LA CONCEZIONE DELL’ANIMA IMMORTALE ED ETERNA NEL FEDRO DI PLATONE

di Antonietta Pistone

 

 

         I discorsi sulla religione hanno sempre contemplato riflessioni più o meno profonde sull’idea del divino e dell’anima. Platone, nel Fedro, una delle sue ultime opere scritte prima delle Leggi con il Simposio e il Fedone, affronta il problema del sentire spirituale e dell’eros, imprescindibili elementi di congiunzione tra l’umano e l’ultrasensibile, entro una concezione immortale ed eterna dell’anima stessa. Il Fedro, conosciuto come uno dei dialoghi sull’amore, in realtà affronta il problema della conoscenza, della scrittura e dell’arte, attraverso il mito della biga alata, quello di Theuth e delle cicale. Per la natura particolare dell’amore platonico, l’opera si occupa prevalentemente delle realtà dello spirito e del divino, strettamente connesse al sentimento erotico. Anche l’ambientazione del Fedro si presenta differente da quella di tutti gli altri dialoghi, sempre svolti entro le mura della città di Atene, ad eccezione delle Leggi, che hanno come loro teatro naturale lo scenario dell’isola di Creta. Il dialogo in questione vede Socrate allontanarsi fuori della città, verso l’abitato campestre, e isolarsi con il suo interlocutore, Fedro appunto, per poter speculare nel silenzio e nel mistero della natura su argomenti che meritano una riflessione accorta, perché fondamentali per indicare un senso e una direzione alla vita dell’uomo. L’atmosfera insolita sottolinea la ricerca del rapporto con dio, per essere pieni di lui, invasati della presenza spirituale del divino, condizione che in greco viene indicata con la parola enthousiasmòs. Solo il recupero del divino, difatti, può indirizzare la vita dell’uomo, che non si può sottrarre al valore dell’interiorità. Donde la conseguente nobilitazione dell’eros «battistrada verso le idee»[1]. È come se ci si mettesse in ascolto, in attesa della rivelazione, perché lo spirito possa poi parlare alla coscienza e dettare parole che sono espressione immediata della inequivocabile sua potenza. Così Socrate si apre al messaggio di dio, per poterlo poi successivamente enunciare a sua volta al compagno di verità. Nel Fedro Platone esprime la concezione tripartita dell’anima già chiaramente configurata nella Repubblica[2], in cui si era parlato delle tre facoltà dello spirito umano. L’anima razionale, irascibile e concupiscibile, è qui raffigurata come un carro alato, la biga, guidato dal suo auriga, che ha l’ingrato compito di tenere a bada due cavalli, uno bianco ed uno nero, espressione delle passioni intellettuali e sensibili, che hanno la capacità di trascinare il carro ora troppo in alto, verso il cielo, ora troppo in basso, facendolo precipitare sulla terra. Compito dell’auriga è tenere in equilibrio i due cavalli, e le passioni dell’anima, perché la biga possa procedere dritta, e senza scossoni, sempre in avanti. L’esposizione del concetto di eternità dell’anima, unitamente a quello della sua immortalità, narrato nel mito della biga alata, fornisce un sicuro sostegno alla dottrina dell’anamnesi, che si pone a fondamento dell’innatismo pedagogico di Platone. Di modo che, l’immortalità dell’anima e la reminiscenza finiscono per giustificarsi a vicenda, provando come sia impossibile distinguere la religiosità platonica dalla sua filosofia dell’educazione. La concezione tripartita dell’anima ha una ricaduta non meno rilevante per la teoria dello stato giusto, espressa nella Repubblica[3] attraverso il mito dei figli della terra. Qui addirittura le tre anime diventano simbolo delle tre classi sociali riconosciute in quella dei filosofi, la classe aurea che esprime la guida formativa e politica razionale; dei guerrieri, la classe d’argento che rappresenta la virtù del coraggio; e dei produttori, la classe di bronzo, espressione della temperanza tra le passioni. La spiritualità immortale ed eterna che Platone riconosce all’uomo, diventa così inevitabilmente condizione della concezione pedagogica ed educativa, ed al contempo manifestazione certa della ideologia politica dello stato. Non è un caso che Popper[4] consideri questa visione come fortemente condizionata da elementi