Sintesi del Proslogion di Anselmo

Premessa storica

Vissuto tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo, Anselmo (1033-1109) sembra riunire nella sua persona, nelle sue vicende e nel suo pensiero tutti i fermenti e le componenti, spesso contraddittorie, della sua epoca contrassegnata da una intensa ripresa della vita materiale e culturale. In particolare nelle città crescono, insieme con la popolazione e il volume delle attività produttive, anche le esigenze di libertà e di una conoscenza più adeguata al rinnovato modo di pensare e percepire il mondo. Così tra le loro mura vengono aperte scuole per lo studio degli autori e la coltivazione dei nuovi interessi filosofici e scientifici, mentre le stesse questioni teologiche vengono affrontate e impostate con il sostegno di strumenti logici e metodologici più affinati. Anselmo come intellettuale è cresciuto ed è rimasto in gran parte integrato nella cultura monastica: infatti dopo gli studi nell'abbazia normanna di Bec, ne diviene in seguito abate per essere infine nominato arcivescovo di Canterbury. Eppure nelle sue opere avvertiamo la presenza di una sensibilità inconsueta, il gusto per la speculazione razionale che, se certo non è disgiunta da una componente di devozione, balza spesso in primo piano, sorretta com’è dal robusto impiego di un ricco apparato concettuale e linguistico.

Scritto nel 1077, il Proslogion, insieme con il Monologion, è una delle prime opere di Anselmo. Anzi già dalla stessa titolatura i due testi appaiono intrinsecamente abbinati: se quest’ultimo costituisce un "esempio di meditazione sulle ragioni della fede" (quindi un monologo interiore dell’anima con se stessa), il primo è "un discorso fatto all’esterno", un insegnamento offerto da lui, che è guida e maestro, ai suoi monaci perché si rafforzino nella fede attraverso la ricerca dell’intelligenza (fides quaerens intellectum). Da notare infine che Anselmo stesso volle che tutte le copie dell’opera fossero accompagnate dalle obiezioni di Gaunilone (l’abate di Martmontier che gli aveva inviato il Liber pro insipiente) e le sue risposte.

Esposizione

Il testo si apre con un Proemio in cui vengono ricordate le circostanze che hanno dato origine all’opera: la composizione del Monologion "costituito da una concatenazione di molti pensieri" e, quindi, l’insorgenza della necessità di trovare un unico argomento "che dimostrasse da solo, senza bisogno di nessun altro, che Dio esiste veramente e che è il sommo bene, che non ha bisogno di nulla e di cui tutto il resto ha bisogno per essere e per avere valore, e bastasse pure a dimostrare le altre verità che crediamo della sostanza divina.". Anselmo ricorda a questo proposito il suo lavorio interiore, le insistenze dei suoi confratelli e quelle dell’Arcivescovo di Lione fino all’intuizione improvvisa dell’argomento tanto cercato.

L’opera inizia con una esortazione all’uomo affinché lasci le sue preoccupazioni terrene per dedicarsi alla contemplazione di Dio, e una preghiera a Dio stesso affinché guidi la ricerca e illumini la mente dell’uomo la cui condizione versa in miseria in seguito al peccato originale. Ma poiché l’uomo è stato creato da e per conoscere Dio, il desiderio di Lui è inestinguibile in quanto costituisce la radice stessa del suo essere. Dunque la preghiera è la premessa indispensabile della ricerca poiché "non ti potrei neppure cercare se tu non me lo insegnassi, né potrei trovarti se tu non ti mostrassi". L’invocazione risulta pertanto chiara: "guardaci, Signore, esaudiscici, illuminaci, e mostraci te stesso. Donaci di nuovo te stesso affinché stiamo bene, poiché senza di te stiamo tanto male" fino alla richiesta conclusiva "insegnami a cercare, e mostrati a me che ti cerco". La ricerca di Anselmo si muove dunque lungo una linea programmatica ben tracciata: "non cerco infatti di capire per credere, ma credo per capire".

