Riflessioni sui Vangeli gnostici

di Marco Apolloni

 

 

 

Premessa

 

Gli autori dei Vangeli gnostici sono degli intellettuali cristiani e in quanto tali non sono facilmente allineabili tra le fila dell’ortodossia. La loro conoscenza è eterodossa, ossia dotata di una forte spinta innovatrice e proprio per questo non in perfetta sintonia con una conoscenza ortodossa, che diversamente si basa su un apparato strutturale molto più rigido ed ancorato in salde convinzioni dogmatiche. In questi testi vi sono delle illuminate considerazioni sull’operato irreprensibile e i discorsi illuminanti del Salvatore. Il loro vero protagonista è il pensiero in azione del Nazzareno. Qui vi è sapientemente argomentata una certa prassi di costui. L’insegnamento più utile, secondo noi, che si può trarre dal vivificante esempio del Cristo è senz’altro: “Credere fortemente in noi stessi, poiché ognuno è Cristo in sé”.

In questo nostro scritto non ci occuperemo della Fede vera e propria, che può essere creduta o meno a seconda delle proprie convinzioni. D’altronde essa altro non è che una comprensione sconosciuta che s’occupa di comprendere quelle ragioni talmente profonde, che altrimenti la ragione da sola non può comprendere. La nostra concezione della Verità è ancora ben lungi dall’essere vicina ad alcuna Rivelazione divina ed è, quindi, ancora in cammino verso l’Uomo. Per farla breve, noi crediamo con Socrate che il nostro compito precipuo sia quello di auto-conoscerci  per poi conoscere meglio il Mondo che ci circonda. Del resto, presso l’Oracolo delfico vi era impressa questa emblematica iscrizione: «Conosci te stesso». Chiarita questa nostra disincantata concezione, ci agganciamo subito al testo da noi attentamente esaminato. Nel Vangelo di Tomaso, detto 67, Gesù dice:

 

«Colui che conosce il tutto, ma è privo della conoscenza di se stesso, è privo del tutto» [1].

 

La conoscenza di sé, infatti, qui rappresenta il primo gradino da scalare nel proprio percorso d’ascesa-elevazione spirituale per raggiungere la conoscenza del Padre celeste. In un certo senso possiamo parlare di volontà di potenza del Cristo. Avere fede in colui che si è immolato per la causa dell’umanità significa avere fiducia nell’uomo. Per far ciò occorre innanzitutto riporre fiducia in noi stessi.

Solo chi crederà nel dio che è dentro di sé, potrà così salvarsi e non gustare il sapore pestilenziale della morte. Il regno del Padre è una mera dimensione interiore. L’essenza profumata di questi Vangeli ci ottunde i sensi e sta a noi riuscire ad assaporarli in pieno: gustando quelli che sono gli insegnamenti di Cristo incarnatosi non per legiferare, bensì semplicemente per indicarci la Via della Salvezza. Cito testualmente dal detto 3 del Vangelo di Tomaso:

 

«…Il Regno è invece dentro di voi e fuori di voi. Quando vi conoscerete, allora sarete conosciuti e saprete che voi siete i figli del Padre che vive…» [2].

 

Il messaggio che trapela da queste parole è chiaro: il Regno è in ognuno di noi, solo che per trovarlo occorre anzitutto trovare il proprio dimenticato sé. Per far ciò, però, occorre prima perdersi infinite volte, poiché è assai tortuosa la Via che conduce al proprio vero sé. La testimonianza messianica dell’avvento del Redentore è un po’ come l’invenzione della dinamite: tutto dipende dall’uso che se ne fa! In definitiva essere partecipi della conoscenza-rivelazione divina significa essere: Una cosa sola con il Tutto. E in questo aspetto, almeno, tutte le religioni si assomigliano. Ossia nel riconoscere una dimensione ideal-paradisiaca, dove ciascuno possa eliminare le proprie scissioni o lacerazioni interne per affrancarsi così nell’inter-connessione con tutti gli altri Enti del Creato…

 

Vangelo di Tomaso

 

Il Vangelo di Tomaso è suddiviso in diversi detti. Prendiamo il detto 2:

 

Gesù disse: «Colui che cerca non desista dal cercare fino a quando non avrà trovato; quando avrà trovato si stupirà. Quando si sarà stupito, si turberà e dominerà su tutto» [3].

 

Questa affermazione, che Tomaso attribuisce al Nazzareno, è molto simile alla concezione aristotelica della filosofia intesa essenzialmente come meraviglia. Secondo Gesù, infatti, solo chi ha stupore delle cose può turbarsi per poi dominare su di esse. Chi non si stupisce non ha la benché minima possibilità di turbarsi e chi non si turba è condannato a vivere nell’indifferenza quotidiana: schiavo delle proprie passioni negative. Chi si renderà partecipe della conoscenza rivelata, invece, sarà liberato da esse. Cosicché si ergerà sopra gli altri e s’incamminerà sul Sentiero della Rettitudine (ovvero il «Ren» di cui parlava Confucio nei suoi Dialoghi). Notiamo ora questa basilare definizione tratta dal detto 18:

 

«Avete scoperto il principio voi che vi interessate della fine? Infatti nel luogo ove è il principio, là sarà pure la fine. Beato colui che sarà presente nel principio! Costui conoscerà la fine e non gusterà la morte» [4].