di totalitarismo, successivamente ripresi dall’idealismo dello stato etico di Hegel[5]. Così nel Fedro l’anima, già nella sua consistenza prenatale, vive autonomamente la congiuntura, per la quale può successivamente riempirsi di oblìo e malvagità ed esautorarsi, condizioni che determinano la sua caduta nei corpi materiali e sensibili. La discesa dell’anima nel decadere non è conseguente alla sua incarnazione o reincarnazione, ma ne è l’esatta condizione, in quanto è proprio la guida disordinata dell’auriga, incapace di condurre sulla retta via la biga alata, a determinare il presupposto dell’appesantirsi progressivo del carro, che finisce per discendere nelle realtà corporee materiali. Donde la necessità di condurre una vita morigerata, che riesca a completare il ciclo della purificazione dell’anima, fino a poterle garantire successivamente una reincarnazione più degna, in un  eterno succedersi di cadute e di rigenerazioni dello spirito. Perché al di sopra dell’intelletto, che figura come l’attività superiore dell’anima, vi è sempre il mondo Iperuranio delle Idee, al vertice del quale si colloca in posizione preminente l’idea di dio, che coincide con quella del Bene assoluto ed eterno. Nel concetto di trasmigrazione delle anime, Platone si distingue dal cristianesimo che, pur ritenendo l’anima immortale, non accetta la reincarnazione, poiché essa rappresenta chiaramente l’individualità del soggetto persona che la possiede. Per i cattolici, affermare l’immortalità dell’anima significa concepire una vita eterna che vada oltre quella del corpo. Vita necessaria per la santificazione dello spirito, che risulterebbe impossibile se l’anima morisse con l’uomo. Ad ogni modo, essendo anima e corpo una totalità olistica inseparabile nella persona umana, l’appartenenza dello spirito ad un solo uomo è condizione imprescindibile per la successiva resurrezione dei corpi, che si ricongiungeranno alle loro anime. Il cristianesimo puntualizza con forza l’unità dell’essere umano attraverso il tomismo e l’aristotelismo, che interpretano l’uomo come unità indissolubile di corpo e anima, di materia e forma. Qui è la differenza profonda con il dualismo platonico. La cui ripresa nella filosofia della res cogitans e della res extensa di Cartesio, che separa nettamente la materia dallo spirito, costringe poi il filosofo razionalista ad ipotizzare l’esistenza della ghiandola pineale, situata nel cervello, per poter in qualche modo consentire l’interazione tra l’anima ed il corpo. Unità che resta sospesa e incompleta quando si parli del suo dualismo metafisico, incontrovertibile espressione di quello platonico, ben narrato nel mito della caverna[6]. Ciò accade evidentemente perché Platone considera mortale il corpo, ed immortale solo l’anima. Separando la materia sensibile, che degenera, da quella spirituale, che invece vive in eterno. Laddove la concezione cattolica propende per una immortalità dell’anima, cui fa seguito di necessità anche una resurrezione dei corpi, per ricostituire la primigenia unità cristiana delle nature, nell’idea di persona. In Platone, diversamente, il corpo resta una zavorra dell’anima, e la morte, secondo le suggestioni pitagoriche ed orfiche, viene ritenuta una liberazione dello spirito, che finalmente può librarsi leggero, senza il peso della materia che lo incatena, impedendogli di conoscere il vero. «Fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato quello che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità. Infatti, il corpo ci procura innumerevoli preoccupazioni per la necessità del nutrimento; e poi, le malattie, quando ci piombano addosso, ci impediscono la ricerca dell’essere. Inoltre, esso ci riempie, di amori, di passioni, di paure, di fantasmi di ogni genere e di molte vanità, di guisa che, come suol dirsi, veramente, per colpa sua, non ci è neppure possibile pensare in modo sicuro alcuna cosa […] se mai vogliamo vedere qualcosa nella sua purezza, dobbiamo staccarci dal corpo e guardare con la sola anima le cose in se medesime»[7]. Anche la conoscenza certa ha sede nello spirito, e origina dalle idee innate, attraverso il ricordo, la reminiscenza, perché quella sensibile è