L’obiettivo del trattato è duplice: dimostrare che Dio esiste e che è "quello che crediamo". Quanto al primo punto la dimostrazione procede da una definizione offerta dalla fede stessa: Dio è quella cosa di cui nulla può pensarsi di più grande. Orbene, come dice il salmo, "lo stolto disse in cuor suo: Dio non esiste". Però lo stesso stolto mostra di intendere il senso della frase "qualcosa di cui nulla può pensarsi di più grande", evidenziando in tal modo che "ciò che intende è nel suo intelletto, anche se non intende che quella cosa esiste". Ammesso dunque che il piano della realtà e quello del pensiero siano distinti, anche lo stolto però deve convincersi che vi è almeno nell’intelletto una cosa corrispondente alla definizione data, "poiché egli intende questa frase quando la ode, e tutto ciò che si intende è nell’intelletto". Ma ciò di cui non si può pensare nulla di più grande non può esistere solo nell’intelletto, perché in tal caso dovremmo considerare che sarebbe maggiore quella cosa che non solo è nell’intelletto ma anche nella realtà. Ci troveremmo così di fronte alla contraddizione di concludere che "ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore". Pertanto "esiste senza dubbio qualche cosa di cui non si può pensare il maggiore e nell’intelletto e nella realtà". Precisando ulteriormente quanto affermato (e secondo molti con un argomento distinto da quello formulato fino a questo punto), possiamo aggiungere che se si concorda che ciò che può essere pensato non esistente è minore di ciò che non può essere pensato non esistente, allora "ciò di cui non si può pensare il maggiore" non può essere pensato non esistente, perché in tal modo non sarebbe "ciò di cui non si può pensare il maggiore". Pensarlo in modo contraddittorio equivale a non pensarlo, mentre noi abbiamo ammesso la presenza di questa idea nella nostra mente.

Tutte le cose contingenti in quanto tali possono essere pensate non esistenti. Solo Dio esiste e non può essere pensato non esistente, mostrando che ciò che l’intelletto prova è vero in quanto coincide con ciò che è creduto. Ma è necessario anche che il pensiero escluda che esista qualcosa migliore di questo essere. Infatti, poiché la creatura è per natura inferiore al creatore, è impossibile che ne conosca e ne giudichi l’essenza; quindi siamo indotti ad ammettere che nulla sia migliore di Dio poiché, se Egli mancasse di qualcosa e fosse giudicato da una creatura, non sarebbe più Dio. Orbene, se Dio esistesse soltanto come tutti gli altri esseri, non soltanto non esisterebbe come Dio, ma non esisterebbe affatto. Egli è l’essere necessario e il fondamento degli enti contingenti: tutto esiste in lui e per lui. Per questo non può essere pensato non esistente. Dato il rigore e la chiarezza di questo argomento, come può l’insipiente sostenere che "Dio non esiste"? Il fatto è che egli non solo è insipiente ma anche stolto, privo di facoltà razionale, dato che nega ciò che appare logicamente inconfutabile. Questa prima parte (capp. I-IV) si conclude con un’ulteriore preghiera in cui Anselmo ringrazia Dio perché ora può intendere ciò che prima aveva accettato solo per fede, "sì che anche se non volessi credere che tu esisti, non potrei non capirlo con l’intelligenza.".

Dopo aver dimostrato che Dio esiste, si passano (capp. V-XXI) ad esaminare i suoi attributi.

Essi vengono stabiliti in parte mediante deduzione dalla sua essenza e in parte per contrasto tra il grado qualitativo delle cose, che l’anima umana coglie per via sensibile, e il grado massimo, che può essere solo presagito. Poiché Dio è ciò di cui non si può pensare nulla di più grande, nel caso ci si trovi di fronte a due attributi opposti si deve procedere in base al criterio per cui l’essere è migliore del non essere, mostrandone, attraverso un rigoroso esame dei termini, l’apparente inconciliabilità ed attribuendo a Dio la qualità più conveniente. Il discorso si sviluppa così attraverso la considerazione di una serie di antinomie che vengono via via sciolte mediante questo metodo.

Si incomincia con l’antinomia "Dio è incorporeo e sensibile" di fronte alla quale si deve dire che Dio, pur essendo spirito (infatti lo spirito è superiore al corporeo) conosce le cose sensibili, benché in modo diverso dagli animali e dagli uomini; infatti, "se il sentire non è altro che conoscere (...), non è sbagliato dire che in certo modo sente chi in certo modo conosce. Dunque, o Signore, sebbene tu non sia corpo, sei tuttavia veramente e sommamente sensibile in quanto conosci sommamente tutto".