 

Il principio di tutte le cose coincide, appunto, con la fine delle medesime. Ciò che non ha mai avuto un inizio, non avrà neanche una fine! Dunque dal momento che il Mondo ha avuto inizio, esso prima o poi finirà; così come noi dal momento che nasciamo, moriamo pure. Questa sorta di determinismo è presente nell’escatologia paolina preconizzatrice della Fine dei Tempi. Tutto ciò ha origine da una ben precisa concezione circolare (nietzscheana) della Storia, con molti eventi tendenti a ripetersi nel corso dei secoli, avente però un estremo punto di non ritorno, di discontinuità, dal quale ci è impossibile tornare indietro e dove il Giudizio Finale verrà compiuto secondo le Scritture. Il Tempo stesso cesserà il suo inarrestabile fluire, causa ultima di quel flagello in Terra qual è la Morte, la cui falce inesorabile è stata calata sul genere umano sin dalla “notte dei tempi” come conseguenza del peccato originale di Adamo ed Eva. Tale peccato primigenio si dovette all’insaziabile e divoratrice curiosità di costoro, i quali pretesero a tutti i costi di essere resi partecipi dei frutti dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male. Ecco perché da questo momento in poi la curiosità stessa ha costituito il “tratto distintivo” degli uomini-senzadio. Ossia senza l’indispensabile “bussola celeste” rappresentata dal Padreterno.

Ritorniamo adesso laddove la nostra riflessione aveva preso le mosse. Il tema del Giudizio ha precorso e dominato tutte le fila della cristianità determinando quella corrente di pensiero comunemente chiamata “messianismo”. Ovvero quella corrente basatasi sul presupposto di un ritorno del Messia per redimere gli oppressi e condannare i loro oppressori. Tra l’altro possiamo far notare come tale corrente di pensiero sia tale anche per un certo marxismo di stampo benjiaminiano. Per esso, infatti, è altrettanto plausibile nonché verosimile l’idea che un Messia un giorno si materializzerà per ristabilire la cosiddetta Società Perfetta marxiana, dove le classi vessate possano finalmente venire da costui redente. Appunto per questo i paralogismi tra quel che è il messaggio cristiano e quel che è, invece, il messaggio marxiano si sono sprecati per molta parte della critica moderna. Procediamo ora per gradi e vediamo il detto 24:

 

Gesù disse: «Beato l’uomo che ha sofferto. Egli ha trovato la vita» [5].

 

Qui l’insegnamento del Cristo rivela la preminenza della sofferenza, carattere irrinunciabile per il cristiano, il quale domina su tutti ma allo stesso tempo è soggetto a tutti. La vocazione al martirio, specialmente nel Cristianesimo delle origini, è assai emblematica. La pervicace sottomissione dei cristiani è riuscita a minare per poi disintegrare nelle fondamenta la portentosa costruzione dell’Impero Romano, già peraltro minato da inverecondi “vizi capitali” su tutti: la corruzione e l’ozio. Quest’ultimo aspetto, in particolare, è stato rigettato completamente dai cristiani, la cui laboriosità cominciò a delinearsi sempre più nitidamente sin dai loro primi vagiti. Non a caso la stessa fine dell’Impero Romano, la fece anche in un certo qual modo - pur arginando, almeno in parte le “falle”, ed evitando così il naufragio dell’intera imbarcazione - il potente papato romano, ferocemente attaccato da quel “cinghiale selvatico” tedesco di Martin Lutero. Questi, profittando anche della degenerazione dei costumi della curia romana, diede adito alla diaspora fra i cristiani ma anche paradossalmente alla benefica ristrutturazione dell’intero apparato della cristianità in decadenza. La verità è che il Cristianesimo si è sempre cibato di eresie senza le quali non sarebbe mai e poi mai riuscito a sopravvivere: predicando quasi tutte il ritorno alle Sacre Scritture, esse hanno fortemente cementato antiche, ma altresì preziose, usanze cadute in disuso. A questo proposito vi è un imprescindibile libro del sociologo tedesco Max Weber, ossia L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904), che sottolinea la stretta consonanza tra l’importanza assegnata dal cristiano-riformato, cioè protestante, al lavoro e il conseguente sviluppo di quel fenomeno economico detto “capitalismo”.

