Il pregiudizio nella filosofia di Spinoza

di Alessandro Sangalli

 

 

 

Prima di iniziare un’analisi delle differenti forme e dimensioni che il pregiudizio assume nella critica spinoziana, crediamo sia necessaria una breve premessa di carattere terminologico.

Le parole “pregiudizio” e “superstizione” sono usate da Spinoza con accezioni diverse, per quanto ovviamente mai contrastanti. Nel senso più ampio e generico, come termini privi di un riferimento preciso, esse stanno ad indicare «sia un atteggiamento di ottusità, prevenzione e indisponibilità ad accogliere il vero […], sia il condizionamento che la quotidiana esperienza sensibile esercita sulle menti umane ostacolando il puro ragionamento»[1], in una prospettiva che ricorda molto da vicino quella dei testi cartesiani. Se, invece, vogliamo intendere praejudicium in un senso più specifico e ristretto, ci troviamo di fronte ad una vasta gamma di riferimenti: Spinoza usa infatti lo stesso termine per indicare l’illusione del libero arbitrio umano; la causalità finale attribuita a Dio o alla natura; i concetti morali di bene e male, merito e peccato, premio e punizione; i concetti estetici di bello e brutto, perfezione e imperfezione, ordine e confusione; i concetti elaborati dai teologi; i miracoli come opere divine che esulano dall’ordine naturale. Se, infine, concentriamo il nostro interesse esclusivamente sulle varie occorrenze di superstitio, notiamo che il vocabolo è solitamente usato in testi di carattere religioso e teologico, in contesti critico-polemici atti ad evidenziare da una parte le cause psicologiche e dall’altra gli effetti negativi – soprattutto nella sfera politica e sociale – di tale inclinazione intellettuale.

Lo scopo di questa breve premessa vuol essere quello di mostrare come, da un elenco apparentemente frammentario, si possa ricavare una sorta di ordine gerarchico[2] secondo cui disporre tutti quei pregiudizi che secondo Spinoza ostacolano la vera comprensione delle cose. Conseguenze di quell’autoinganno costituito dalla convinzione di agire per libera volontà, essi sono difatti sottoposti a critica razionale alla luce di una necessaria concatenazione causale che, gradino dopo gradino, allarga il campo d’indagine e l’area d’influenza del pregiudizio stesso (dalla sfera individuale si passa difatti a quella religiosa, quindi sociale e politica). Un ordine dal quale, per quanto possibile[3], cercheremo di non discostarci troppo nel corso dell’analisi che seguirà.


I

La dimensione umana del pregiudizio: il finalismo

Come abbiamo accennato poco sopra, la causa prima di tutte le false credenze che occupano la mente umana è rappresentata da un unico pregiudizio, “il pregiudizio dei pregiudizi”, ovvero l’illusione del libero arbitrio umano. Nell’Appendice alla Prima Parte dell’Ethica Spinoza dichiara senza mezzi termini che:

 

E poiché tutti i pregiudizi che qui prendo a indicare dipendono da questo unico, che gli uomini suppongono comunemente che tutte le cose naturali, come essi stessi, agiscano in vista di un fine […] considererò innanzitutto quest’unico pregiudizio[4].

 

L’errore principale dell’uomo è dunque quello di credere di “agire in vista di un fine”, un pregiudizio che il filosofo – lungi dal deridere o compiangere[5] – analizza come suo solito in modo scientifico e impersonale, esplicitandone la genealogia e dimostrandone la falsità. Nella concezione spinoziana, che ha come capisaldi da una parte il principio causa sui, eterno ed infinito rappresentato dalla Sostanza e dall’altra la rigida necessità degli effetti causalmente concatenati che da essa dipendono, non c’è spazio per una volontà libera, per un liberum arbitrium indifferentiae inteso come pura creazione e rottura radicale, senza cause che lo determinino (e perciò lo limitino)[6]. La confutazione che Spinoza riserva al libero arbitrio si basa sulla constatazione che «tutti gli uomini nascono ignari delle cause delle cose e tutti hanno appetito di cercare il proprio utile, della qual cosa sono consapevoli»[7]. In altre parole, gli uomini si credono liberi in quanto sanno cosa vogliono, pur non sapendo perché vogliono; la libertà umana riposa quindi sull’ignoranza delle cause che determinano la volontà, non sulla loro assenza. Il pregiudizio volontaristico nasce – cartesianamente – nell’infanzia, quando una ragione incompleta e non pienamente sviluppata permette all’uomo di volere, di appetire, ma non di pensare razionalmente e di indagare le cause dei propri desideri. L’uomo si abitua perciò a ragionare alla rovescia: non conoscendo ciò che cronologicamente sta prima (le cause), si concentra su ciò che viene dopo (lo scopo), e da questo pensa di essere mosso; così, invece di porre mente alle cause efficienti che determinano una loro azione, spesso gli uomini le tralasciano totalmente e considerano quindi il fine che appetiscono come la causa primaria di ciò che fanno. Come recita un noto passo dell’ Ep. LVIII a Georg Hermann Schuller:

 

Questa è quell’umana libertà che tutti si vantano di avere […]. Così il bambino crede di volere liberamente il latte; il fanciullo irato di volere la vendetta e il timido la fuga. L’ubriaco crede di dire per libera decisione della mente quelle cose che poi, da sobrio, vorrebbe aver taciuto. Così, colui che delira, il ciarlatano e molti di questa razza credono di agire per libero decreto della mente, non di essere trasportati dall’impulso. E poiché questo pregiudizio è innato in tutti gli uomini, non si liberano di esso tanto facilmente[8].