Si passa poi a considerare quella "in che modo Dio sia onnipotente, mentre non può molte cose" (non può corrompersi, non può mentire, non può fare che il falso sia vero o ciò che è avvenuto non sia avvenuto): qui si deve dire che poiché ciò che giova è superiore a ciò che non giova, Dio non può fare ciò che provoca avversità o malvagità. "Dunque, Signore Iddio, tu sei veramente onnipotente proprio perché non puoi nulla di ciò che è indice di impotenza e nulla ha potere sopra di te."

La terza antinomia, "Dio è impassibile e misericordioso", si risolve considerando che, poiché avere sentimenti che dipendono dalle azioni degli altri è inferiore al provarne in modo gratuito e spontaneo, allora Dio è in se stesso impassibile (in quanto non è dipendente da nessuna passione), ma al tempo stesso misericordioso e fonte di consolazione. "Quando infatti tu volgi lo sguardo a noi, miseri, noi sentiamo l’effetto di un misericordioso, ma tu non sei affetto da un sentimento."

Ancora: come può Dio perdonare se è sommamente giusto? Certo, noi non possiamo comprendere la bontà di Dio dalla quale scaturisce la misericordia. Poiché è migliore colui che è buono verso buoni e cattivi che non colui che lo è solo verso i buoni, e colui che è buono verso i cattivi sia punendoli che perdonando loro che non colui che è buono solo nel punirli, Dio è misericordioso perché è totalmente e sommamente buono. "Non sarebbe così infatti se tu fossi buono solo retribuendo e non perdonando e se facessi buoni solo coloro che non erano tali e non rendessi buoni anche coloro che erano cattivi."

Se poi chiediamo in che modo Dio insieme punisca e perdoni giustamente, si deve rispondere che non v’è contraddizione perché "quando punisci i cattivi, è giusto perché corrisponde a ciò che meritano; quando invece perdoni i cattivi, è giusto perché sta alla base della tua bontà.". Ma Dio non sarebbe poi totalmente giusto se rendesse solo bene per bene e non male per male. "È più giusto infatti colui che retribuisce i meriti dei buoni e dei cattivi che non colui che retribuisce solo quelli dei buoni." È giusto quindi che Dio punisca e perdoni a seconda della sua volontà da cui dipende ciò che è giusto e ciò che è ingiusto: quelli che vuole punire non è giusto che si salvino, quelli ai quali vuole perdonare non è giusto che si dannino. "Così dalla tua giustizia nasce la tua misericordia, poiché è giusto che tu sia buono così da essere buono anche perdonando."

Si tratta poi di stabilire in che modo Dio sia illimitato ed eterno pur condividendo queste qualità con gli altri spiriti. Ebbene se Dio è l’essere di cui nulla si può pensare di più grande, solo Lui è illimitato nello spazio e nel tempo, così come non ha né inizio né fine. Egli può essere tutto ovunque e nello stesso tempo: gli altri spiriti creati, invece, possono essere tutto in un luogo e contemporaneamente tutto in un altro luogo ("se infatti l’anima non fosse tutta nelle singole membra del corpo, non sentirebbe tutta in ogni membro"), ma non dappertutto.

Dopo aver sciolto queste antinomie e penetrato più intimamente nell’essere di Dio (dato che il suo essere si identifica con i suoi attributi), Anselmo può concedersi una pausa mistica e contemplativa (capp. XIV-XVII) e domandarsi come sia possibile che, pur avendo trovato Dio, la sua anima non senta ciò che ha trovato ("Perché l’anima mia non ti sente, Signore Iddio, se ti ha trovato?"). Il fatto è che l’anima "si rende conto che non può vedere di più a cagione delle proprie tenebre", contemporaneamente ottenebrata dalla sua debolezza e abbagliata dal fulgore divino, oscurata dalla cortezza della sua vista e schiacciata dalla immensità di Dio, che non solo è ciò di cui non può pensarsi il maggiore, ma anche più grande di tutto ciò che può essere pensato. "Poiché infatti si può pensare che esista una tale realtà, se tu non fossi questa realtà, si potrebbe pensare qualcosa di più grande di te. E ciò non è possibile.". Dio è luce inaccessibile, troppo grande per l’occhio della mente umana, il quale tuttavia tutto quello che vede lo vede per effetto di quella luce. Analogamente l’occhio corporeo vede per via della luce del sole che a sua volta non può essere scorto. Dio dunque è insieme vicino e lontano rispetto all’anima che può esclamare: "sei dentro di me e intorno a me, e non ti sento.". L’anima è ancora immersa nelle tenebre e nell’infelicità, i suoi sensi "sono induriti, ottusi, otturati dalla vecchia malattia del peccato": per questo, pur esercitando i suoi sensi, non coglie quelle qualità (armonia, odore, sapore, dolcezza, bellezza, morbidezza) che Dio possiede in modo ineffabile.