Richiudendo questa parentesi doverosa, in effetti, comprendere la radice della nostra sofferenza significa comprendere anche l’essenza stessa della nostra esistenza, che si compone prevalentemente di sofferenza. Infatti quando si viene al mondo lo si fa piangendo e sin da quel primo “atto di potenza” compiuto, si diventa istantaneamente consapevoli che, fuoriuscendo dal caldo e confortevole utero materno, si è sì iniziati alla vita che è, però, costituita sin dal principio da una sofferenza indicibile. Da ciò si dovrebbe subito avere un’idea chiara di cosa significa realmente stare al mondo. Dunque la sofferenza va intesa - in questo senso - come condizione stessa dell’essere uomo: il quale se non soffrisse, nemmeno vivrebbe! Tornando al Vangelo di Tomaso, esso contiene una precisa morale, che talvolta affiora improvvisa folgorandoci letteralmente, come d’altronde avviene in questo detto 63 ad esempio:

 

Gesù disse: «C’era un uomo ricco che aveva molte ricchezze. Disse: Mi servirò delle mie ricchezze per seminare, mietere, piantare e riempirò i miei granai di frutta, e non mancherò di nulla. Così pensava in cuor suo, ma in quella notte morì. Chi ha orecchie, intenda» [6].

 

Difatti ci sono stati assegnati appositamente due orecchie per ascoltare maggiormente e una sola bocca per parlare minimamente. In questo episodio narrato da Gesù, il messaggio sembrerebbe sin troppo esplicito: la nostra vita è molto labile ed è appesa ad un sottilissimo filo, che potrebbe spezzarsi da un momento all’altro destinandoci, così, al riposo eterno senz’alcun preavviso e con un’intempestività davvero impareggiabile. Data, appunto, la fragile consistenza del materiale con cui è plasmata la nostra precaria esistenza, dobbiamo proprio per questo gustarcela tutta vivendo intensamente ogni singolo istante datoci in sorte, pur avendo la massima cognizione di causa che: tutto potrebbe finire da un momento all’altro! Tuttavia tale detto non insegna la pesantezza del vivere o ancor peggio un infruttuoso fatalismo di circostanza, semmai la leggerezza. Per certi versi l’etica di Cristo non differisce granché dall’etica dei samurai, impavidi guerrieri-medievali giapponesi, ai quali veniva inculcato il pensiero incessante della morte; che, tuttavia, invece di appesantirli, li alleggeriva notevolmente permettendo ad essi di servire nel miglior modo possibile, sino alla morte, il loro signore. Inoltre questa senz’altro atipica predisposizione mentale, li metteva anche nelle migliori condizioni di guerreggiare con la mente totalmente libera da qualsivoglia cattivo pensiero, che potesse in qualche modo influire negativamente sulle loro gesta guerresche nel bel mezzo del fulgore scintillante della battaglia! In questo si può, infine, scovare un forte richiamo al messaggio dell’apostolo Paolo secondo cui: tutto accade una volta sola; e proprio in virtù di ciò: ogni istante è pressoché irrefutabile; a differenza di quel che dirà, poi, Nietzsche: tutto viene eternamente ripetuto. Nel detto 87 Gesù afferma:

 

«Le volpi hanno le loro tane, e gli uccelli hanno i loro nidi, ma il figlio dell’uomo non ha alcun luogo ove poggiare il capo e riposare» [7]. 

 

In questo detto il Nazzareno sembra riferirsi allo spirito errante dell’uomo. Questi non avendo radici come le piante o nidi come gli uccelli è costretto a navigare gli oceani burrascosi dell’esistenza. La sua casa è il vasto Mondo pieno d’insidie. Nella sua bellissima poesia Il viaggio, il poeta francese Charles Baudelaire ci fornisce una splendida metafora di quella che è la condizione umana sulla Terra, e cioè: l’uomo è simile ad un aerostato che si libra altissimo nel cielo incontaminato e non riesce a fermarsi se non per poco tempo in ogni luogo, dov’egli è solo di passaggio durante il suo Viaggio esistenziale, che troverà - prima o poi - il suo estremo compimento. Infine vorrei citare un’ultima “perla” di questo primo Vangelo da noi esaminato, ossia il detto 110:

 

Gesù disse: «Colui che ha trovato il mondo ed è diventato ricco, deve rinunciare al mondo» [8].

 

Poiché il cristiano non appartiene a questa Terra, dove evidentemente egli è solo di passaggio, essa è semplicemente un transito verso quello che è il meraviglioso mondo celeste, che lo attende dopo il suo irrefutabile trapasso. Alla rinuncia al Mondo consegue la rinuncia al proprio sé e ai propri simili. Ciò potrebbe apparire in stridente contrasto con il suo comandamento supremo che è l’amore verso il prossimo. Come tutti i profeti anche Gesù si contraddice volutamente più volte, poiché il suo messaggio ha un significato plurimo. Ciononostante sempre di significato, e non di significati, dobbiamo tenere conto. Consideriamo brevemente quest’affermazione roussoniana:

 

«Il Cristianesimo è una religione tutta spirituale, dominata unicamente dalle cose del cielo; la patria del cristiano non è di questo mondo» [9].