 

Ovviamente, bersaglio della polemica spinoziana sono “gli uomini” nella loro totalità, quando s’ingannano pensando di essere liberi, ma, nel dettaglio, non si può fare a meno di notare l’obiettivo principe della critica antifinalista, il nemico per eccellenza delle argomentazioni degli scoli e delle prefazioni: Cartesio, «il celeberrimo Cartesio», autore che condivide con pochi altri il privilegio di essere esplicitamente citato nel capolavoro spinoziano[9]. In particolare, leggendo due paragrafi dei Principia philosophiae possiamo facilmente trovare tutto ciò contro cui Spinoza si scaglia, e cioè:

 

Che la maggior perfezione dell’uomo è d’avere un libero arbitrio […] La volontà essendo di sua natura estesissima, per noi è un vantaggio grandissimo di potere agire per suo mezzo, cioè liberamente.

 

Che la libertà del nostro volere si conosce senza prova, per la sola esperienza che ne abbiamo[10].

 

Come hanno notato due interpreti del calibro di Wolfson e Moreau, l’illusione finalistica è strutturata su due livelli[11]: in superficie, consiste nel credere che le cose siano state create per noi, disposte da Dio per nostro esclusivo vantaggio; più in profondità ha le sue radici nell’autoinganno della libera volontà umana. Mentre la critica antifinalista (e antiaristotelica) di Cartesio, che se da un lato aveva escluso la considerazione delle cause finali nella filosofia naturale, dall’altro dava comunque per scontato il libero arbitrio individuale e divino, la critica spinoziana procede più in profondità e spazza via anche quest’ultimo pregiudizio. L’uomo spinoziano, in quanto parte della natura, è sottomesso come ogni altra cosa alla forza delle sue leggi. La necessità che governa fenomeni naturali come i fulmini e la pioggia è la stessa che regola gli affetti e le passioni umane, dal momento che l’uomo non esula dal sistema-natura, ma ne è parte integrante. Nella Prefazione alla Terza Parte dell’Ethica, Spinoza si lamenta del fatto che tra i filosofi che si sono occupati di argomenti etici e morali, i più hanno dato l’impressione di trattare di cose estranee alla natura, che turbino l’ordine naturale anziché seguirlo, e di concepire «l’uomo nella natura come un impero in un impero»[12]. In una visione che sostiene la completa libertà dell’arbitrio, infatti, un individuo che attua una libera scelta non determinata da altro, spezza la concatenazione necessaria dell’ordine naturale, poiché con la sua decisione pone in essere qualcosa che avrebbe anche potuto non essere, e che avrebbe perciò il carattere della contingenza. Concetti, questi, inaccettabili per Spinoza, poiché totalmente in contraddizione con i principi fondamentali del suo sistema filosofico. Ciononostante, la libertà non è definitivamente eliminata dalle pagine dell’Etica, anzi, paradossalmente ne costituisce il coronamento finale[13]. Una libertà intesa non come assenza di cause, ma come possibilità di agire autonomamente, ovvero secondo le leggi della propria natura; libertà non come potestas ad utrumque, ma come assenza di costrizioni esterne che impediscano di esplicare sé stessi secondo le proprie leggi interne. Spinoza mette in chiaro fin dall’inizio della sua opera quello che per lui è il vero significato di questo termine: nella Definizione VII della Prima Parte dell’Etica scrive che

 

Si dice libera quella cosa che esiste per sola necessità della sua natura e che è determinata ad agire soltanto da sé stessa; necessaria, o meglio coatta, la cosa che è determinata da altro a esistere e a operare in una certa e determinata maniera[14].

 

Come risulta chiaramente da questa formulazione, l’idea spinoziana di libertà comprende quella di necessità e non esclude nemmeno quella di determinazione, purché non sia da altri (non sia cioè coazione eteronoma). Libero è quell’uomo che non è determinato da altro a fare ciò che fa, ma lo fa poiché esplica la propria natura; in altre parole, la libertà spinoziana è un’autonomia nel senso etimologico del termine: governarsi da sé sulla base di leggi proprie. Un concetto che – come detto – non si oppone alla necessità, bensì alla coazione e alla costrizione, inserito in una visione dove la libertas è riconducibile ad una produzione regolata da leggi naturali, più che ad una creazione assolutamente imprevedibile. È la medesima nozione di libera necessitas che ritroviamo nella Lettera XXI a Willem van Blijenbergh: «Se ci è nota la natura di Dio, dalla nostra natura segue tanto necessariamente l’affermare che Dio esiste, quanto scaturisce dalla natura del triangolo che i suoi tre angoli sono uguali a due retti; ma non siamo mai tanto liberi come quando affermiamo una cosa in tal modo […] Compiamo liberamente una cosa e ne siamo causa, nonostante la compiamo necessariamente»[15]. È ovvio come in simili condizioni solo Dio possa essere detto veramente libero, dal momento che nulla esiste al di fuori di lui dal quale possa essere determinato o costretto e perciò soltanto Dio esiste ed agisce per la sola necessità della propria natura, mentre gli enti finiti godono di differenti gradi di libertà, a seconda del loro essere più o meno sottomessi all’azione di cause esterne. L’esempio umano della libertà è quello dell’uomo saggio, che non si lascia trascinare dalle passioni e che non agisce offuscato dai pregiudizi, ma vive secondo le leggi della propria natura razionale: è lui, per Spinoza, l’uomo libero, la cui caratteristica essenziale è l’autonomia dalle cause esterne[16]. Un simile individuo godrà di un grado di libertà maggiore rispetto all’ignarus, dominato dalla superstizione, schiavo delle passioni e impotente a tenere a freno gli affetti, non più padrone di sé stesso, ma sempre in balia delle cose che sono fuori di lui. In questo senso si può dire che la libertà spinoziana, dipendendo in ogni momento dalla presenza di vincoli, si esprime per gradi, a differenza di quella cartesiana che si esprime invece nella logica binaria di una concezione dualistica. Un maggior grado di conoscenza razionale determina quindi un maggior grado di libertà pratica, ovvero di autonomia di azione nei confronti delle cause esterne. La visione che interpreta la conoscenza come liberazione è efficacemente sintetizzata in queste righe di Isaiah Berlin:

 

È la libertà della realizzazione o del governo di sé – la realizzazione, per opera della persona stessa, dei veri scopi della sua natura (in qualsiasi modo questi scopi, e questa natura, siano definiti), vanificata dalle sue idee sbagliate intorno al mondo e al posto che in esso ha l’uomo. Se a ciò aggiungo il corollario che io sono razionale, cioè posso capire perché faccio quel che faccio (o almeno formarmi una credenza corretta in proposito) […] ne seguirà che la conoscenza dei fatti pertinenti (sul mondo esterno, sulle altre persone e sulla mia stessa natura) rimuoverà quegli impedimenti alle mie scelte che sono dovuti a ignoranza o illusione[17].

  

L’ignoranze e l’illusione di cui parla Berlin, non sono altro che i praejudicia di Spinoza, i quali scaturiscono in ultima analisi dall’autoinganno del libero arbitrio. Non riconoscere la vera natura della libertà ed abbandonarsi all’illusione volontaristica è ciò che abbiamo visto essere per Spinoza l’origine di ogni pregiudizio. In primo luogo, proprio perché gli uomini si illudono di agire in vista di uno scopo, sono soliti considerare ogni cosa come un mezzo per raggiungere il telos verso cui tendono e, di conseguenza, fanno dell’utilità delle cose naturali il criterio di giudizio dell’eccellenza e della perfezione. Solo in questo, e in nient’altro, consistono i giudizi estetici umani, dato che, considerate in sé, le cose non sono né belle né brutte, solamente sono, e – in quanto modi della Sostanza – la loro perfezione è il loro stesso essere prodotte, compiute, portate a termine. Gli uomini hanno preso l’abitudine di chiamare le cose naturali perfette o imperfette più per un pregiudizio che per una vera conoscenza di esse. Per via dell’antropocentrismo insito nella propria specie, l’essere umano si fa legge e misura di tutte le cose.

 

Dopo che gli uomini si sono persuasi che tutto ciò che avviene è fatto per loro, hanno dovuto giudicare in ogni cosa più importante quel che per loro era più utile e stimare eccellenti tutte le cose dalle quali venivano affetti nel modo migliore. Onde dovettero formare queste nozioni con le quali spiegare le nature delle cose: bene, male, ordine, confusione, caldo, freddo, bellezza e deformità[18].

 

In secondo luogo, credendo di essere assolutamente libero e padrone del proprio comportamento, l’uomo ha creato le nozioni etiche di bene e male, lode e vergogna, merito e peccato, la cui vacuità di senso è paragonabile a quella dei giudizi etici. Esse non significano nulla di per sé, in quanto non dicono nulla sulle cose in quanto tali, ma soltanto sul nostro modo di immaginarle, di pensarle.

In conclusione, è impossibile non notare come la denuncia della genesi umana, e non teologica o metafisica, dei concetti estetici ed etico-morali porti con sé un inevitabile relativismo, che però in nessun caso può sfociare in un atteggiamento di sfiducia nei confronti delle capacità umane. Tale relativizzazione è infatti da considerare alla luce di un professato antiscetticismo[19], come un’operazione che «non vuole giustificare qualunque comportamento, né esprimere lo smarrimento della ragione umana, piuttosto una profonda fiducia in essa e la tensione a renderla unico assoluto criterio del vero e del falso, del bene e del male»[20].


II

La dimensione religiosa del pregiudizio: la superstizione

Aspetto essenziale dell’epoca moderna, la critica religiosa trova nella filosofia spinoziana un posto tutt’altro che marginale, visto che parallelamente alla “emendazione dell’intelletto”, Spinoza porta infatti avanti anche l’emendazione di una religione che, ridotta ormai a credulitas et praejudicia, ha perso ogni reale significato.