Ecco allora un nuovo turbamento, un nuovo quesito: se Dio è vita, sapienza, verità, bontà, beatitudine, bene, in che modo è tutte queste cose? "Sono forse tue parti, o piuttosto ognuno di questi attributi è tutto ciò che tu sei?". Ma ciò che è composto da parti non è totalmente uno, ma molteplice e in certo qual modo diverso da sé, tanto da poter essere dissolto o nella realtà o con il pensiero, "tutte cose aliene da te, di cui nulla può essere pensato migliore". Dunque Dio è suprema unità, identità di sé con se stesso per cui gli attributi non sono sue parti, "ma tutti costituiscono una cosa sola, e ciascuno di essi si identifica con tutto te stesso e con gli altri attributi.". Inoltre Dio è eterno, non è nello spazio e nel tempo, ma ogni cosa è in lui "poiché nulla ti contiene e tu contieni tutto". E ancora: Dio è prima e oltre ogni cosa, anche oltre le realtà eterne "perché hai tutta presente la tua e la loro eternità, mentre quelle non hanno ancora ciò che dalla loro eternità deve venire". Perciò noi possiamo indifferentemente dire "il secolo dei secoli" o "i secoli dei secoli": infatti "la tua eternità è secolo per la sua indivisibile unità; è secoli, al plurale, per la sua interminabile immensità". E come annunciato qui si chiude l’indagine sugli attributi di Dio.

Gli ultimi cinque capitoli (capp. XXII-XXVI) riguardano il concetto di Dio come bene. Se, come dice la Bibbia (Esodo, III, 14), Dio "è colui che è", in quanto è totalmente e sempre tutto ciò che è in un certo momento o in un certo modo, allora è sommo bene poiché è bastevole a se stesso e non ha bisogno di nessuno, mentre di Lui "hanno bisogno tutte le cose per essere e per avere bene.". Ma se il bene è Dio, allora ha una struttura trinitaria (Padre, Figlio, Spirito Santo) poiché "ognuno non è altro che l’unità sommamente semplice e la semplicità sommamente una, che non può essere moltiplicata né può essere in sé diversa.". Perciò Dio è il bene totale, il solo e necessario bene che comprende tutti gli altri beni. Questo bene determinerà una gioia del tutto particolare, congetturabile solo considerando "quanto il creatore differisce dalla creatura". "Perché dunque, omiciattolo, vai vagando per tante cose, alla ricerca dei beni dell’anima e del corpo? Ama l’unico bene in cui si trovano tutti i beni, e ti basterà. Desidera quel bene semplice che è tutto il bene e sarai soddisfatto.". Qualunque sia il bene che desideriamo (bellezza, velocità, fortezza, libertà, ebbrezza, sazietà, una vita lunga e salubre, sapienza, amicizia, concordia, potere, sicurezza), in Dio lo troveremo al grado massimo quale le cose del mondo mai potranno darci. Dunque "cuore umano, cuore assetato, cuore che hai sperimentato l’affanno, anzi sei pieno di affanni, quanta gioia avresti se abbondassi di tutte queste cose? Interroga il tuo intimo e chiediti se potrebbe contenere la sua gioia per tanta beatitudine.". "E poiché ognuno gode del bene di un altro in proporzione alla misura dell’amore che ha per lui, come ognuno, in quella perfetta felicità amerà senza paragone più Dio che se stesso e tutti gli altri con sé, così senza paragone godrà più della felicità di Dio che della sua e di quella di tutti gli altri insieme.". Amando Dio con tutta l’anima e tutto lo spirito, i beati godranno di una gioia incontenibile e inesprimibile. Se Dio è questa gioia, "non tutta quella gioia entrerà in chi ne gode, ma tutti coloro che ne godranno entreranno totalmente in quel gaudio.". E allora il Proslogion si chiude necessariamente con un’ulteriore preghiera: "Ti prego, Signore: che io ti conosca, ti ami, per godere di te.".

