Peregrino Proteo

 

Di Peregrino (detto Proteo per sua stessa volontà) siamo informati con ampiezza, così come di Demonatte, solo da Luciano, ma con una narrazione di segno opposto.

Luciano tesse di Demonatte un vero panegirico con l’espresso intento di additarlo come esempio, mentre contro Peregrino scrive un libello, con l’espresso intento di esporlo al pubblico ludibrio. Quanto Luciano ecceda nell’idealizzare il primo e nel vilipendere il secondo è difficile dire. Pare certo che quel poco che Gellio (Noct. Att., XII, 11) ci riferisce di Peregrino (da lui ascoltato ad Atene) sembra di ben altro tenore. Peregrino presenta la più impensabile fusione di religiosità, o meglio di misticismo, e di radicalismo anarchico tipicamente cinico, unito ad una buona dose di spirito di avventura. Caduto in sospetto di parricidio, dovette lasciare la città natale e si recò in Palestina. Luciano dice che Peregrino aveva strangolato il padre "non volendo farlo andare oltre i sessant’anni" e che il suo allontanamento dalla patria fu un’autocondanna all’esilio.

In Palestina egli si legò ai Cristiani, di cui sembrò condividere le dottrine, e anzi scrisse "molti libri" su queste dottrine. Per essere stato uno dei personaggi più in vista dei Cristiani – o comunque considerato tale – fu gettato in carcere, la qualcosa gli procurò grande fama e autorità presso i Cristiani. Luciano non crede assolutamente che Peregrino aderisse in buona fede alla religione cristiana e scrive testualmente:

Così Peregrino, sotto il pretesto del carcere, ebbe da loro molte ricchezze, e si fece non piccola provvisionc per l’avvenire. Poiché credono questi sciagurati [scil: i Cristiani] che essi saranno immortali e vivranno nell’eternità; e perciò sprezzano la morte, e volentieri le vanno incontro. E poi il loro primo legislatore li persuade che sono tutti fratelli tra loro: e come si sono convertiti, rinnegano gli Dei dei Greci, adorano quel sapiente crocifisso, e vivono secondo le sue leggi. Per la qual cosa disprezzano tutti i beni ugualmente, e li credono comuni, e non se ne curano quando li hanno. Perciò se tra loro sorgesse un accorto impostore che sapesse ben maneggiarli, tosto diventerebbe ricco, canzonando questa gente credula e sciocca. (Della morte di Peregrino, 13)

Liberato dal proconsole, Peregrino tornò in patria, dove, dice sempre Luciano, per evitare un processo, essendo ancora vivi gli sdegni per la morte dei padre a lui imputata, lasciò al popolo le sostanze rimastegli. E, poiché si presentò all’adunanza col tipico acconciamento cinico – lunga chioma, mantello sbrindellato, bisaccia sulle spalle e bastone in mano –, il popolo lo salutò come vero filosofo seguace di Diogene e di Cratete. Egli tornò allora a vagare, ricevendo ancora l’appoggio dei Cristiani, che, però, dopo qualche tempo, lo abbandonarono. Luciano vuol fare credere che la causa della rottura sia stata l’aver mangiato "qualche cibo vietato", ma dal modo in cui lo dice dimostra di essere proprio lui il primo a non crederci. Dopo aver cercato invano di riavere le sostanze lasciate al popolo, Peregrino si recò in Egitto, presso il Cinico Agatobulo, per addottorarsi – dice Luciano con ironia – nella dottrina che insegna a masturbarsi in pubblico sostenendo che è "cosa indifferente" (è questa una tipica manifestazione dell’"anaideia" cinica). Fu quindi in Italia, donde fu cacciato – dice Luciano –, perché si sbracciò a dire male di tutti, approfittando astutamente dell’indulgenza dell’imperatore; i suoi seguaci dissero, invece, che fu cacciato per il suo parlare franco e ardito, proprio dei Cinici. Tornato in Grecia – dice sempre Luciano – continuò ad esercitare la sua malalingua, fino a che, venuto in dispregio a tutti, decise di darsi la morte volontaria sul rogo in occasione dei giochi olimpici, desideroso di far parlare di sé a tutti i costi e di guadagnarsi fama presso i posteri. Peregrino e i suoi seguaci addussero, naturalmente, ben altre motivazioni: la morte sul rogo doveva servire al bene degli uomini, cioè per insegnare loro a disprezzare la morte e a sopportare i tormenti. Per la verità, sappiamo che il modello che Peregrino intendeva imitare era, oltre quello di Ercole, quello dei saggi indiani, nel cui modo di pensare e di vivere già il Cinico Onesicrito – che aveva partecipato alla spedizione di Alessandro in Oriente – aveva ravvisato strette analogie con quello dei Cinici. Riferisce sempre Luciano, il quale poté assistere di persona al rogo, che queste furono le precise parole di Peregrino:

Egli diceva che ad una vita d’oro voleva mettere una corona d’oro: esser vissuto come Ercole, voler morire come Ercole, e "vanire nell’aere". "Voglio" diceva "fare un gran bene agli uomini, mostrando loro come si deve sprezzare la morte". (Della morte di Peregrino, 33)

In conclusione, Peregrino Proteo fu certamente qualcosa di più di quell’avventuriero, sia pure di alta classe, che ci dipinge Luciano. Lo provano i numerosi seguaci che egli ebbe, sia, in un primo momento, fra i Cristiani, sia, successivamente, quando abbracciò il cinismo, fra i Pagani, e la testimonianza di Gellio lo riconferma in modo netto. Gellio dice (Noct. Att., XII, 11) espressamente dì avere visto e conosciuto di persona Peregrino "virum gravem et constantem", allorché soggiornò ad Atene, di averlo trovato "in quodam tugurio extra urbem", di avergli fatto molte visite e di averlo udito parlare intorno a molte cose "utiliter et honeste". Purtroppo Gellio riferisce un solo punto della dottrina di Proteo, ma degno di considerazione, e cioè che il saggio non deve peccare, nemmeno se il suo peccato potesse restare a tutti sconosciuto, sia agli Dei sia agli uomini, giacché non bisogna astenersi dal commettere colpe per timore di punizioni o di infamia, ma per amore del bene in quanto tale. Peregrino Proteo rappresenta un momento di incontro del Cinismo, oltre che con la componente orientale con il misticismo che andava vieppiù diffondendosi.


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