Causa principale della degenerazione della religione è l’illusione degli uomini di essere liberi e di agire in vista di un fine, e anzi, poiché la mentalità finalistico-teleologica è il caposaldo della teologia tradizionale, in Spinoza la critica della religione e la polemica antifinalista possono essere viste come «due aspetti di una sola lotta ideologica che dall’Ethica va al Trattato Teologico-Politico e viceversa, senza soluzioni di continuità»[21]. Nell’Appendice alla Parte Prima dell’Etica, Spinoza si dedica a tratteggiare l’origine storica del pregiudizio religioso. Trovando nel mondo parecchi mezzi adatti al raggiungimento del proprio scopo, ma sapendo di non averli preparati essi stessi, gli uomini concludono che debba esistere qualcun altro che li abbia preparati a loro vantaggio. Ciò implica che esistono alcuni “rettori della natura” che all’inizio dei tempi hanno disposto ogni cosa in vista dell’uso che gli uomini avrebbero potuto farne; tuttavia, non conoscendo nulla di più circa la natura di questi “rettori”, gli uomini «dovettero giudicarla dalla propria»[22], forgiando perciò Dio a loro immagine e somiglianza. Un Dio antropomorfo, con sentimenti umani, che ha creato l’umanità allo scopo di ricevere da questa lode ed onori. A seconda delle differenti maniere con cui ciascun popolo è abituato a tributare a Dio le celebrazioni che gli spettano, ecco formarsi le diverse confessioni religiose:

 

Onde è avvenuto che tutti, a seconda della propria indole, abbiano escogitato diversi modi di adorare Dio, affinché Dio li amasse più degli altri e dirigesse tutta la natura a uso della loro cieca cupidità e insaziabile avidità. Così questo pregiudizio si è trasformato in superstizione e ha messo profonde radici nelle menti[23].

   

Analizzata la genealogia naturale della superstizione religiosa, Spinoza si dedica alla dimostrazione della sua falsità. Dal punto di vista del filosofo, è inaccettabile la nozione di un Dio che appetisce liberamente un fine, in quanto quest’idea costituisce una palese contraddizione in termini. Infatti la concezione finalistica su cui si regge una simile visione teologica, finisce per annullare la perfezione di quello che dovrebbe essere l’Essere Supremo e Perfetto: se infatti Dio agisce in vista di un fine, significa che è necessariamente privo di ciò che appetisce, manca di ciò che cerca[24]. Un Dio che cerca ciò che vuole è per forza di cose un Dio imperfetto, frutto di pregiudizio e superstizione.

Se nell’Etica il filosofo ricostruisce la genealogia del pregiudizio religioso con i toni neutri e impersonali dello scienziato, è nel Trattato Teologico-Politico che, con toni più duri e polemici, analizza le cause psicologiche della superstizione e denuncia gli effetti negativi dei culti religiosi ad essa legati. Prima di procedere oltre è bene sottolineare che il concetto di religio non ha in Spinoza un significato univoco, ma può assumerne diversi: nell’Etica la religione coincide con una condotta di vita razionale, fondata sulla conoscenza del Dio-Natura e improntata alla libertà dalle passioni e all’autonomia della ragione; nel Tractatus, invece, il filosofo distingue una vana religio degenerata in superstizione, ridotta a riti e pratiche esteriori, e una religione vera, razionale, universale e cattolica[25], comune a tutto il genere umano, fondata sull’amore di Dio e del prossimo. Questa distinzione è perfettamente chiarita nell’Ep. LXXIII a Heinrich Oldenburg: «Riconosco che tra religione e superstizione c’è una differenza essenziale: la seconda ha come fondamento l’ignoranza, la prima la sapienza»[26].

Ed è proprio l’ignoranza degli uomini uno degli argomenti più frequenti del discorso spinoziano. Spinoza scaglia spesso le sue critiche contro il vulgus, superstizioso, incostante e facilmente impressionato da ciò che non conosce. Nella definizione che ne ha dato Vincenzo Brunelli, «il volgo è contrassegnato essenzialmente dal suo conoscere inadeguato, cioè dalla condizione di “quasi incoscienza” nei confronti della realtà e dei suoi aspetti (Dio, mondo, sé stesso)»[27]. Il volgo, in altre parole, si trova in quella situazione che nel linguaggio spinoziano si dice di impotenza, di soggezione e sottomissione alle cause esterne, di pressoché totale determinazione ed eteronomia[28]. L’impotenza è strettamente legata alla conoscenza e alla sapienza: l’uomo più potente e più libero è difatti il saggio, il quale, avendo una chiara conoscenza delle cose singolari e perciò di Dio, si riconosce semplicemente come un modo transeunte della Sostanza, riuscendo così a tenere a freno gli affetti e a seguire la guida della sola ragione. Al contrario dell’ignarus, schiavo della potenza degli affetti, egli vive in perfetta autonomia.

Secondo Spinoza il volgo, per sua natura ignorante e schiavo delle passioni, vive perciò in uno stato di impotenza, sottomesso alla forza delle cose esterne, sempre in bilico tra la speranza e la paura e quindi costituzionalmente disposto alla superstizione. Nell’incipit del Trattato egli scrive:

 

Se gli uomini potessero dirigere con fermo proposito tutte le loro vicende, o se la fortuna fosse sempre benigna nei loro confronti, non sarebbero preda di alcuna superstizione. Ma spesso finiscono in situazioni così difficili da non poter formulare nessun piano d’azione e, di solito, per amore dei beni incerti della fortuna (che desiderano senza alcuna moderazione), oscillano (fluctuant) miseramente tra la speranza e il timore: così il loro animo è, quasi sempre, totalmente incline a credere qualunque cosa.[29]

 

