PIER PAOLO PASOLINI




"Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio "progetto di romanzo", sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti".


 

 

VITA E OPERE

 

A cura di Biografieonline.it

 

PASOLINIPier Paolo Pasolini nasce il 5 marzo del 1922 a Bologna. Primogenito di Carlo Alberto Pasolini, tenente di fanteria, e di Susanna Colussi, maestra elementare. Il padre, di vecchia famiglia ravennate, di cui ha dissipato il patrimonio sposa Susanna nel dicembre del 1921 a Casarsa. Dopodiche' gli sposi si trasferiscono a Bologna.
Lo stesso Pasolini dirà di se stesso: "Sono nato in una famiglia tipicamente rappresentativa della societa' italiana: un vero prodotto dell'incrocio... Un prodotto dell'unita' d'Italia. Mio padre discendeva da un'antica famiglia nobile della Romagna, mia madre, al contrario, viene da una famiglia di contadini friulani che si sono a poco a poco innalzati, col tempo, alla condizione piccolo-borghese. Dalla parte di mio nonno materno erano del ramo della distilleria. La madre di mia madre era piemontese, cio' non le impedi' affatto di avere egualmente legami con la Sicilia e la regione di Roma" .
Nel 1925, a Belluno, nasce il secondogenito, Guido. Visti i numerosi spostamenti, l'unico punto di riferimento della famiglia Pasolini rimane Casarsa. Pier Paolo vive con la madre un rapporto di simbiosi, mentre si accentuano i contrasti col padre. Guido invece vive in una sorta di venerazione per lui, ammirazione che lo accompagnerà fino al giorno della sua morte.
Nel 1928 è l'esordio poetico: Pier Paolo annota su un quadernetto una serie di poesie accompagnate da disegni. Il quadernetto, a cui ne seguirono altri, andrà perduto nel periodo bellico.
Ottiene il passaggio dalle elementari al ginnasio che frequenta a Conegliano. Negli anni del liceo dà vita, insieme a Luciano Serra, Franco Farolfi, Ermes Parini e Fabio Mauri, ad un gruppo letterario per la discussione di poesie.
Conclude gli studi liceali e, a soli 17 anni si iscrive all'Università di Bologna, facoltà di lettere. Collabora a "Il Setaccio", il periodico del GIL bolognese e in questo periodo scrive poesie in friulano e in italiano, che saranno raccolte in un primo volume, "Poesie a Casarsa".
Partecipa inoltre alla realizzazione di un'altra rivista, "Stroligut", con altri amici letterati friulani, con i quali crea l' "Academiuta di lenga frulana".
L'uso del dialetto rappresenta in qualche modo un tentativo di privare la Chiesa dell'egemonia culturale sulle masse. Pasolini tenta appunto di portare anche a sinistra un approfondimento, in senso dialettale, della cultura.
Scoppia la seconda guerra mondiale, periodo estremamente difficile per lui, come si intuisce dalle sue lettere. Viene arruolato sotto le armi a Livorno, nel 1943 ma, all'indomani dell'8 settembre disobbedisce all'ordine di consegnare le armi ai tedeschi e fugge. Dopo vari spostamenti in Italia torna a Casarsa. La famiglia Pasolini decide di recarsi a Versuta, al di là del Tagliamento, luogo meno esposto ai bombardamenti alleati e agli assedi tedeschi. Qui insegna ai ragazzi dei primi anni del ginnasio. Ma l'avvenimento che segnerà quegli anni e' la morte del fratello Guido, aggregatosi alla divisione partigiana "Osoppo".
Nel febbraio del 1945 Guido venne massacrato, insieme al comando della divisione osavana presso le malghe di Porzus: un centinaio di garibaldini si era avvicinata fingendosi degli sbandati, catturando in seguito quelli della Osoppo e passandoli per le armi. Guido, seppure ferito, riesce a fuggire e viene ospitato da una contadina. Viene trovato dai garibaldini, trascinato fuori e massacrato. La famiglia Pasolini saprà della morte e delle circostanze solo a conflitto terminato. La morte di Guido avrà effetti devastanti per la famiglia Pasolini, soprattutto per la madre, distrutta dal dolore. Il rapporto tra Pier Paolo e la madre diviene così ancora più stretto, anche a causa del ritorno del padre dalla prigionia in Kenia.
Nel 1945 Pasolini si laurea discutendo una tesi intitolata “Antologia della lirica pascoliniana” e si stabilisce definitivamente in Friuli. Qui trova lavoro come insegnante in una scuola media di Valvassone, in provincia di Udine.
In questi anni comincia la sua militanza politica. Nel 1947 si avvicina al PCI, cominciando la collaborazione al settimanale del partito "Lotta e lavoro". Diventa segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa, ma non viene visto di buon occhio nel partito e, soprattutto, dagli intellettuali comunisti friulani. Le ragioni del contrasto sono innanzitutto linguistiche. Gli intellettuali "organici" scrivono servendosi della lingua del novecento, mentre Pasolini scrive con la lingua del popolo senza fra l'altro cimentarsi per forza in soggetti politici. Agli occhi di molti tutto ciò risulta inammisibile: molti comunisti vedono in lui un sospetto disinteresse per il realismo socialista, un certo cosmopolitismo, e un'eccessiva attenzione per la cultura borghese. Anche la sua omosessualità è mal vista, a tal punto che Pasolini è espulso dal partito.