fallace ed apparente, ed induce in errore. Infatti, l’anima è simile alle idee, ed ha la loro stessa natura spirituale. Ulteriore testimonianza della fede platonica nell’immortalità dell’anima si può rinvenire nel mito di Er[8], guerriero morto in battaglia, e successivamente ritornato alla vita, che racconta di come la sua anima si fosse staccata dal corpo a raggiungere le realtà celesti dell’Iperuranio, per poi successivamente ricongiungersi a lui, e consentirgli di tornare a vivere. La vera vita dell’uomo dipende dunque dallo spirito, che anima il corpo, vuota effigie e simulacro. «L’anima tutta è immortale. È immortale, infatti, tutto ciò che si muove sempre; mentre ciò che muove altro e da altro è mosso, come ha la cessazione del moto, ha anche la cessazione della vita. Solo ciò che dà a se stesso il proprio moto, in quanto non viene meno a se stesso, non cessa mai di muoversi, anzi è sorgente e principio di movimento per tutte quante le altre cose che si muovono. Ora, principio è ciò che non è generato da altro: di necessità, tutto ciò che ha nascimento nasce da principio, esso invece da nulla; e se il principio nascesse da qualcosa, non potrebbe più stare come principio. Poiché, dunque, è ingenerato, esso è anche, necessariamente, indistruttibile, giacché, una volta finito il principio, né esso potrebbe nascere mai da alcuna cosa né altro da quello, dal momento che bisogna che dal principio nascano tutte le cose. Così, appunto, è principio di moto ciò che muove se stesso; questo poi non è possibile che finisca né che nasca, altrimenti tutto il cielo e tutto il creato cadendo insieme dovrebbero fermarsi e mai più avrebbero di nuovo donde essere mossi e nascere. Apparso chiaro che è immortale ciò che si muove da sé, non si avrà tema di affermare che questa, in termini razionali, è l’essenza dell’anima. Ogni corpo, a cui il moto è prorogato dall’esterno, è inanimato; quello invece a cui viene dall’interno di se stesso è animato: ed è questa la proprietà naturale dell’anima. E se le cose stanno in questi termini, che nient’altro si muove da sé se non l’anima, l’anima sarà necessariamente qualcosa di ingenerato e di immortale»[9]. Con queste parole Socrate dimostra al suo interlocutore Fedro l’immortalità dell’anima, continuando con il mito della biga alata. «Si può assomigliare l’anima ad una pariglia alata ed al suo auriga, insieme uniti da congenita potenza. Ora, i cavalli e gli aurighi delle anime divine sono tutti buoni essi stessi e da buoni hanno avuto nascimento; quelli degli altri sono misti. E così, il nostro auriga guida una coppia di cavalli, di cui l’uno è eccellente e originato da genitori pur essi eccellenti, l’altro è l’opposto e nato da genitori simili a lui; onde è cosa necessariamente difficile e malagevole fare l’auriga a noi […] Quanto alle anime, c’è quella che, seguendo quanto più vicino possibile gli dei, solleva nella regione sovraceleste il capo dell’auriga e si lascia trasportare nel moto circolare, ma, disturbata dai cavalli, a stento riesce a contemplare gli enti; e c’è quella che ora s’innalza ora s’immerge e, per la riluttanza dei cavalli, alcune cose vede, altre no»[10]. Dunque, l’immortalità dell’anima è in sé dimostrata, essendo l’anima per sua stessa essenza fonte di movimento e di vita. E ciò che si muove da sé, senza presupporre di essere mosso da qualunque altra realtà e natura, è essenza e vita, e perciò realtà immortale ed eterna. Pare di risentire l’eco dei discorsi di Socrate a Cebete nel Fedone quando, condannato a morte, andava sereno incontro alla sorte, e consolava gli amici disperati, dicendo loro che la parte sua più nobile gli sarebbe sopravvissuta, perché essendo l’anima vita per sua stessa essenza, questa non sarebbe mai giunta a dover morire.



[1] Cfr. W. Buchwald, Platone, Fedro, pag. 166.

[2] Cfr. Platone, La Repubblica IV.

[3] Ivi III

[4] Cfr. Popper, La società aperta e i suoi nemici, 1945.

[5] Cfr. Hegel, La fenomenologia dello spirito, 1807.

[6] In Platone, La Repubblica VII.

[7] Cfr. Platone, Il Fedone.

[8] Platone, La Repubblica X.

[9] Cfr. Platone, Il Fedro XXIV.

[10] Ivi XXV, XXVIII



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