A tutti è noto – continua il filosofo – che quando gli uomini si trovano in rebus prosperis si ritengono sapienti e rifiutano consigli e osservazioni di qualsiasi genere; al contrario, nelle momenti di difficoltà non sanno più a chi rivolgersi e supplicano consigli a chiunque, e non esiste suggerimento tanto assurdo o sciocco che non siano disposti a seguire. Spinoza individua quindi nello stato di continua fluttuazione fra paura e speranza la causa psicologica primaria della superstizione che attanaglia gli esseri umani[30]. Il volgo impotente, intimorito dall’instabilità della sorte, si rifugia in quelle credenze e in quei pregiudizi che possano fornirgli una certa sicurezza, e in primo luogo nella religione. Vanno sotto il nome di superstizioni religiose tutte quelle concezioni antropomorfe di Dio che si fa l’uomo schiavo delle proprie passioni e costretto all’impotenza dalle proprie insicurezze. Il superstizioso, poiché crede che Dio sia umanamente ambizioso, è convinto che tributandogli sommi onori possa riparare eventuali offese e assicurasi il suo favore e la sua benevolenza. La degenerazione della vera religione in vana religio è dovuta dunque ad un insieme di cause psicologiche naturali (fluctuatio animi) e di pregiudizi di carattere etico e teologico (il finalismo, la libertà umana, l’antropomorfismo). È, in definitiva, un complesso di difetti eminentemente umani e naturali che ha ridotto la religione a un’accozzaglia di superstizioni:

 

[Gli uomini] quando si trovano in pericolo e sono incapaci aiutarsi da soli, tutti implorano con voti e lacrime da donna (lachrimis muliebribus) gli aiuti del cielo, e chiamano cieca la ragione […] e vano l’umano sapere; ritengono che siano invece manifestazioni del volere divino i deliri dell’immaginazione, i sogni e le insipienze puerili[31].

 

È interessante notare come, nonostante l’evidente influenza hobbesiana, la teoria dell’origine della religione acquisti nell’elaborazione di Spinoza una dimensione più ricca. Riassunta per sommi capi, l’analisi che Hobbes svolge nel Capitolo XII della Parte Prima del Leviatano attribuisce l’origine della religione a quei due “germi” psicologici rappresentati dalla paura e dall’ignoranza, uniti alla curiosità propria della specie umana: la paura di un futuro ignoto spinge l’uomo ad interrogarsi ansiosamente sulle cause che determinano la sua vita, e «quando l’uomo non può accertarsi delle vere cause delle cose (infatti le cause della buona e della cattiva fortuna sono per la maggior parte invisibili) le congettura»[32]. Le potenze religiose sono in realtà pure fantasie superstiziose degli uomini, che si formano queste credenze erronee per lo stato di perpetuo timore nel quale si trovano a vivere. L’analisi spinoziana è, come abbiamo visto poc’anzi, molto più articolata, dal momento che il filosofo olandese ci parla di una fluctuatio tra paura e speranza, ovvero tra due passioni irrazionali entrambe causate dall’ignoranza. Vivendo nel dubbio (fluttuazione epistemologica) sono continuamente agitato tra paura e speranza (fluttuazione emotiva): solo l’eliminazione del dubbio e una corretta conoscenza della realtà mi impediranno di cadere nella religione superstiziosa.    

Il volgo ignorante professa quindi una fede che è in realtà un completo rovesciamento della vera religione, un insieme di false credenze che Spinoza, in particolare nei primi sei capitoli del Tractatus Teologico-Politicus, si dedica minuziosamente a confutare. Sotto i colpi di un’analisi razionalista dai toni spesso polemici e a volte violenti, il filosofo attua un processo di demitizzazione e di ridimensionamento di alcuni diffusi pregiudizi religiosi, quali la nozione di profezia, i miracoli e il concetto stesso di sacro. In primo luogo, Spinoza ridimensiona totalmente il significato della profezia: nei Capitoli I e II, dopo alcune approfondite analisi dei passi biblici riguardanti più da vicino questo fenomeno, egli conclude senza esitazione che i profeti hanno colto le rivelazioni divine che vengono tramandate solo con l’ausilio dell’immaginazione, non dell’intelletto o della ragione, e perciò, data la natura vaga et inconstans della facoltà immaginativa, non si può attribuire nessuna certezza alla profezia, che è sicuramente un genere di conoscenza inferiore a quello matematico-scientifico. Riguardo a questioni di carattere speculativo, non abbiamo dunque il dovere di credere ai profeti, dal momento che essi sono solamente maestri di virtù e vita morale, e perciò «noi siamo tenuti a prestar fede ai profeti solo in ciò che è la sostanza e il fine della rivelazione; per il resto c’è libertà di credere come meglio piace ad ognuno»[33]. Di seguito, affrontando nel Capitolo VI la credenza nei miracoli, Spinoza parte dal punto di vista del volgo e scrive che l’uomo ignorante chiama miracoli gli eventi straordinari della natura, ritenendo di origine divina tutti quei fenomeni di cui non conosce le cause[34]. Secondo la superstizione volgare, il miracolo avviene allorché Dio, con un libero atto di volontà e di onnipotenza, decide di agire infrangendo l’ordine naturale delle cose, il che è per Spinoza una pura assurdità. Nella filosofia spinoziana, infatti, nulla può accadere in contrasto con le leggi naturali, necessarie ed immutabili conseguenze dell’essenza stessa di Dio, anzi, credere che un evento simile possa verificarsi significherebbe non ammettere più nulla di certo. Credere nei miracoli, anziché rafforzare la fede in Dio, condurrebbe inevitabilmente all’ateismo[35]. Per quanto riguarda il concetto di “sacro”, esso viene ricondotto dal filosofo alla sua natura convenzionale, secondo la quale un oggetto, un luogo o un edificio è sacrum solamente in virtù del fatto che tale è ritenuto da una comunità. Nel Capitolo XII possiamo leggere:

 

Si chiama sacro e divino ciò che è destinato all’esercizio della pietà e della religione. Esso sarà sacro soltanto finché gli uomini se ne avvarranno con pietà religiosa poiché, se cessano di essere pii, con ciò stesso ciò che prima era sacro cesserà di essere sacro[36].