Questo, di fatto, è l'unico periodo in cui Pasolini si sia impegnato attivamente nella lotta politica, anni in cui scriveva e disegnava manifesti di denuncia contro il costituito potere democristiano.
Il 15 ottobre del 1949 viene segnalato ai Carabinieri di Cordovado per corruzione di minorenne avvenuta, secondo l'accusa nella frazione di Ramuscello: è l'inizio di una delicata ed umiliante trafila giudiziaria che cambierà per sempre la sua vita. Dopo questo processo molti altri ne seguirono, ma è lecito pensare che se non vi fosse stato questo primo procedimento gli altri non sarebbero seguiti.
E' un periodo di contrapposizioni molto aspre tra la sinistra e la DC, e Pasolini, per la sua posizione di intellettuale comunista e anticlericale rappresenta un bersaglio ideale. La denuncia per i fatti di Ramuscello viene ripresa sia dalla destra che dalla sinistra: prima ancora che si svolga il processo, il 26 ottobre 1949.
Pasolini si trova proiettato nel giro di qualche giorno in un baratro apparentemente senza uscita. La risonanza a Casarsa dei fatti di Ramuscello avrà una vasta eco. Davanti ai carabinieri cerca di giustificare quei fatti, intrinsecamente confermando le accuse, come un'esperienza eccezionale, una sorta di sbandamento intellettuale: ciò non fa che peggiorare la sua posizione: espulso dal PCI, perde il posto di insegnante, e si incrina momentaneamente il rapporto con la madre. Decide allora di fuggire da Casarsa, dal suo Friuli spesso mitizzato e insieme alla madre si trasferisce a Roma.
I primi anni romani sono difficilissimi, proiettato in una realtà del tutto nuova e inedita quale quella delle borgate romane. Sono tempi d'insicurezza, di povertà, di solitudine.
Pasolini, piuttosto che chiedere aiuto ai letterati che conosce, cerca di trovarsi un lavoro da solo. Tenta la strada del cinema, ottenendo la parte di generico a Cinecittà, fa il correttore di bozze e vende i suoi libri nelle bancarelle rionali.
Finalmente, grazie al poeta il lingua abruzzese Vittori Clemente trova lavoro come insegnante in una scuola di Ciampino.
Sono gli anni in cui, nelle sue opere letterarie, trasferisce la mitizzazione delle campagne friulane nella cornice disordinata della borgate romane, viste come centro della storia, da cui prende spunto un doloroso processo di crescita. Nasce insomma il mito del sottoproletariato romano.
Prepara le antologie sulla poesia dialettale; collabora a "Paragone", una rivista di Anna Banti e Roberto Longhi. Proprio su "Paragone", pubblica la prima versione del primo capitolo di "Ragazzi di vita".
Angioletti lo chiama a far parte della sezione letteraria del giornale radio, accanto a Carlo Emilio Gadda, Leone Piccioni e Giulio Cartaneo. Sono definitivamente alle spalle i difficili primi anni romani. Nel 1954 abbandona l'insegnamento e si stabilisce a Monteverde Vecchio. Pubblica il suo primo importante volume di poesie dialettali: “La meglio gioventù”.
Nel 1955 viene pubblicato da Garzanti il romanzo "Ragazzi di vita", che ottiene un vasto successo, sia di critica che di lettori. Il giudizio della cultura ufficiale della sinistra, e in particolare del PCI, è però in gran parte negativo. Il libro viene definito intriso di "gusto morboso, dello sporco, dell'abbietto, dello scomposto, del torbido.."
La Presidenza del Consiglio (nella persona dell'allora ministro degli interni, Tambroni) promuove un'azione giudiziaria contro Pasolini e Livio Garzanti. Il processo dà luogo all'assoluzione "perche' il fatto non costituisce reato". Il libro, per un anno tolto alle librerie, viene dissequestrato. Pasolini diventa però uno dei bersagli preferiti dai giornali di cronaca nera; viene accusato di reati al limite del grottesco: favoreggiamento per rissa e furto; rapina a mano armata ai danni di un bar limitrofo a un distributore di benzina a S. Felice Circeo.
La passione per il cinema lo tiene comunque molto impegnato. Nel 1957, insieme a Sergio Citti, collabora al film di Fellini, "Le notti di Cabiria", stendendone i dialoghi nella parlata romana, poi firme sceneggiature insieme a Bolognini, Rosi, Vancini e Lizzani, col quale esordisce come attore nel film "Il gobbo" del 1960.
In quegli anni collabora anche alla rivista "Officina" accanto a Leonetti, Roversi, Fortini, Romano', Scalia. Nel 1957 pubblica i poemetti "Le ceneri di Gramsci" per Garzanti e, l'anno successivo, per Longanesi, "L'usignolo della Chiesa cattolica". Nel 1960 Garzanti pubblica i saggi "Passione e ideologia", e nel 1961 un altro volume in versi "La religione del mio tempo".
