo afferma che essa è bella e indispensabile alla vita, ma asserisce addirittura che può essere considerata superiore, o quantomeno affine, alla giustizia.

 

Etica Nicomachea, VIII, 1155a: «(…) giacché essa è una virtù o è accompagnata da virtù, ed è, inoltre, assolutamente necessaria alla vita. Infatti, senza amici, nessuno sceglierebbe di vivere, anche se possedesse tutti gli altri beni».

 

Etica Nicomachea, VIII, 1155: «Sembra, poi, che sia l’amicizia a tenere insieme le città, ed il legislatori si preoccupano più di lei che della giustizia. (…) Quando si è amici, non c’è alcun bisogno di giustizia, mentre, quando si è giusti, c’è ancora bisogno di amicizia ed il più alto livello della giustizia si ritiene che consista in un atteggiamento di amicizia».

 

Le condizioni dell’amicizia

 

Aristotele, prima di iniziare a parlare dei vari tipi d’amicizia, individua le condizioni da rispettare affinché l’amicizia possa essere chiamata effettivamente tale: esse sono la benevolenza e la reciprocità. Prese singolarmente queste due caratteristiche non sono sufficienti; la φιλíα per essere tale deve possederle entrambe. Infatti, l’amicizia non implica solo il voler bene all’amico (benevolenza), ma implica anche che questa benevolenza sia reciproca e che entrambi i soggetti che si rapportano siano consapevoli di ciò. Interessante notare che queste due nozioni escludono la possibile sussistenza di amicizia con oggetti inanimati; infatti, essi non possono ricambiarci l’affezione, né noi possiamo volere un bene per loro.

 

Etica Nicomachea, VIII, 1155b: «si dice, invece, che bisogna volere il bene per l’amico per lui stesso. Ma quelli che così vogliono il bene degli altri si chiamano benevoli, anche se non vengono da quegli altri ricambiati: la benevolenza, infatti, è amicizia solo quando è reciproca. O non bisogna aggiungere anche quando non rimane nascosta?».

 

Etica Nicomachea, VIII, 1156a: «Costoro, dunque, sono manifestatamente benevoli gli uni verso gli altri: ma come si potrebbe chiamarli amici, se tengono nascosto l’uno all’altro il proprio sentimento? Bisogna, dunque, per essere amici, essere benevoli gli uni verso gli altri e non nascondere di volere il bene l’uno dell’altro, per uno dei motivi che abbiamo detto».

 

 

 

 

 

 

 

 

Le specie dell’amicizia

 

Una volta stabilite le condizioni dell’amicizia, è necessario individuarne le specie. Considerando che gli oggetti degni di essere amati possono essere il buono, l’utile e il piacevole, Aristotele individua tre tipi di amicizia corrispondenti: quella di virtù, quella di utilità e quella di piacere. Le amicizie di utilità e di piacere sono classificate come accidentali poiché le persone che instaurano un rapporto di utilità e di piacere non si amano per se stesse ma si amano in quanto deriva loro un qualche vantaggio reciproco. Al contrario l’amicizia di virtù è classificata come sostanziale perché è l’unica perfetta e autentica, nel senso che si ha quando due persone si amano per se stesse e non in vista di un vantaggio. Quest’amicizia, fondandosi sulla virtù, sulla fiducia e sulla giustizia, si basa su un continuo scambio di beni e quindi è anche massimamente utile e piacevole. Si noti dunque che l’amicizia di piacere e di utilità riescono a realizzare solo in parte ciò che invece nell’amicizia di virtù è pienamente realizzato; in questo senso l’amicizia autentica comprende in sé anche gli altri due tipi di amicizia. La vera amicizia, essendo fondata sul bene e sul rispetto reciproco, è quindi anche la più stabile e duratura, poiché non può essere incrinata da nessuna calunnia. Al contrario l’amicizia di piacere e l’amicizia di utilità, tipiche rispettivamente dei giovani e dei vecchi, si dissolvono facilmente e in breve tempo: quella di piacere si fonda prevalentemente sull’amicizia amorosa e dunque cessa non appena viene meno il desiderio, mentre quella di utilità si fonda prevalentemente tra persone che hanno bisogno di aiuto e cessa solitamente quando viene meno il bisogno per cui era nata.

 

Etica Nicomachea, VII, 1155,30: «Invece, si ritiene che l’amicizia dei giovani sia causata dal piacere: questi, infatti, vivono sotto l’influsso della passione, e perseguono soprattutto ciò che è per loro un piacere immediato. Ma col procedere dell’età anche e cose che fanno piacere diventano diverse. È per questo che i giovani rapidamente diventano amici e rapidamente cessano di esserlo: infatti, l’amicizia muta insieme col mutare di ciò che fa piacere, e il mutamento di un tale tipo di piacere è rapido. Inoltre, i giovani, sono inclini alla passione amorosa, giacché gran parte del sentimento amoroso segue la passione e deriva dal piacere: perciò essi si innamorano e cessano d’amare rapidamente, mutando sentimento più volte nello stesso giorno».

 

 

L’amicizia di virtù può nascere dunque solo tra persone buone e virtuose, ai viziosi sono concesse solo le amicizie di utilità e piacere, che non sono amicizie nel senso stretto del termine ma solo per analogia. Le amicizie di virtù richiedono anche tempo per instaurarsi perché è necessario che tra i contraenti ci sia una grande conoscenza reciproca da cui possa nascere l’amore, la stima e il riconoscimento della virtù altrui. Per queste caratteristiche la vera amicizia è anche assai rara, non solo perché richiede tempo e dedizione, ma anche perché le persone virtuose e buone sono assai poche; tuttavia non sarebbe comunque possibile avere molti amici siccome è impossibile instaurare con tante persone contemporaneamente un legame autentico e profondo.

 

 

 

 

 

Uguaglianza

 

Aristotele afferma che la maggior parte degli uomini preferisce essere amata piuttosto che amare, poiché l’essere amato è ritenuto dai più un segno di onore e una speranza che nel futuro si sarà aiutati. In realtà l’amicizia autentica si fonda sul principio dell’amare e non su quello dell’essere amati; questo principio dell’amore rende possibile anche l’amicizia tra persone diseguali. Per comprendere quest’ultima frase è importante focalizzarci sul concetto di uguaglianza. Aristotele afferma che le amicizie più vere e autentiche nascono quando si ha l’uguaglianza; in altre parole l’amicizia vera si ha quando due uomini virtuosi possiedono una quantità sufficiente di valori personali da poter mantenere sempre vivo lo scambio reciproco di piaceri e vantaggi su un piano di uguaglianza. Questo discorso sembra negare la possibilità che si possa instaurare un’amicizia tra persone diseguali, ad esempio tra superiori e inferiori. In realtà se si rispetta un criterio di proporzionalità anche quest’amicizia è possibile: chi è in qualche modo superiore deve essere amato di più in proporzione al merito. Per questi stessi motivi Aristotele nega che ci possa essere amicizia tra uomo e Dio poiché la distanza tra loro è così grande che non può essere colmata in nessun modo.

 

Etica Nicomachea, VII, 1158a: «Ma in tutte le amicizie che implicano una superiorità ci deve essere anche un affetto proporzionale: per esempio, il più virtuoso deve essere amato più di quanto ami, come pure ci è utile, e parimenti in ciascuno degli altri casi. Quando, infatti, l’affezione è proporzionata al merito, allora si produce, incerto qual modo, un’uguaglianza, il che, per conseguenza, è considerato proprio dell’amicizia».

 

 

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