 

L’intenzione di Spinoza è da un lato quella di mostrare come il termine “sacro” non descriva quella che è una proprietà essenziale o un attributo implicito dell’oggetto, ma ne designi semplicemente un uso, e dall’altro quella di ricondurre il culto religioso alle sue origini sociali e comunitarie, per nulla soprannaturali o divine.

In ultimo, possiamo notare come – una volta secolarizzata la nozione di sacralità – il Trattato non risparmi nemmeno la Sacra Scrittura, ma la sottoponga anzi ad un libero esame razionale al fine di stabilire nuovi e saldi principi per l’esegesi del testo (Capitoli VII-XI). La polemica contro la lettura biblica praticata dalla teologia tradizionale si trova nel capitolo settimo: i teologi, mossi in realtà più dalla vanagloria che dal desiderio di far emergere la verità dal testo sacro, si dilettano a distorcere in ogni modo il senso della Scrittura allo scopo di trovare conferme alle loro fantasiose dottrine e opinioni, inventandosi che in essa siano nascosti profondissimi e incomprensibili misteri. Per non correre il pericolo di accogliere ciecamente queste finzioni per insegnamenti divini, occorre stabilire un metodo formato da regole chiare e universalmente valide. Nasce così un nuovo metodo d’interpretazione della Bibbia, il cui principio fondamentale è l’interpretazione della Scrittura mediante la Scrittura stessa, in modo da non attribuire ad essa nulla che non risulti dalla storia del testo stesso. Spinoza è il primo a proporre e mettere in pratica un simile metodo, per certi versi rivoluzionario e scandaloso, dal momento che, ponendo il problema della storicità del testo biblico, ne rifiuta di fatto l’origine divina[37]. Conseguenza necessaria di questa tesi è la negazione del valore teoretico della Scrittura, che non può fornire alcun contributo per la ricerca della verità, ma – esattamente come le profezie che la compongono – ha solamente un valore pratico e morale. Il metodo inaugurato da Spinoza si fonda quindi sul presupposto di una netta separazione tra fede e ragione[38], aventi principi ed ambiti totalmente distinti: la fede (purificata dalla superstitio) si fonda sull’amore di Dio e del prossimo e conformandosi ai suoi precetti il volgo può regolare la sua condotta secondo virtù; la ragione si fonda sul lume naturale dell’intelletto e tramite le sue dimostrazioni matematico-geometriche il filosofo percorre la sua strada verso la verità. Essendo lo studio ermeneutico del testo biblico un’indagine di carattere storico-scientifico, il metodo spinoziano adotta a questo scopo gli strumenti della ragione, non quelli della fede.

Questo metodo, comprendente sia quella che oggi chiameremmo una critica storica sia una critica letterale, «non differisce dal metodo di interpretazione della natura, ma concorda del tutto con questo», fondato com’è su un’indagine critica spassionata e sistematica, dalla quale ricavare – ex certis dati et principiis – attraverso passaggi logici necessari, il pensiero degli autori. Il procedimento interpretativo prescriveva innanzitutto la conoscenza della lingua originale dei testi sacri (l’ebraico è necessario non solo per la comprensione dell’Antico Testamento, ma anche per quella del Nuovo Testamento, i cui libri sono spesso ricchi di ebraismi[39]); in secondo luogo raccomandava di documentarsi sulla “storia del testo”, sulla sua formazione, le sue diverse redazioni, quando fu inserito fra i testi sacri, per chi fu scritto e così via; infine, consigliava di informarsi sull’autore di ciascun libro, accertandone non solo l’identità, ma anche la vita, i costumi e persino le intenzioni che lo spinsero a scrivere.

Con le critiche alla superstizione religiosa che sviluppa nel Trattato, Spinoza sembra quasi voler fornire all’uomo delle arma rationis con cui egli possa difendersi dalla forza dei pregiudizi, in una prospettiva dove comprensione e conoscenza si configurano come veri e propri antidoti all’ignoranza e alla paura dell’ignoto, mali radicali tanto per la vita dell’individuo quanto per quella della comunità.



[1] C. Santinelli, Pregiudizio e superstizione, in Dio, l’uomo, la libertà: studi sul ‘Breve Trattato’ di Spinoza (a cura di F. Mignini), L’Aquila, Japadre 1990, p. 400.

[2] Mutuo quest’idea dal già citato articolo di Cristina Santinelli, pp. 398-399.

[3] Per ragioni di brevità, in questo intervento si è scelto di tralasciare un’analisi dell’ambito più specificatamente politico della questione, una discussione che avrebbe richiesto di addentrarsi in temi difficilmente trattabili in modo esauriente nello spazio di una decina di pagine. Per approfondire le tematiche relative alla comunicazione, all’intersoggettività e alla teoria politica nel suo complesso, rimandiamo ai lavori di Etienne Balibar, disponibili al lettore italiano in E. Balibar, Spinoza. Il transindividuale, Milano, Ghibli 2002.       