Nel 1961 realizza il suo primo film da regista e soggettista, "Accattone". Il film viene vietato ai minori di anni diciotto e suscita non poche polemiche alla XXII mostra del cinema di Venezia. Nel 1962 dirige "Mamma Roma". Nel 1963 l'episodio "La ricotta" (inserito nel film a più mani "RoGoPaG"), viene sequestrato e Pasolini e' imputato per reato di vilipendio alla religione dello Stato. Nel '64 dirige "Il vangelo secondo Matteo"; nel '65 "Uccellacci e Uccellini"; nel '67 "Edipo re"; nel '68 "Teorema"; nel '69 "Porcile"; nel '70 "Medea"; tra il '70 e il '74 la triologia della vita, o del sesso, ovvero "Il Decameron", "I racconti di Canterbury" e "Il fiore delle mille e una notte"; per concludere col suo ultimo "Salo' o le 120 giornate di Sodoma" nel 1975.
Il cinema lo porta a intraprendere numerosi viaggi all'estero: nel 1961 e', con Elsa Morante e Moravia, in India; nel 1962 in Sudan e Kenia; nel 1963 in Ghana, Nigeria, Guinea, Israele e Giordania (da cui trarrà un documentario dal titolo "Sopralluoghi in Palestina"). Nel 1966, in occasione della presentazione di "Accattone" e "Mamma Roma" al festival di New York, compie il suo primo viaggio negli Stati Uniti; rimane molto colpito, soprattutto da New York. Nel 1968 e' di nuovo in India per girare un documentario. Nel 1970 torna in Africa: in Uganda e Tanzania, da cui trarrà il documentario "Appunti per un'Orestiade africana".
Nel 1972, presso Garzanti, pubblica i suoi interventi critici, soprattutto di critica cinematografica, nel volume "Empirismo eretico".
Essendo ormai i pieni anni settanta, non bisogna dimenticare il clima che si respirava in quegli anni, ossia quello della contestazione studentesca. Pasolini assume anche in questo caso una posizione originale rispetto al resto della cultura di sinistra. Pur accettando e appoggiando le motivazioni ideologiche degli studenti, ritiene in fondo che questi siano antropologicamente dei borghesi destinati, in quanto tali, a fallire nelle loro aspirazioni rivoluzionarie.
Tornando ai fatti riguardanti la produzione artistica, nel 1968 ritira dalla competizione del Premio Strega il suo romanzo "Teorema" e accetta di partecipare alla XXIX mostra del cinema di Venezia solo dopo che, come gli viene garantito, non ci saranno votazioni e premiazioni. Pasolini è tra i maggiori sostenitori dell'Associazione Autori Cinematografici che si batte per ottenere l'autogestione della mostra. Il 4 settembre il film "Teorema" viene proiettato per la critica in un clima arroventato. L'autore interviene alla proiezione del film per ribadire che il film è presente alla Mostra solo per volontà del produttore ma, in quanto autore, prega i critici di abbandonare la sala, richiesta che non viene minimamente rispettata. La conseguenza è che Pasolini si rifiuta di partecipare alla tradizionale conferenza stampa, invitando i giornalisti nel giardino di un albergo per parlare non del film, ma della situazione della Biennale.
Nel 1972 decide di collaborare con i giovani di Lotta Continua, ed insieme ad alcuni di loro, tra cui Bonfanti e Fofi, firma il documentario 12 dicembre. Nel 1973 comincia la sua collaborazione al "Corriere della sera", con interventi critici sui problemi del paese. Presso Garzanti, pubblica la raccolta di interventi critici "Scritti corsari", e ripropone le poesia friulana in una forma del tutto peculiare sotto il titolo di "La nuova gioventù".
La mattina del 2 novembre 1975, sul litorale romane ad Ostia, in un campo incolto in via dell'idroscalo, una donna, Maria Teresa Lollobrigida, scopre il cadavere di un uomo. Sarà Ninetto Davoli a riconoscere il corpo di Pier Paolo Pasolini. Nella notte i carabinieri fermano un giovane, Giuseppe Pelosi, detto "Pino la rana" alla guida di una Giulietta 2000 che risulterà di proprietà proprio di Pasolini. Il ragazzo, interrogato dai carabinieri, e di fronte all'evidenza dei fatti, confessa l'omicidio. Racconta di aver incontrato lo scrittore presso la Stazione Termini, e dopo una cena in un ristorante, di aver raggiunto il luogo del ritrovamento del cadavere; lì, secondo la versione di Pelosi, il poeta avrebbe tentato un approccio sessuale, e vistosi respinto, avrebbe reagito violentemente: da qui, la reazione del ragazzo.
Il processo che ne segue porta alla luce retroscena inquietanti. Si paventa da diverse parti il concorso di altri nell'omicidio ma purtroppo non vi sarà arriverà mai ad accertare con chiarezza la dinamica dell'omicidio. Piero Pelosi viene condannato, unico colpevole, per la morte di Pasolini. Non è difficile capire come l’assassinio pasoliano fu un assassinio politico, perpetrato ai danni di un critico scomodo (un “parresiasta”, per dirla con Foucault) per chi stava al potere.
Il corpo di Pasolini è sepolto a Casarsa.