Gaunilone in difesa dello stolto: esposizione

Il testo di Gaunilone si compone di otto brevi capitoli tutti dedicati all’esame dell’argomento anselmiano.

Egli incomincia con un’esposizione della prova nella quale però commette un fraintendimento grave poiché traduce la definizione "ciò di cui non si può pensare nulla di più grande" con "ciò che dovrebbe essere maggiore di tutti", ponendo in tal modo Dio al livello degli enti.

In ogni caso Gaunilone attacca proprio la distinzione tra essere nell’intelletto ed essere nella realtà, negando che si possa dare passaggio dalla presenza nel primo all’esistenza nel secondo piano. Infatti, come si può ammettere che un ente sia presente nell’intelletto solo perché capisco il senso dell’espressione linguistica, quando lo stesso si può dire di tutte le cose false o inesistenti? Ma "allora non si dica che io penso o ho nel pensiero quello che ho udito, ma che lo intendo e l’ho nell’intelletto; ossia che non posso pensarlo se non sapendo (...) che quello esiste nella realtà.". Se le cose stanno così e "ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore" non rientra tra le cose false, allora è veramente inteso nella misura in cui è affermato immediatamente come esistente. Ma in tal modo viene a cadere la distinzione tra il momento in cui se ne ha in mente solo l’idea (e Anselmo aveva affermato che anche l’insipiente poteva capire l’espressione significante Dio pur senza ammetterne l’esistenza) e il momento in cui se ne conosce l’esistenza. Venuta meno questa distinzione, se Dio deve essere ammesso come esistente per via del semplice fatto che viene pensato, allora tutta l’argomentazione condotta contro l’insipiente risulta superflua, osserva Gaunilone il quale contesta la validità razionale dell’argomento (non certo le intenzioni di Anselmo). Infatti, se si acconsente ad ammettere che non esiste distinzione tra essere nell’intelletto ed essere nella realtà, si deve giungere alla conclusione assurda dell’esistenza di tutto ciò che è nella mente, comprese le cose false e inesistenti. Inoltre se ogni cosa vera è distinta dall’intelletto che la concepisce ed è appresa "o per averne sentito parlare o per averla escogitata con l’intelletto", non è possibile avanzare come probante l’analogia con il pittore (che prima penserebbe un’immagine e poi la realizza), perché in questo caso l’opera d’arte non è separabile dall’intelletto dell’artista che la concepisce.

Gaunilone introduce poi una distinzione molto importante nel nostro processo conoscitivo tra il pensare (semplice cogliere il significato delle parole), il comprendere (che equivale al possedere il preciso concetto dell’oggetto in questione inserendolo in un genere o in una specie), e l’affermare l’essere nella realtà. Poiché la conoscenza, in senso proprio, si ha al secondo livello, è evidente che Dio non può essere conosciuto. Quindi Dio non posso pensarlo se non in base alle parole e "con le sole parole non si può, o a mala pena si può rappresentarsi qualcosa di vero, perché quando si pensa così non si pensa la parola stessa, ossia il suono delle lettere o delle sillabe, ma il significato della parola udita"; orbene non è possibile conoscere il significato dell’espressione "ciò di cui non si può pensare nulla di più grande" alla stregua degli altri enti reali. Se si desse questa possibilità, si potrebbe certamente concludere per l’esistenza di Dio, ma ancora una volta la prova sarebbe superflua. Se pure nell’ambito della conoscenza umana è possibile che nella mente sussistano cose "dubbie o incerte", di Dio non ho alcuna conoscenza e quindi non ne posso avere alcuna idea significativa.