[4] Spinoza, Opere (a cura di F. Mignini), Milano, Mondadori 2007, p. 826. D’ora in poi citata con la sigla OP seguita dal numero della pagina. Per quanto riguarda l’Ethica ho tenuto conto anche dell’edizione curata da Emilia Giancotti per gli Editori Riuniti (Roma 1988; 1993), mentre per il Trattato Teologico-Politico ho trovato utile confrontare alcuni passi con l’edizione di Alessandro Dini per Bompiani (Milano 2001; 2004).

[5] Secondo la celebre affermazione spinoziana tratta dall’incipit del Tractatus Politicus (I, 4): «Ho curato attentamente di non deridere, né compiangere, né tanto meno detestare le azioni umane, ma di comprenderle» (OP, p. 1108).

[6] Il senso della libertà come potestas ad utrumque è ben chiarito da una critica che Schopenhauer riserva a questo concetto. Come sostiene il filosofo di Danzica, assunto un simile arbitrio, ne deriva immediatamente che «un individuo umano, in circostanze esteriori del tutto individuali e completamente determinate, possa, in virtù di questa libertà d’indifferenza, agire in due modi diametralmente opposti» (A. Schopenhauer, La libertà del volere umano, Milano, Mondadori 1998, p. 39).

[7] OP, p. 827.

[8] OP, p. 1484. Nell’indicazione delle Lettere, ho deciso di seguire l’ordine ormai canonico dell’edizione Gebhardt (1925), nonostante nell’edizione di Mignini si scelga di ripristinare il criterio seguito negli Opera Posthuma, privilegiando la continuità della discussione filosofica a scapito dell’ordine cronologico (per questo aspetto cfr. l’Introduzione all’Epistolario in OP, p. 1222-1223). Per quanto riguarda Schuller (1651-1679), qui basti dire che, esercitando la professione di medico ad Amsterdam, ebbe l’occasione di entrare in contatto prima con gli amici di Spinoza e poi direttamente col filosofo. 

[9] Privilegio che – a titolo di curiosità – tocca anche a Buridano, Cicerone, Euclide e Seneca.

[10] Cartesio, I principi della filosofia, in Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Roma-Bari, Laterza 2000, vol. III, pp. 40-41. Si tratta dei paragrafi 37 e 39 della Parte Prima. A onor del vero, Cartesio dimostra in qualche modo di avvicinarsi ad una diversa concezione di libertas quando in una lettera del 2 maggio 1644 scrive a Padre Mesland: «L’homme […] est d’autant plus indifferent, qui’l connoist moins de raisons qui le poussent a choisir un party plutost que l’autre». E ancora: «Ainsi, puisque vous ne mettez pas la liberté dans l’indifference precisement, mais dans une puissance reelle et positive de se determiner, il n’y a de difference entre nos opinions que pour le nom; car j’avoüe que cette puissance est en la volonté» (in Descartes, Oeuvres, AT, vol. IV, pp. 115-116). Una libertà che qui non è il semplice libre arbitre, ma è più simile a quella che sarà la libera necessitas spinoziana, espressione della potenza e della capacità di autodeterminarsi dell’individuo. L’ambiguità di Cartesio pare, in definitiva, difficilmente risolvibile, e anche un maestro come Piero Martinetti non può far altro che evidenziare l’aporia, ma non scioglierla (cfr. P. Martinetti, La libertà, Torino, Nino Aragno Editore 2004, pp. 195-197).  

[11] Cfr. H.A. Wolfson, The philosophy of Spinoza. Unfolding the latent processes of his reasoning, Cambridge MA, Harvard University Press 1962, vol. I, p. 425 e P.F. Moreau, Spinoza, la ragione pensante. Una guida alla lettura, Editori Riuniti, Roma 1998, p. 28.

[12] OP, p. 894.

[13] Cfr. il titolo della quinta e ultima parte dell’Etica: «Della potenza dell’intelletto, ossia dell’umana libertà».

[14] OP, p. 788. Corsivi miei.

[15] OP, p. 1369-1370. Van Blijenbergh (1632-1696), mercante di granaglie a Dordrecht, si interessava di filosofia e teologia. Di lui si conoscono, tra le altre opere, una confutazione del Trattato Teologico-Politico del 1674 (che Spinoza possedeva) e una dell’Etica del 1682.        

[16] È bene notare, come fa Emilia Giancotti, che «questa autonomia e indipendenza dell’uomo libero non toglie, tuttavia, il condizionamento ontologico al quale egli non può sottrarsi in quanto essere finito, ma la conoscenza razionale di cui è capace lo rende consapevole di questa sua condizione e, pertanto, meno soggetto alle passioni» (in Spinoza, Etica, Roma, Editori Riuniti 1993, p. 415, nota 66).

[17] I. Berlin, Da speranza e paura liberati, in Id., Libertà, Milano, Feltrinelli 2005, p. 259. Nonostante Berlin non si riferisca qui esplicitamente a Spinoza, il suo discorso è tuttavia dedicato a tutti quei pensatori che hanno sostenuto e professato l’ideale di conoscenza come liberazione (dai filosofi greci classici, attraverso la teologia cristiana, fino ai razionalisti moderni). 

[18] OP, p. 831. Nell’Ep. XXXII a Oldenburg, Spinoza così si esprime: «Soltanto in relazione alla nostra immaginazione le cose si possono dire belle o brutte, ordinate o confuse» (OP, p. 1290).

[19] Fedele alle sue radici cartesiane, Spinoza scredita apertamente gli scettici, che nei paragrafi 47 e 48 del Trattato sull’emendazione dell’intelletto definisce «automi, del tutto privi di mente», «totalmente accecati nell’animo o dalla nascita o a causa dei pregiudizi» (OP, p. 41).