 

 

IL PENSIERO

 

A cura di Andrea Pesce

 

Pier Paolo Pasolini ha lasciato alla società civile e, in particolare, a quella italiana, un debito che difficilmente verrà saldato. Colpevolizzato e tradito durante la sua esistenza, emarginato e condannato dalla persecuzione piccolo-borghese (attraverso “armi” come polizia e magistratura collezionò un numero impressionante di condanne penali per presunte offese alla religione di Stato e al comune senso del pudore, oltraggi che, secondo i suoi persecutori, erano contenuti nelle sue opere a carattere letterario e nei suoi film), a trent’anni di distanza dalla sua morte il nostro Paese, che dovrebbe ricordarlo come una delle sue più grandi espressioni culturali di tutti i tempi, grazie alla stupidità e al clownesco delirio della classe politica attualmente al potere, riesce a trovare il modo di obliare cotanta grandezza tramite le vicissitudini di casa Carrisi e i penosi litigi tra vip nella sempre più immensa discarica televisiva. Un solo dato a titolo di esempio: il film-testamento del poeta “Salò o le 120 giornate di Sodoma” non è mai stato trasmesso da una Tv nazionale e, probabilmente, non sarà data la possibilità di vederlo ancora per un numero imprecisato di anni. “Critica” è il miglior modo per etichettare il pensiero pasoliniano: “critica” è una parola che deriva dal greco krìno, col significato originario di “giudicare”; in seguito, con Immanuel Kant, la “critica” diventa strumento con cui la ragione prende coscienza dei propri limiti e possibilità, limitando la conoscenza al dato fenomenico e non alla “cosa in sé”, confine oltre il quale la ragione non può inoltrarsi. Questa tesi sarà duramente attaccata da Hegel e il suo “idealismo”. Ma la parola “critica” può anche essere letta in un altro modo: come un invito per il filosofo al rischio, alla messa in discussione di certezze acquisite, al non farsi intimidire dal potere e, in ultima analisi, all’esporsi personalmente senza mediazioni nella ricerca della verità: in quest’accezione, erano stati critici Socrate e Diogene il cinico. In questo senso Pasolini può essere considerato un “sincretista”, un “filosofo” che, utilizzando gli strumenti a lui concessi dalla cultura del suo tempo, e attingendo al patrimonio millenario delle culture precedenti (soprattutto dai miti greci), ha saputo comprendere e trasmettere ai suoi contemporanei il molteplice e complesso svilupparsi delle dinamiche sociali, politiche ed economiche. Abbiamo utilizzato la parola “sincretismo” per l’approccio critico pasoliniano, che non va confuso con un disorganico miscuglio di discipline dalle quali attingere all’occorrenza.  Pasolini conosceva bene il potenziale delle scienze umane per la comprensione della realtà. Grande conoscitore del pensiero di Karl Marx (del quale eredita soprattutto l’attenzione per le classi subalterne e la critica programmatica di ogni ideologia e di ogni falsa coscienza), di Antonio Gramsci (al quale dedica la famosa raccolta di poesie “Le ceneri di Gramsci”) egli sente fortemente l’esigenza di rinnovare e completare il marxismo con tematiche psicoanalitiche, con argomenti sociologici, antropologici e, non da ultimi, linguistici e semiologici. Il tema non è nuovo. Questa metodologia era già stata applicata per  lo studio della società tardo-moderna e capitalistica dai teorici della Scuola di Francoforte, istituto fondato nel 1924 e inizialmente diretto da Karl Grünberg. Nel 1930 esso passerà sotto la direzione di Max Horkheimer e nel 1932 uscirà la rivista dell’Istituto per la Ricerca sociale in cui vi sono contributi di Grossman, Pollock, Löwenthal, Adorno, Fromm. In questa scuola confluiranno i pensieri di molte tra le più acute e lungimiranti menti della filosofia contemporanea: oltre ai filosofi succitati ricordiamo: Herbert Marcuse, Mandelbaum, Neumann, Kircheimer, Bettelheim, Benjamin, Aron, Bowra, Fenichel, Groethuysen, Mead