 

Nella sezione La religione civile, del Contratto sociale, Rosseau teorizza il suo forte scetticismo a lasciare il Mondo nelle mani dei cristiani, in quanto - egli argomenta - non essendo essi creature di questo mondo (si consideri la rilettura del messaggio di Cristo operata dall’apostolo Paolo), che interesse hanno costoro ad occuparsene? Apparentemente nessuno, noi diremmo. Il cristiano è straniero a questo mondo - al quale non appartiene. Questo è quanto sostiene l’apostolo Paolo, appunto, il quale definisce l’identità del cristiano intendendola paradossalmente come sorta di non-identità; come a voler dire che l’importante per un cristiano deve essere non sbilanciarsi mai troppo e oscillare tra potere temporale e potere spirituale stando sempre attenti, però, a tenere i piedi su due staffe: di modo che quando viene meno l’una, c’è sempre l’altra su cui riporre le proprie speranze. È da cristiani, insomma, star sempre dalla parte dei poteri più forti - lo stesso Riformatore, Lutero, è stato accusato di concussione con i potenti dai cosiddetti “settari”, su tutti dal rivoluzionario Thomas Muntzer. Proprio questa, oltretutto, è stata la grande accusa mossa da un po’ tutti gli eretici, a partire dagli gnostici. In sostanza, gli eretici andrebbero considerati dei credenti fuori dal comune e proprio per questo molto più intransigenti della norma. E il loro apporto al mantenimento imperterrito dell’intera cristianità, ribadiamo, è stato assolutamente decisivo.

 

 

 

 

 

Vangelo di Maria

 

Suggestivo in questo Vangelo è il racconto dell’avventurosa trasmigrazione dell’anima. Durante il proprio tragitto d’ascesa fino all’Altissimo, essa si trova a dover affrontare delle potenze ostili, che la mettono a dura prova. Su tutte la quarta potenza, che si compone delle sette potenze dell’ira: l’ignoranza, l’oscurità, la bramosia, l’emozione della morte, il regno della carne, la stolta saggezza della carne, la stizzosa sapienza. Purtroppo la narrazione procede in maniera dissestata poiché il testo ci è pervenuto con ampi rimaneggiamenti. Riportiamo qui di seguito un’affermazione che Maria attribuisce a Gesù:

 

«Per questo vi ammalate e morite, perché voi amate ciò che è ingannevole, ciò che vi ingannerà. Chi può comprendere, comprenda» [10].

 

Perciò noi viviamo e periamo nell’effimero. Dunque è un po’ come se la morte fosse per ciascun cristiano il risveglio da un lungo sogno durato una vita intera. A tal proposito, ci sembra sufficientemente ragionevole azzardare l’ipotesi di una condizione di fallacia che domina l’esistenza del cristiano. Proprio in virtù di tale fallacia si può ragionevolmente parlare di una sorta di “velleitarismo” cristiano. Nella fattispecie si dice così l’atteggiamento di rassegnata e tacita obbedienza proprio di ciascun cristiano, che ritiene ogni suo operare al di fuori della fede del tutto vano. A dire il vero, questa è l’essenza della teologia luterana che non fa il benché minimo assegnamento sulle buone opere, in quanto la Salvezza del cristiano dipende unicamente dalla sua fede. In quest’ottica luterana, il cristiano deve essere timoroso del Padre Celeste e sentirsi come un “moscerino” nelle mani di Dio. Perciò questi si rimette alla grazia dell’Onnipotente, sinceramente contrito per i peccati commessi, poiché talmente oppresso dal peso schiacciante del Dio-Onniscente. Riallacciandoci al testo, Maria riporta la seguente asserzione del Salvatore:  

 

«…Il Figlio dell’uomo è infatti dentro di voi. Seguitelo! Chi lo cerca lo trova (…) Andate, dunque, e predicate il Vangelo del Regno. Non ho emanato alcun precetto all’infuori di quello che vi ho stabilito. Né vi ho dato alcuna legge come un legislatore, affinché non avvenga che siate da essa costretti (…)» [11].

 

La costrizione è estranea al cristiano. Ognuno è libero di scegliere autonomamente quel che ritiene più opportuno credere. Gesù non vuole essere confuso con il legislatore che implica il promulgamento e il rispetto di determinate leggi da lui stesso emanate. Il compito di Cristo è semplicemente quello di farsi testimone della Verità, che va soltanto annunziata, predicata e rivelata. Il suo unico precetto, per così dire, è quello di amare il prossimo e di porgere l’altra guancia rendendo bene per male, poco importa.