A questo punto Gaunilone porta il noto esempio dell’isola beata, "piena di una inestimabile abbondanza di ricchezze e di delizie...[che] supera tutte la altre terre abitate per abbondanza di beni.". Se uno mi parla di questa realtà, io comprendo le sue parole. Ma se poi aggiunge che non posso dubitare della sua esistenza dato che ne ho in mente l’idea e che è necessario che quest’isola esista perché, in caso contrario, qualsiasi terra esistente sarebbe migliore di lei e quell’isola già pensata come migliore non sarebbe più tale, allora questa persona o scherza o è uno sciocco "a meno che non mi faccia vedere che l’eccellenza di quell’isola è una cosa reale e non è come le cose false e incerte che possono essere nel mio intelletto.". Del resto, insiste Gaunilone, non si può affermare che l’idea di "ciò di cui non si può pensare nulla di più grande" sia vera prima di averne dimostrata l’esistenza o con una dimostrazione più adeguata di quella offerta da Anselmo o mediante l’accettazione della rivelazione.

Sarebbe inoltre opportuno, tenendo conto della distinzione tra pensare e comprendere, correggere la formula anselmiana "Dio non può essere pensato (cogitari) non esistente" con "Dio non può essere inteso (intelligi) come non esistente"; del resto anch’io so di essere contingente (so di essere ma so che posso anche non essere, mentre Dio non può essere e non essere), tuttavia non so se posso pensare di non essere mentre so certissimamente di essere. "Ma se posso, perché non potrei pensare non esistente tutto ciò che so con la medesima certezza? E se non posso, questo non potere non sarà una caratteristica solo del modo in cui penso Dio.". In conclusione Gaunilone, mentre apprezza il Proslogion per le tante verità "fragranti e quasi intimamente profumate di pio e santo affetto" che vi sono contenute, si augura che possano essere portati argomenti ben più solidi di quello offerto qui da Anselmo.

Risposta di Anselmo: esposizione

Anselmo premette di rivolgere la sua risposta non solo a uno che non è stolto, ma soprattutto che è cattolico. Quindi passa a confutare l’argomento che nega la specificità della presenza nell’intelletto dell’idea di "ente di cui non si può pensare il maggiore" e comunque vieta di dedurne l’esistenza per il solo fatto che tale idea è nell’intelletto (analogamente al fatto che dall’idea di isola beata non se ne può ricavare logicamente l’esistenza). Se l’espressione "ciò di cui non si può pensare il maggiore" non è compresa, vuol dire che o Dio non è "ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore", o è linguisticamente incomprensibile, o questa idea non è nell’intelletto. Ma la stessa fede di Gaunilone serve a provare la falsità di queste tre ipotesi per cui resta confermato che "ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore" è espressione compresa e questa idea è presente nell’intelletto. Quanto all’obiezione che dal fatto che si intenda l’espressione "ente di cui non si può pensare il maggiore" non se ne deduce la presenza dell’idea nell’intelletto, e che dall’eventuale presenza dell’idea nell’intelletto non se ne deduce l’esistenza, Anselmo risponde (anticipando Leibniz): "se può essere pensato esistente, è necessario che esista". Infatti, a differenza di tutti gli altri enti che sono contingenti e hanno un inizio, solo "ciò di cui non si può pensare il maggiore" deve essere pensato senza principio; se non può essere pensato esistente e non esistente, dalla possibilità della sua esistenza se ne deduce la relativa necessità (come dire: se Dio è possibile Dio esiste, ma Dio è possibile, dunque Dio esiste). Inoltre si conferma la liceità del passaggio dal piano del pensiero a quello dell’esistenza poiché se "ciò che non si può pensare il maggiore" non esistesse in entrambi i piani non sarebbe "ciò di cui non si può pensare il maggiore". Esso dunque resta ben distinto da tutti gli altri enti contingenti che possono essere pensati e non esistere, così come esistere e non essere pensati. Anche supponendo che pur essendo pensato non esista, si cadrebbe in contraddizione, poiché "tutto ciò che può essere pensato e non esiste, se esistesse non sarebbe ciò di cui non si può pensare il maggiore" e dunque se fosse "ciò di cui non si può pensare il maggiore" non sarebbe "ciò di cui non si può pensare il maggiore". Inoltre tutto ciò che non è totalmente in un luogo o in un tempo, anche se è, può essere pensato come non esistente. Invece "ciò di cui non si può pensare il maggiore" se è, non può essere pensato come non esistente. Altrimenti, se è, non è "ciò di cui non si può pensare il maggiore", il che è contraddittorio. "Non può darsi dunque che non sia tutto in un determinato luogo o in un determinato momento, ma è tutto sempre e dovunque.".

