POLEMONE

 

A cura di Marco Machiorletti

 

 

 

Dopo la morte di Senocrate (314 a.C.), nel mezzo secolo che seguì, l’Accademia fu dominata da tre pensatori che contribuirono a produrre una mutazione nel clima culturale tale da rendere l’antica Scuola di Platone ormai in sintonia con le tendenze filosofiche delle Scuole ellenistiche. Questi furono: Polemone, che fu a lungo capo dell’Accademia (verosimilmente fino al 276-275 a.C.), Cratete di Atene, che succedette al maestro Polemone per un brevissimo periodo, e Crantore di Soli, discepolo di Senocrate e compagno di scuola di Polemone (non ebbe però lo scolarcato dell’Accademia).

Polemone, nato da un’agiata famiglia ateniese, dopo aver trascorso una dissoluta giovinezza tra sregolatezze di ogni genere, fu convertito alla filosofia da Senocrate un giorno in cui lo sentì parlare della moderazione. Da allora la filosofia lo trasformò completamente, facendogli acquisire una compostezza di modi e una costanza morale tali che lo resero famoso.

Diogene Laerzio ci riporta questo aneddoto:

 

“Quando un cane rabbioso gli sbranò un poplite, egli non impallidì neppure; diffusasi la notizia del fatto, in città scoppiò un tumulto, ma Polemone rimase impassibile”. (D.L., Vite dei filosofi, IV, 17)

 

L’episodio è emblematico, perché dice nella maniera più eloquente come, ormai, anche nell’Accademia la filosofia fosse diventata pratica di vita, proprio in quelle dimensioni che nelle nuove Scuole ellenistiche andavano affermandosi.

Non solo nella pratica di vita, ma anche nelle affermazioni dottrinarie Polemone è in sintonia con il nuovo spirito:

 

“Polemone soleva dire che bisogna esercitarsi nei fatti concreti della vita e non nelle speculazioni dialettiche, per evitare di essere come uno che abbia imparato a memoria un manuale di armonia musicale e non sappia esercitarla, e quindi per evitare di riscuotere ammirazione per l’abilità dialettica e di essere incoerenti con se stessi nel disporre della propria vita”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IV, 18)

 

A ben vedere, questo significava – in una certa misura – l’abbandono di Platone.

Delle tre parti della filosofia distinte da Senocrate (fisica, dialettica ed etica) l’ultima interessa a Polemone in modo preminente e determinante. E il parametro della vita morale, Polemone, come già Speusippo e Senocrate, lo indicò nella physis, nella natura, nella «vita secondo natura». Egli dedicò all’argomento un libro che doveva sviluppare quella concezione assunta ormai come base dell’etica da tutte le Scuole ellenistiche.

«Secondo natura», sono beni – come da Speusippo in poi l’Accademia sostenne – sia quelli dello spirito, e cioè la virtù, sia, in subordine, anche quelli del corpo.

La felicità si può raggiungere con la sola virtù, ma per la perfetta felicità occorrono anche i beni inferiori.

Non dissimile dovette essere la posizione dell’ultimo scolarca dell’antica Accademia, Cratete di Atene, che con Polemone ebbe legami assai stretti:

 

“In vita non solo ebbero i medesimi interessi e la medesima attività, ma anche fino all’ultimo respiro divennero sempre più simili l’uno all’altro, e morti ebbero comune la tomba”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IV, 21)

 

 

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