La particolarità senz’altro più straordinaria di questo Vangelo è l’autrice, ossia una femmina. Ciò sta ad indicare l’ampiezza di vedute dello Gnosticismo, la cui vena eterodossa è tale da rovesciare degli autentici “luoghi comuni” sviluppati nel dogma ortodosso, intendendo con essi tutti quelli che interpretano “alla lettera” i Testi Sacri del canone cristiano e risalenti alla scuola d’Antiochia. L’esegetica gnostica risale, invece, alla scuola d’Alessandria interpretante la Sacra Scrittura in forma platonica, vale a dire “al di là della lettera”, dunque in chiave allegorica. Si pensi a Simon Mago, “illuminato” rappresentante dello Gnosticismo, che era solito andare in giro con una certa Elena - ovvero una prostituta - spacciandola per l’incarnazione della spiritualità divina in Terra e dunque in “lieve” controtendenza con la visione dataci nella Genesi della donna, cagione d’ogni male per l’intero genere umano.

La Maria autrice di questo Vangelo è con tutta probabilità la Maddalena considerata, in alcuni Vangeli non ortodossi, la compagna di Gesù. Nel testo, inoltre, vi è un episodio estremamente significativo in cui l’apostolo Levi intercede a favore di Maria, verbalmente aggredita dall’apostolo Pietro - lo stesso che verrà poi elevato a rango di custode della Santa Romana Chiesa. Dalle testimonianze di alcuni gnostici, come il già citato Simon Mago, la femmina in realtà sembrerebbe venire rappresentata come sorta di ponte teso incontro alla divinità. L’apice di questo anti-femminismo gettato dall’apostolo Pietro è stato toccato con i tristemente celebri roghi innalzati in mezz’Europa nel Medioevo per bruciare, il più delle volte senz’alcuna prova a loro discapito, delle giovinette innocenti oppure delle vecchie farneticanti. Tutto ciò, naturalmente, con il beneplacito dell’ignorante popolino acclamante i “molto presunti” giudici di Dio, ciechi e devoti discepoli dell’irruente apostolo Pietro. Ma veniamo alla narrazione stessa dell’episodio:

 

Levi replicò a Pietro dicendo: «Tu sei sempre irruente, Pietro! Ora io vedo che ti scagli contro la donna come (fanno) gli avversari. Se il Salvatore l’ha resa degna, chi sei tu che la respingi? Non v’è dubbio, il Salvatore la conosce bene. Per questo amava più lei di noi. Dobbiamo piuttosto vergognarci, rivestirci dell’uomo perfetto, formarci come egli ci ha ordinato, e annunziare il Vangelo senza emanare né un ulteriore comandamento, né un ulteriore legge, all’infuori di quanto ci disse il Salvatore». Quando Levi ebbe detto ciò, essi presero ad andare per annunziare e predicare [12].   

 

Oltre a ciò che abbiamo sopra detto, in questo spezzone Levi predica un ritorno al messaggio originario di Cristo. A noi posteri non può non venire in mente ancora una volta il buon Lutero, anch’egli richiamante un esplicito ritorno alle Sacre Scritture. Appare sconcertante come il decreto ereditatoci dal Nazzareno di non emanare né un ulteriore comandamento, né un ulteriore legge sia stato del tutto disatteso dalla curia romana. Si figurino le innumerevoli bolle papali e i vari decreti rilasciati dai numerosi concili di cui si perde il conto - tanti ve ne sono stati -, assolutamente inattendibili in quanto scritti da degli uomini-peccatori, dunque fallibili, e proprio per ciò privi dell’originaria ispirazione divina delle Sacre Scritture, diversamente infallibili. Questo è quel che più dovrebbe farci riflettere senz’altro sul travisamento operato da molti dei suoi seguaci dell’autentico messaggio di colui che Nietzsche definì giovane ebreo. Chissà che forse non abbia ragione il succitato filosofo tedesco a sostenere che il Cristianesimo delle origini, vale a dire l’insegnamento originario del suo fondatore, sia stato mistificato da alcuni suoi discepoli: su tutti gli apostoli Paolo e - aggiungeremmo noi, alla luce di questo Vangelo di Maria - anche Pietro… 

 

Vangelo di Verità

 

Molto presumibilmente questo Vangelo è opera del vescovo Valentino, il quale per poco non divenne papa. Infatti questi venne battuto proprio all’ultimo dal vescovo Aniceto. Secondo la concezione valentiniana si possono raggruppare le persone entro tre gruppi: ilici, coloro i quali conducono una vita nella più imperfetta ignoranza e quindi sono molto simili a delle bestie, e per cui la Salvezza è un traguardo pressoché irraggiungibile; psichici, coloro i quali invece essendo dotati di libero arbitrio hanno raggiunto un minimo livello di comprensione della Rivelazione divina, ciononostante sono in bilico tra il credere e il non credere, la loro Salvezza è tutta nelle loro mani; pneumatici, coloro i quali hanno raggiunto la pienezza della comprensione degli Eoni (particelle conoscitive emanate dal Pleroma, che è la pienezza primigenia del Padre da cui essi sono stati promanati): la Sofia, Sapienza è stata il primo Eone a venire al Mondo. Infine il Logos, cioè Gesù, il quale ha saputo squarciare il velo Maya delle apparenze di questo illusorio Mondo per liberare l’umanità dalla schiavitù ottenebrante dell’ignoranza, rivelando così la luce della conoscenza divina. Quest’ultima prende il nome di gnosi, vale a dire la conoscenza mistica del Padre che risiede in ogni singola particella del Creato. Lasciamo parlare il testo:

 

L’ignoranza del Padre fu sorgente di angoscia e di paura. L’angoscia si è condensata come una caligine, sicché nessuno ha potuto vedere. Perciò l’errore si è affermato: ignorando la verità, ha elaborato la sua materia nel vuoto. Si industriò a formare una creatura sforzandosi di ancorare nella bellezza l’equivalente della verità [13].  

 

Come disse un famoso poeta romantico inglese: “La verità è bellezza, la bellezza è verità”. È nostra intenzione rielaborare tale sublime intuizione poetica in chiave, però, gnostica. Ossia Cristo è al contempo Verità e Bellezza. In lui si concretizza la Rivelazione del Padre celeste. La verità-bellezza del Figlio diviene, perciò, conoscibile e cosicché alla portata di tutti coloro i quali vogliono colmarsi nella sua pienezza rinfrescante, che ridona serenità ai cuori angosciati dall’ignoranza obliante. Nel testo si riporta:

 

L’oblio, infatti, pervenne all’esistenza perché non conoscevano il Padre: dal momento, dunque, in cui conoscono il Padre, l’oblio non sarà più [14].

 

Il Dio Sconosciuto si rivela, secondo Valentino, attraverso gli Eoni. Essi dopo essere caduti sulla Terra si sono dispersi in singole particelle conoscitive. Questa concezione valentiniana ci richiama in mente il mito dell’oscuro dio greco Dioniso Zagreo. Questi, secondo il mito, dopo innumerevoli metamorfosi tentate per scongiurare la cattura, viene prima scovato dopodichè fatto a pezzi dai Titani, i quali ne disperdono poi i brandelli ovunque. Ciò a testimonianza della commistione nel Cristianesimo primitivo di alcuni elementi mitologici riconducibili alla tradizione ellenica. Proseguiamo nella lettura del testo:

 

Colui, infatti, che non conosce è nel bisogno; e ciò di cui ha bisogno è grande, giacché ha bisogno di ciò che lo rende perfetto [15].

 

L’uomo, dunque, è bisognoso di conoscere. Egli necessita di rapportarsi con Dio ed ha, perciò, bisogno di discernerne la natura veritiera; liberandosi così dalle proprie afflizioni in modo da cogliere quel barlume divino rilucente negli Eoni, che rappresentano il suo tramite con la divinità. In essi, infatti, zampilla rigogliosa la sorgente di pienezza del Padre. Chi s’immergerà in essa raggiungerà così l’unità con il molteplice e:

 

Nell’unità ognuno ritroverà se stesso. Nell’unità, per mezzo della conoscenza, egli purificherà se stesso dalla molteplicità; come una fiamma, divorerà in se stesso la materia: l’oscurità per mezzo della luce, la morte per mezzo della vita [16].

 

Dalla purificazione del molteplice si ottiene l’unificazione della conoscenza. Essendo l’errore la manifestazione più sconcertante del vuoto che tutti ci avvolge, esso consiste in nulla; come rimedio a ciò, vi è la conoscenza rivelata del Padre, appunto, che colma ogni margine d’errore, cioè di nullità. L’errore ricopre la superficie effimera delle cose. Perciò occorre rivestirsi dell’uomo perfetto, usando un’immagine evocata dall’apostolo Levi nel Vangelo di Maria, e rifugiarci in Dio che è, invece, riparatore d’ogni errore in quanto ripieno di perfezione. In estrema sintesi, Dio è Volontà! Infatti:

 

Nella volontà il Padre si riposa, e si compiace. Nulla avviene senza di lui, nulla accade senza la volontà del Padre. Ma la sua volontà è imperscrutabile. La sua orma è la sua volontà, ma nessuno la può conoscere, ne è possibile scrutarla per comprenderla. Ma quando egli vuole, avviene quanto egli vuole; anche se la vista di ciò non piace loro affatto; davanti a Dio questa è la volontà del Padre [17].

 

Vangelo di Filippo

 

Per entrare nella giusta ottica di questo Vangelo, ne riportiamo un pezzo davvero emblematico:

 

Quelli che seminano d’inverno raccolgono d’estate: l’inverno è il mondo, l’estate è l’altro eone. Seminiamo in questo mondo per poter raccogliere nell’estate [18].