Quanto all’argomento, contestato da Gaunilone, secondo cui anche lo stolto intende la frase "ciò di cui non può pensarsi il maggiore", e se la intende ciò significa che ne possiede l’idea nell’intelletto, Anselmo ne ribadisce la validità e lo difende dall’osservazione che, sebbene intesa, non è detto che sia nell’intelletto. "Come infatti ciò che è pensato è pensato col pensiero, e ciò che è pensato col pensiero è nel pensiero", lo stesso vale per l’intelletto. "Cosa vi è di più chiaro?". Se poi si afferma la presenza nell’intelletto di "ciò di cui non si può pensare il maggiore", si può affermare che sia in realtà; "e se si può, chi lo pensa esistente in realtà non pensa forse qualcosa di maggiore di quello stesso esistente nel solo intelletto?". Ora, certamente, nessuno considera ciò di cui si può pensare il maggiore equivalente a ciò di cui non si può pensare il maggiore: pertanto resta confermato che "ciò di cui non si può pensare il maggiore" non può essere solo nell’intelletto: "se infatti fosse solo nell’intelletto sarebbe ciò di cui si può pensare il maggiore, il che è contro l’ipotesi".

Quanto poi all’argomento dell’isola perduta, esso è inapplicabile a "ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore" che risulta del tutto eterogeneo a ogni altro ente contingente. Anselmo può dunque concludere questa prima parte confermando la validità del suo argomento uscito vincitore dagli attacchi di Gaunilone: "ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore" non può essere pensato non esistente, altrimenti non potrebbe esistere in alcun modo. E se uno dice di pensarlo non esistente, o quando lo pensa lo pensa come "ciò di cui non si può pensare il maggiore" o non lo pensa. Se non lo pensa, non può poi concludere che non esiste dato che non si può pensare che non esiste ciò che non si pensa. Se lo pensa, deve pensarlo come necessariamente esistente e non alla stregua degli altri enti contingenti che hanno un principio e una fine.

Anche la sostituzione di pensare con conoscere proposta da Gaunilone viene respinta da Anselmo che conferma la formula: non può essere pensato non esistente. Nel caso la sostituzione fosse stata accolta si sarebbe incorsi nell’obiezione che nulla di ciò che esiste può essere conosciuto come non esistente, dato che è falso che ciò che è non sia. "E perciò non è proprio di Dio il non poter essere conosciuto come non esistente". Ma se si può conoscere che non esiste una delle cose che invece esistono con certezza, a maggior ragione si potrà conoscere che non esistono anche le altre cose certe. Ma questa obiezione non vale per il pensare, poiché anche se nessuna cosa esistente potesse essere veramente conosciuta come non esistente, tutte però possono essere pensate tali, all’infuori del sommo ente. Possono essere pensate non esistenti le cose contingenti che hanno un inizio e una fine, ma non "quell’essere in cui non vi è né inizio né fine né congiunzione di parti e che il pensiero trova sempre e dappertutto.". Dunque nulla può essere non esistente, mentre è conosciuto esistente, mentre tutto ciò che non è l’essere di cui non si può pensare il maggiore può essere pensato non esistente anche quando si conosce che esiste (o, come spiega S. Vanni Rovighi, possiamo pensare che ciò che sappiamo esistere in un certo momento non sia o non sia stato, ma non possiamo pensare che ciò che sappiamo esistere non sia mentre è). Solo Dio, come si è argomentato, non può essere pensato non esistente.