e molti altri. La “teoria critica” è costituita da un particolare intreccio di idealismo e di materialismo. Partendo dall’identità tra reale e razionale fatta valere da Hegel –  “ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale” – Marcuse sostiene che quanto vi è di irrazionale nella realtà non può resistere alla forza critica e dissolvitrice della ragione, portando la realtà a divenire razionale. Dall’idealismo la teoria critica ricava l’istanza della ragione, ossia che questa deve tradursi nella realtà, mentre dal materialismo, ricava l’idea che la realtà da trasformare razionalmente è il complesso dei rapporti economico-sociali tesi a “creare un’organizzazione sociale in cui gli individui regolino in comune la propria vita secondo i loro bisogni”[1]. In sostanza, da una parte essa non accetta i dati di fatto esposti dalle teorie scientifiche, ponendosi in una sfera sicuramente antipositivistica con atteggiamenti anche utopistici, dall’altra è realistica nella sua tendenza a ricercare, all’interno della sfera sociale, quelle tendenze che possano realizzare la ragione. Gli studiosi francofortesi si erano posti il problema di come descrivere la sconfitta del movimento operaio tedesco (aspetto che aveva smentito le previsioni di Marx) e l’avvento del totalitarismo in Germania, fenomeno che trovò il consenso in una grandissima parte della classe operaia. Il meccanismo psicologico che determina l’assoggettamento dei più deboli nei confronti dell’autoritarismo nei regimi totalitari, sarà un tema a cui Pasolini dedicherà molte pagine, senz’altro con l’ausilio degli studi dei teorici francofortesi. Inoltre Pasolini deve probabilmente aver letto la ricerca condotta dallo psicanalista austriaco Wilhem Reich “Psicologia di massa del fascismo” del 1933, testo in cui vengono minuziosamente analizzate le dinamiche socio-psicologiche nelle masse, determinanti l’ascesa del fascismo in Europa. Reich, dissidente con S. Ferenczi e O. Rank  dalla scuola di Sigmund Freud (vengono definiti psicoanalisti della “seconda generazione”), fu inizialmente sostenitore dell’azione combinata tra marxismo e psicanalisi per la comprensione delle dinamiche sociali. Coniando il termine di “sessuo-economia”, egli introdusse in ambito sociologico il concetto secondo il quale le energie libidiche dell’individuo vengono influenzate (ingorgate o scaricate orgiasticamente) da fattori psicologici, biologici ed economici; successivamente si allontanò da tale concezione rifiutando ogni ipotesi di indagine combinata, lasciando l’aspetto psicologico individuale alla psicanalisi e l’aspetto sociale alla descrizione marxista. Quello che preme sottolineare nel saggio di Reich è l’impostazione data alla sua indagine. La responsabilità dell’ascesa delle dittature fasciste è in larga misura da attribuire al ceto medio, alla borghesia (classe che, secondo Marx, cerca di conquistarsi, di annettersi tutte le altre espressioni sociali, soggiogandole col suo modello di esistenza) e alla sua disposizione psicologica ad essere autoritariamente gestita. Riportiamo alcune frasi estrapolate dal libro di Reich particolarmente significative in questo contesto che ci permetteranno di addentrarci nel pensiero di Pasolini: “Le mie esperienze mediche fatte con molte persone appartenenti ai più disparati strati sociali […] mi avevano insegnato che il fascismo non è altro che l’espressione politicamente organizzata della struttura caratteriale umana media […] Il fascismo, nella sua forma più pura, è la somma di tutte le reazioni irrazionali del carattere umano medio. […] La mentalità fascista è la mentalità dell’ “uomo della strada” mediocre, soggiogato, smanioso di sottomettersi ad un’autorità e allo stesso tempo ribelle. Non è casuale che tutti i dittatori fascisti escano dalla sfera sociale