 

A quanto pare occorre gettare la semina in questo mondo terreno, per poter poi raccoglierne i frutti nel mondo celeste. L’estate sta a simboleggiare il mondo laddove il Sole della conoscenza splende imperituro rischiarando il volto degli uomini savi, la cui fede nell’Onnipotente li condurrà verso la Salvezza ultraterrena. Secondo Filippo la verità è unità nella molteplicità e a tal proposito afferma:

 

Ma la verità addusse nel mondo dei nomi, poiché è impossibile insegnarla senza nomi. La verità è una unità, ma è anche molteplicità per noi, affinché impariamo tale unità nella molteplicità [19].

 

Addurre dei nomi è indispensabile alla verità per divenire manifesta, cioè di pubblico dominio. Ossia la verità va alfabetizzata attraverso l’inestimabile dono del Verbo incarnatosi nel Figlio, il quale per mezzo delle proprie “parabole” espresse la volontà irrefrenabile del Padre. In aggiunta vi è una temeraria affermazione molto interessante:

 

C’è chi dice: «Maria ha concepito per opera dello Spirito Santo». Sbagliano. Non sanno quello che affermano. Quando mai una donna ha concepito per opera di una donna? [20].

 

Dunque lo Spirito Santo è femmina. Proprio qui, a nostro avviso, possiamo rintracciare la vera eterodossia degli gnostici. Ossia l’incredibile valenza che essi assegnano alla femmina. Eva ha sì offerto la mela ad Adamo, però, questi non si è fatto alcuno scrupolo a mangiarla senza minimamente riflettere sulla conseguenza sciagurata della sua azione. Ciò vuol dire che essi sono entrambi colpevoli. Perciò ecco qui che la forte valenza negativa della donna, fornitaci da una certa ortodossia largamente prevalente, decade almeno in parte. D’altronde se la Maddalena è stata effettivamente la prediletta del Messia una ragione dovrà pur esserci. Secondo noi proprio la sua ammissione di colpa, le ha permesso di entrare nelle grazie del Salvatore. L’impurità della carne è una conseguenza inevitabile dell’imperfezione costitutiva dell’uomo. Quindi il fatto è che: la natura umana è impossibilitata a rimanere pura nella carne, poiché il corpo è corruttibile ed è plasmato nell’errore, bensì la vera purezza risiede proprio nello spirito. Proprio perché ha molto peccato, molto le sarà perdonato; dice Gesù riferendosi a Maria. Ecco che involontariamente ritorniamo a Lutero: solo passando attraverso una sincera e attiva contrizione si può essere perdonati. Le opere da sole non bastano. Esse, infatti, sono consequenziali, e cioè: in virtù della propria contrizione si compiono nobili gesta per riscattarsi dai precedenti peccati commessi. Le une, le opere, dipendono dall’altra, la contrizione; ma non viceversa. I santi non hanno alcun fondamento nelle Sacre Scritture e dunque sono una mera invenzione del clero per avvicinare le persone all’esempio, altresì, inavvicinabile di Cristo. La condotta impeccabile è soltanto ipocrisia, come insegna Cristo.  

«Colui che non mangia la mia carne e beve il mio sangue non avrà in sé la vita». Che cosa significa? La sua carne è il Logos, e il suo sangue è lo Spirito Santo. Colui che ha ricevuto questo ha cibo, bevanda, e vestito [21].

 

Se lo Spirito Santo è femmina, come abbiamo già detto, il Logos invece è maschio o meglio ancora il Verbo fattosi Carne, vale a dire Gesù. Se Cristo è stato un uomo, come vi è stato ampiamente documentato, tale deve esserlo stato a trecentosessanta gradi.  Ossia deve esser stato dominato, come tutti del resto, dalle stesse pulsioni che caratterizzano ciascun uomo, tra cui la concupiscenza. E non è da escludere, perciò, che questi abbia concupito effettivamente con Maria, la sua discepola prediletta. Tale concezione - mettendo da parte una certa quanto meno “discutibile” ortodossia - non sembrerebbe poi tanto assurda, semmai scomoda per alcuni. Tuttavia non è nostro intento gettare benzina sul fuoco. Altri lo hanno fatto e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Leggendo il Vangelo di Filippo s’incontrano ripetutamente delle forze nemiche rappresentate dagli Arconti, i quali si frappongono agli Eoni tentando in tutti i modi di disturbare la loro opera di chiarificazione dei cuori turbati degli uomini e di conquistarli alla vera fede. Generare significa creare per la prima volta. Il generare ha una funzione decisamente più radicale del semplice creare. Perciò un solo uomo è stato generato, tutti gli altri sono stati creati. E costui è il Cristo vivente. Seguitando citiamo alla lettera il testo:

 

La fede riceve, l’amore dà. Nessuno può ricevere senza la fede. Nessuno può dare senza l’amore. Per questo, appunto, crediamo, per ricevere veramente; è così che possiamo amare e dare, giacché se uno non dà per amore, non trae profitto da ciò che dà [22].