[20] C. Santinelli, Op. cit., p. 411. Sulla questione più generale del rapporto tra spinozismo, concetti morali e responsabilità personale, cfr. S. Hampshire, Spinoza and the idea of freedom, in Id., Spinoza and Spinozism, Oxford, Clarendon Press 2005, pp. 175-199. 

[21] E. Giancotti, Op. cit., p. 361, nota 108.

[22] OP, 827. È la ripresa della critica classica all’antropomorfismo religioso; cfr. Senofane, fr. 15 DK: «Ma se i buoi <e i cavalli> e i leoni avessero le mani o potessero disegnare con le mani e compiere opere come quelle che gli uomini compiono, i cavalli simili ai cavalli, e i buoi simili ai buoi dipingerebbero figure di dèi e plasmerebbero corpi come quelli che hanno ciascuno di loro». Nella Lettera LVI Spinoza scrive: «Credo che anche il triangolo, se avesse la facoltà di parlare, direbbe ugualmente che Dio è triangolare» (OP, p. 1477). 

[23] OP, 828.

[24] Idea tradizionale nella storia della filosofia. Cfr. ad esempio Platone, Simposio 200a: «Considera ora, – disse Socrate – se, anziché verosimile, quanto segue non sia piuttosto necessario, che ciò che ha desiderio desideri quello di cui è mancante, e non lo desideri se non ne è mancante» (trad. it. di G. Colli per Adelphi, pp. 61-62).

[25] Cattolica non in quanto Romana, ma in quanto, etimologicamente, universale (dal gr. katholikós).

[26] OP, p. 1302. Heinrich Oldenburg (1618-1677), tedesco di Brema, si laureò in teologia in Inghilterra, a Oxford. Fin dal 1660, in qualità di segretario, si occupò delle relazioni internazionali della Royal Society.   

[27] V. Brunelli, Religione e dottrina del linguaggio in Spinoza, «Verifiche», 1977, pp. 756. È tuttavia importante notare come col termine vulgus non sia sempre possibile identificare la massa incolta che costituisce i ceti più bassi e popolari, ma comprenda anche «la significazione dispregiativa di coloro – non esclusi, anzi prevalentemente inclusi i dotti e gli eruditi – che conformano il proprio atteggiamento ad una cieca opposizione al libero sviluppo del conoscere» (C. Santinelli, Op. cit., p. 403).

[28] L’impotenza consiste «che l’uomo si lascia guidare dalle cose esterne che lo determinano a fare ciò che è richiesto dalla comune costituzione delle cose esterne e non ciò che è richiesto dalla sua stessa natura, considerata in sé sola» (Eth, IV; P XXXVII, Sc.; in OP, p. 1006).

[29] OP, p. 427.

[30] Per il concetto di fluctuatio animi cfr. Eth, III; P XVII e Sc. Senza entrare in un argomento che richiederebbe sicuramente di essere trattato con una diversa perizia, basti qui ricordare che Spinoza definisce la fluttuazione dell’animo come quella costituzione della Mente che nasce da due affetti contrari, come Amore e Odio, Gioia e Tristezza. La fluctuatio affonda le sue radici nell’inadeguatezza epistemologica che contraddistingue tutte le percezioni umane, e si configura in tutto e per tutto come un correlato emotivo del dubbio.

[31] OP, p. 428.  

[32] T. Hobbes, Leviatano, a cura di A. Pacchi, Roma-Bari, Laterza 1989, p. 86.

[33] OP, p. 474.

[34] Cfr. Ep. LXXV: «Ho posto i miracoli e l’ignoranza come equivalenti, perché chi tenta di fondare l’esistenza di Dio e la religione cristiana sui miracoli vuol dimostrare una cosa oscura attraverso una cosa ancora più oscura, di cui non si sa niente» (OP, p. 1306).

[35] TTP, Cap. VI: «Se dunque in natura accadesse qualcosa che non consegue dalle sue leggi, ciò ripugnerebbe necessariamente all’ordine naturale che Dio stabilì eternamente […] Noi dubiteremmo di ogni cosa e saremmo condotti all’ateismo» (OP, p. 530).

[36] OP, p. 624.

[37] Jean Lacroix scrive: «Cette attitude [il rifiuto spinoziano della dottrina tradizionale della rivelazione] implique, pour comprendre et l’Ancien et le Nouveau Testament, une méthode originale, que Spinoza définit comme l’interprétation de l’Ecriture par l’Ecriture […] Sa lecture ne veut pas être philosophique, mais scientifique […] Il inaugure une méthode historico-critique qui devait en renouveler l’étude» (in La salut par la foi selon Spinoza, «Giornale di metafisica», 1970, pp. 65-66).

[38] In particolare, Spinoza dedica alla questione i capitoli XIV e XV del Trattato. Nella definizione che ne ha dato Carla Gallicet Calvetti, la tesi spinoziana si può riassumere in un «ostracismo della fede dalla indagine del vero» (in I presupposti teoretici della tolleranza in Spinoza, «Rivista di filosofia neoscolastica», 1965, p. 625).

[39] Spinoza parla da profondo e competente conoscitore della lingua ebraica, competenza che è testimoniata sia dalle molte e sottili analisi testuali che troviamo nel Tractatus Theologico-Politicus sia dal Compendium grammatices linguae hebreae che ci ha lasciato (pur incompiuto).


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