del piccolo uomo della strada reazionario. […] Oggi è chiaro a chiunque che il “fascismo” non è l’opera di un Hitler o di un Mussolini, ma che è l’espressione della struttura irrazionale dell’uomo di massa[2]. Se ne erano già accorti anche i gerarchi nazisti. Goebbels scriveva nei suoi diari che le masse sono molto più primitive di quanto possiamo immaginare: la propaganda dev’essere essenzialmente semplice e basata sul meccanismo della “ripetizione”, insistente e banale per far sì che i concetti (soprattutto i più idioti) si cristallizzino nella mente delle persone; questa tecnica è oggi abusata dalle grandi industrie della pubblicità e dai partiti politici che dispongono direttamente di grandi canali di comunicazione come televisioni e giornali. È inoltre degno di nota che nel film a episodi di autori vari “RoGoPaG” (Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti) del 1963, nel mediometraggio diretto da Pasolini dal titolo “La ricotta”, il regista marxista interpretato da Orson Welles, incalzato dalle domande di un noioso giornalista durante la scena della crocifissione di Stracci, affermi: “ Ma lei non sa cosa è un uomo medio? È un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista!”. Queste affermazioni, formulate dall’alter ego di Pasolini in questa finzione filmica, potremmo considerarle una sintesi esasperata del pensiero reichiano. A conferma di questa ipotesi, va ricordato che le reazioni nei confronti della pellicola da parte dei benpensanti borghesi furono violente. Il ceto medio si sentì ancora una volta offeso e fece intervenire i suoi strumenti di repressione: il 1º marzo 1963 il film venne sequestrato per “vilipendio alla religione di Stato” e solo il 6 maggio 1964 la Corte d’appello di Roma assolverà il regista perché “il fatto non costituisce reato”. Un’altra analogia storica che può avvicinare il pensiero di Pasolini (oltre al suo odio nei confronti della mediocrità e del conformismo) alla Scuola di Francoforte, è sicuramente data dalla sanguinosa dittatura di Mussolini che sconvolse l’Italia nel ventennio fascista e, parallelamente, l’altrettanto barbarica e feroce oppressione nazista in Germania. Adorno, Horkheimer, Marcuse ed altri esponenti di spicco del pensiero critico furono costretti dai terribili eventi a fuggire negli Stati Uniti, dove accentuarono ulteriormente il loro pessimismo, sentimento  condensato in opere memorabili come “Dialettica dell’illuminismo” di Horkheimer e Adorno, pubblicato per la prima volta ad Amsterdam nel 1947, o “Eros e civiltà” di Marcuse, del 1955. Nella celebre opera di Horkheimer e Adorno, il tema centrale è “l’autodistruzione dell’illuminismo” che rappresenterebbe il declino dell’uomo e non il suo accrescimento nei confronti della natura, in una continua degradazione e asservimento alla “ragione strumentale” che ottunde le capacità critiche dell’essere umano, ridotto a semplice strumento dell’economia capitalistica. Scrivono i due autori: “L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura. […] Gli uomini pagano l’accrescimento del loro potere con l’estraniazione da ciò su cui lo esercitano. L’illuminismo si rapporta alle cose come il dittatore agli uomini: che conosce in quanto è in grado di manipolarli”[3]. Nato per liberare l’uomo, l’illuminismo si è perversamente capovolto (e in ciò sta la sua dialettica) in ciò contro cui combatteva: l’irrazionalità, la violenza, la barbarie. Pasolini fa un salto in avanti chiedendosi se sia possibile conciliare le offerte sempre più superflue dateci dalla tecnologia (intesa anche come applicazione scientifica) e le esigenze degli strati sociali più deboli e, per questo motivo, maggiormente a rischio di sottomissione. La questione è posta in un breve saggio dal titolo “Sviluppo e progresso” del 1973, nel quale vengono esaminate le due parole sul piano socio-linguistico:

 

“Vediamo: la parola ‘sviluppo’ ha oggi una rete di riferimenti che riguardano un contesto indubbiamente di “destra”. […] Chi vuole infatti lo ‘sviluppo’? […] è evidente: a volere lo ‘sviluppo’ in tal senso è chi produce; sono cioè gli industriali. […] gli industriali che producono beni superflui. La tecnologia ha creato la possibilità di una industrializzazione praticamente illimitata, e i cui caratteri sono ormai transnazionali. I consumatori di beni superflui, sono da parte loro, irrazionalmente e inconsapevolmente d’accordo nel volere lo ‘sviluppo’ (questo ‘sviluppo’). Per essi significa promozione sociale e liberazione, con conseguente abiura dei valori culturali che avevano loro fornito i modelli di ‘poveri’, di ‘lavoratori’, di ‘risparmiatori’, di ‘soldati’, di ‘credenti’. La ‘massa’ è dunque per lo ‘sviluppo’: ma vive questa sua ideologia soltanto esistenzialmente, ed esistenzialmente è portatrice dei nuovi valori del consumo. […] Chi vuole, invece, il ‘progresso’? Lo vogliono coloro che non hanno interessi immediati da soddisfare, appunto, attraverso il ‘progresso’: lo vogliono gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi lavora e chi è dunque sfruttato”.

 

Sono temi ancora attualissimi se si considera il fatto che esiste una grandissima parte di umanità costretta alla fame a causa dell’egoistico e irrazionale “sviluppo” col quale dobbiamo convivere. Pasolini vide il “terzo mondo” non a migliaia di chilometri di distanza, ma lo trovò, si può dire, sotto casa, nel sottoproletariato urbano delle borgate romane e tra i braccianti del meridione italiano. In queste realtà, la sensibilità del poeta, abbinata alla sua grande preparazione intellettuale, potè esprimersi in profonde analisi sociali e antropologioche, mettendo in luce aspetti che erano sfuggiti ai sociologi di professione. In queste descrizioni, Pasolini sembra avvicinarsi alle tesi di Marcuse, soprattutto de “L’uomo a una dimensione” e “L’ideologia della società industriale avanzata” (1964), opere in cui il filosofo tedesco affidava la speranza di una liberazione dell’uomo dalla repressione e strumentalizzazione delle tecnocrazie agli emarginati, ai reietti e ai poveri del terzo mondo, e non a un proletariato che ormai era al servizio della classe dominante e incapace di fare la rivoluzione. Così si esprimeva Marcuse:

 

“Tuttavia, al di sotto della base conservatrice, vi è il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze di altri colori, dei disoccupati e degli inabili. Essi permangono al di fuori del processo democratico. […] la loro opposizione è rivoluzionaria anche se non lo è la loro coscienza. La loro opposizione colpisce il sistema dal di fuori e quindi non è sviata dal sistema; è una forza elementare che viola le regole del gioco, e così facendo mostra che è un gioco truccato. Quando si riuniscono e scendono nelle strade, senza armi, senza protezione, per chiedere i più elementari diritti civili, essi sanno di affrontare cani, pietre e bombe, galera, campi di concentramento, persino la morte”[4].

 

Le parole finali di questo pezzo di Marcuse sono potentissime. Anche Pasolini, non meno di Marcuse, non nutre grandi speranze nel proletariato, che ormai s’è a tal punto abituato ai meccanismi della società del consumo (la cui “bontà” gli viene inculcata dai mass media) da non saper più opporre ad essa alcuna resistenza. È piuttosto ai gruppi sottoproletari, senza speranza e senza cultura, che bisogna volgere lo sguardo: è in quest’ottica che si spiega perché il nostro autore, all’indomani degli scontri del Sessantotto, si sia schierato al fianco dei poliziotti e contro i “figli di papà” che protestavano:

 

“Avete facce di figli di papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete paurosi, incerti, disperati
(benissimo) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori e sicuri:
prerogative piccoloborghesi, amici.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. […]

Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale)
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all’altra classe sociale.
A Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi,
mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi,
ai poliziotti si danno i fiori, amici” (“Il PCI ai giovani!”).