Con questo Anselmo ritiene di aver risposto sufficientemente a Gaunilone. Affrontando ancora alcune questioni di dettaglio, Anselmo rimprovera il suo obiettore di aver confuso l’espressione "ciò di cui non si può pensare il maggiore" con "l’ente più grande di tutti". Sul piano degli enti, si può infatti confutare l’affermazione circa la non esistenza, o la possibilità della non esistenza, o la possibilità del pensare non esistente l’ente di cui non si può pensare il maggiore, dato che "ciò che non esiste può non esistere; e ciò che può non esistere può essere pensato non esistente". Ma proprio questo è il punto: ciò che può essere pensato come non esistente, se esiste, non è ciò di cui non si può pensare il maggiore. E se esiste, non sarebbe ugualmente ciò di cui non si può pensare il maggiore. Ma è insostenibile che "ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore" non sia tale, se esiste, o che, se esistesse, non sarebbe ciò che afferma la sua definizione. " È dunque manifesto che non è inesistente né può non esistere o essere pensato inesistente. Se fosse altrimenti, infatti, non sarebbe ciò di cui non si può pensare il maggiore: e se fosse tale, non sarebbe tale". Ma quando diversamente si considera l'ente maggiore di tutti, questo ragionamento non risulta applicabile: infatti l'essere maggiore di tutti può essere pensato inesistente, e ciò che può essere pensato inesistente non è chiaro se possa essere necessariamente e inequivocabilmente l'ente maggiore di tutti; così come non è indubitabile che se vi è un ente siffatto questo si identifichi con ciò di cui non si può pensare il maggiore (mentre ovviamente ciò di cui non si può pensare il maggiore è di certo l’ente maggiore di tutti). Inoltre, dato l’ente maggiore di tutti, tuttavia esso può essere pensato non esistente così come se ne può pensare uno ancora maggiore, anche se questo non esiste. Invece per quanto concerne l’ente di cui non si può pensare il maggiore è sufficiente l’espressione linguistica per dedurne l’esistenza (o, come si dice poco oltre, "esso dimostra sé per se stesso"). Da queste considerazioni risulta dunque la gravità del fraintendimento di Gaunilone ed è confermata la validità dell’argomento anselmiano.

Quanto all’obiezione che anche una cosa falsa o inesistente può essere intesa ed essere nell’intelletto come l’ente di cui non si può pensare il maggiore, Anselmo fa rilevare che nel suo argomento era sufficiente far presente all’inizio che "quella realtà era in qualche modo intesa e nell’intelletto, perché si esaminasse poi se fosse solo nell’intelletto, come le cose false, o anche nella realtà, come le cose vere". Non regge poi neppure l’obiezione che sostiene l’inutilità dell’argomento perché se è impensabile che, compresa l’espressione "ciò di cui non si può pensare il maggiore", sia logicamente impossibile negarne l’esistenza, sarà allora impossibile negare anche l’esistenza di Dio. Infatti con quella espressione si dà una qualche nozione di Dio (di cui lo stolto sembra privo) e con la stessa si fa capire, sia pure approssimativamente, che cosa Dio è: ebbene, è proprio in tal modo che si induce a capire come sia necessario ammetterne l’esistenza.

Quando ancora Gaunilone obietta che ciò di cui non possiamo pensare il maggiore non può essere nel nostro intelletto perché non corrisponde a nessun ente conosciuto secondo genere e specie, egli sembra dimenticare che noi possiamo legittimamente congetturare ciò di cui non possiamo pensare il maggiore da ciò di cui possiamo pensare il maggiore, così come possiamo procedere analogicamente dai beni inferiori a quelli superiori. Ciò del resto è confermato dalla Scrittura (cfr. Ep. ai Rom., I, 20) che ci autorizza a scorgere le perfezioni invisibili di Dio dagli effetti del mondo creato. In ogni caso, non è vero che intendiamo la parola "ineffabile" anche se l’ineffabile non può essere detto? E lo stesso non vale per l’"impensabile"? Dunque quando si dice "ente di cui non si può pensare il maggiore" certamente si può pensare e comprendere quella realtà di cui non si può pensare il maggiore, e anche lo stolto non sarà così impudente da sostenere che non intende o non pensa quel che dice. Infatti, se uno nega che esiste ciò di cui non si può pensare il maggiore, deve intendere la negazione. Ma quest’ultima suppone l’affermazione (la negazione è negazione di qualcosa): dunque chi nega, implicitamente ammette di intendere e pensare ciò di cui non si può pensare il maggiore. Dunque mentre si pensa ciò di cui non si può pensare il maggiore, se si pensa che esso non possa esistere, vuol dire che non si pensa ciò di cui non si può pensare il maggiore. Ma una cosa non può essere pensata e insieme non essere pensata. In conclusione si conferma che chi pensa ciò di cui non si può pensare il maggiore lo pensa come necessariamente esistente. "Tanta è infatti la forza contenuta nel significato del termine ‘ciò di cui non si può pensare il maggiore’, che appena si capisce o si pensa ciò che si è detto, necessariamente si dimostra che esso esiste, e che si identifica con ciò che si crede dell’esistenza divina".

La risposta si chiude con un pensiero pieno di benevolenza e gratitudine per Gaunilone.



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