 

Pasolini era un fervido sostenitore dei valori  nati nel nostro paese dalla guerra di  Liberazione dai nazi-fascisti, conquista che fu determinante per lo sviluppo democratico dell’Italia attraverso la nascita della Costituzione e dei diritti che questa carta tutela. Il poeta di Casarsa, che aveva conosciuto direttamente i protagonisti di questa straordinaria pagina della storia italiana (contadini, operai, donne, giovani appartenenti agli strati più poveri del paese), vide compiersi sotto i suoi occhi quello che egli definì “il genocidio”, ossia l’annientamento di larghe zone della società, a causa della forma di neo-capitalismo detta “consumismo”, momento che culminò in Italia nei primi anni ’60 col cosiddetto “boom economico”. In un intervento alla Festa dell’Unità di Milano del 1974, egli parlò di vera e propria “estinzione culturale”, per via dell’acculturazione operata dalla borghesia e il propagarsi dei suoi modelli di edonismo e di consumo. Anche a livello linguistico Pasolini argomenta che l’operazione svolta dalla televisione, intesa come strumento di diffusione degli ideali borghesi, ha ucciso la vitalità linguistica dialettale (ne abbiamo un esempio col romanesco contenuto nel suo film del 1960 “Accattone”), trasformando i giovani in vittime di una specie di “nevrosi afasica” costituita da mugolii, spintoni, sghignazzi o da altre forme primitive e rozze di comunicazione. In questo senso, Pasolini può dire che la “civiltà dei consumi” è riuscita a portare a compimento la tragica impresa intrapresa ma non portata a termine dal fascismo:

 

“Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è tale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno oramai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè - come dicevo - i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane”.

 

Ora, tutti questi sforzi, sia dei teorici francofortesi e sia dello stesso Pasolini, hanno messo in luce i meccanismi che si innescano a livello di psicologia di massa, e che risultano essere determinanti per l’ascesa di vecchi e nuovi regimi totalitari. Ma, nello specifico di una realtà nazionale, è possibile individuare nettamente le responsabilità dirette in queste derive politico-sociali? La risposta è sì. Pasolini fu forse il primo, in questo paese, ad accusare un’intera classe  dirigente  di essere la causa primaria del genocidio culturale del quale abbiamo trattato, anche a prezzo di terribili spargimenti di sangue (fu anche il primo ad accusare la Democrazia Cristiana di essere la diretta prosecuzione del regime fascista in Italia). Il pezzo di Pasolini apparso il 14 novembre 1974 sul Corriere della sera inizia in questo modo: “IO SO. […] Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. […] Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”. Proprio in quanto intellettuale, Pasolini diceva di sapere tutto ciò e aggiungeva: “il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico.”. Il 28 agosto 1975 (due mesi prima della morte) viene pubblicato su “Il mondo” l’articolo dal titolo “Bisognerebbe processare i gerarchi Dc”, in cui il nostro autore fa nomi e cognomi dei “fascisti” della Democrazia Cristiana:

 

“Andreotti, Fanfani, Rumor, e almeno una dozzina di altri potenti democristiani (compreso per correttezza qualche presidente della Repubblica) dovrebbero essere, come Nixon, trascinati sul banco degli imputati. […] E quivi accusati di una quantità sterminata di reati […]: indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione di denaro pubblico, intrallazzzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punire gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come suol dirsi, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono ‘selvaggio’ delle campagne, responsabilità dell’esplosione ‘selvaggia’ della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari, distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori”.

 

Questa acutissima radiografia dell’Italia che, dopo circa vent’anni conoscerà tangentopoli e il marciume dei partiti che a lungo furono protagonisti della scena politica (in primis, Democrazia Cristiana e Socialisti di Bettino Craxi), è, secondo alcune interpretazioni della sua tragica morte, costata molto cara al regista. Anche noi non abbiamo le prove, almeno per ora. Resta indubbio che le posizioni pasoliniane furono causa di pesanti minacce nei confronti dello scrittore da frange di estrema destra o da chi lo considerava un povero depravato omosessuale. Pasolini, anche senza minacce dirette alla sua persona, era sufficientemente intelligente e sensibile per avvertirlo. Il suo ultimo film “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, è un ennesimo atto d’accusa alla violenza della società capitalistica e alla falsa morale borghese che, senza pietà, impone il suo essere nella negazione dei diritti elementari della vita. Agli sciagurati “ospiti” della villa di Salò, vittime delle nefandezze di quattro “Signori” (simbolica rappresentazione dei quattro Poteri: nobiliare, ecclesiastico, giudiziario ed economico, autorità verso le quali l’umanità vive da sempre in uno stato di soggezione) viene imposto di nutrirsi dei propri ed altrui escrementi. Questa orripilante costrizione è però offerta su vassoi luccicanti e cucchiai d’argento, atroci specchi della società dei consumi. 

 





NOTE

[1] H. Marcuse, Cultura e società, Torino, 1969, p. 94.

[2] W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, Milano, Mondadori,  1974, p. 11, 12,17.

[3] M. Horkheimer, Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1967, p. 11, 17, 21.

[4] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Torino, Einaudi, 1991, p. 265.




INDIETRO