 

L’inscindibilità tra fede e amore viene qui pronunciata in tutta la sua deflagrante potenza. Il dare, a quanto pare, è sinonimo d’amare. Dunque più si dà e più vuol dire che si ama. La caratteristica che fa del cristiano un’autentica “forza della natura” è proprio la sua incrollabile fede nell’amore verso il prossimo. Infatti rispondere ad un affronto con un altro affronto è sin troppo facile. Mentre molto più difficile è rispondere ad un affronto con un “atto di amore”, poiché così si disarma letteralmente chi ha commesso l’affronto. Alla violenza non si deve rispondere con altrettanta violenza. La funzione dell’amare il prossimo attuata dal cristiano serve giusto per placare questo altrimenti inarrestabile “circolo vizioso”. Infatti:

 

Se dici: «Sono ebreo», nessuno si commuove; se dici: «Sono romano», nessuno trema; se dici: «Sono greco, barbaro, schiavo, libero», nessuno si agita. Se dici: «Sono cristiano», trema il mondo. Riceva io questo segno che gli arconti non possono sopportare, allorché odono il suo nome [23].

 

Basti pensare all’edificio dell’Impero Romano sbriciolatosi miseramente grazie all’azione non-violenta di coraggiosi martiri, i quali - invece di rendere pan per focaccia - combatterono l’odio dei loro persecutori con l’amore che tutto comprende, parafrasando un’espressione tanto cara all’apostolo Paolo. Inoltre vi è una magnifica metafora di Gesù come tintore, che vorremmo commentare:

 

Il Signore entrò nella tintoria di Levi, prese settantadue colori, lì gettò nel calderone e lì ritrasse tutti bianchi e disse: «Il Figlio dell’uomo è giunto invero come un tintore» [24].

 

Compito di Cristo è stato quello, fra gli altri, di riportare il  colore nelle esistenze altrimenti opache degli uomini. E il colore più neutro di tutti è il bianco-purificatore! D’altronde anche nella concezione platonica i colori qualificavano dei “valori spirituali”. Per giunta da sempre il colore rappresenta nell’immaginario collettivo la speranza che tutto ingloba a sé. Infatti le tre virtù teologali sono in ordine crescente, cioè da quella meno a quella più importante: la fede, l’amore e, soprattutto, la speranza. In fin dei conti una fede così come un amore senza speranza sarebbero del tutto vani, poiché tutto spera la speranza. Il testo, poi, prosegue:

 

In questo mondo c’è del buono e c’è del cattivo: il suo buono, non è buono, e il suo cattivo non è cattivo. Ma, dopo questo mondo, c’è qualcosa di veramente cattivo, ed è il luogo di mezzo. Esso è la morte [25].

 

La morte è il “terrificante” luogo di mezzo. Ossia: l’oblio vertiginoso che tutto fa sprofondare, il nulla eterno che tutto inghiotte, la disperazione angosciante che annichilisce ogni speranza. E chi non ha mai sperato è come se non avesse mai vissuto. La speranza costituisce il “tessuto connettivo” del quale si compone la fede. Il messaggio di questo Vangelo è essenzialmente di carattere ermetico. Infatti, per l’autore di questo ricchissimo testo, la Verità è un fittissimo reticolato di “segni” solo apparentemente indecifrabili, che possono venire colti nell’intricata foresta dei simboli e delle immagini solo attraverso il loro baluginante scintillio, che ci svela orizzonti inesplorati dando un autentico significato alle nostre altrimenti scialbe e insignificanti esistenze. Impreziosiamo la nostra osservazione con la frase-chiave che può volendo racchiudere l’intero testo:

 

La verità non è venuta nuda in questo mondo, ma in simboli e in immagini (…) [26].  

 

 

     

 

 

 



[1] Vangeli gnostici, a cura di Luigi Moraldi, Adelphi Edizioni, Milano, 2005, cit. pp. 15.

[2] Idem nota uno, cit. pp. 5.

[3] Idem nota due, cit. pp. 5.

[4] Idem nota tre, cit. pp. 8.

[5]Idem nota quattro, cit. pp. 13.  

[6] Idem alla nota cinque, cit. pp. 14.

[7] Idem nota sei, cit. pp. 17.    

[8] Idem alla nota sette, cit. pp.  20.

[9] Il contratto sociale, J.J. Rousseau, a cura di Maria Garin, Editori Laterza, Bari, 2003, cit. pp. 201. 

[10] Idem alla nota otto, cit. pp. 23.

[11] Idem alla nota dieci, cit. pp. 24.

[12] Idem alla nota undici, cit. pp. 26.

[13] Idem nota dodici, cit. pp. 29.

[14] Idem nota tredici, cit. pp. 30.

[15] Idem alla nota quattordici, cit. pp. 32.

[16] Idem alla nota quindici, cit. pp. 84.

[17] Idem alla nota sedici, cit. pp. 42.

[18] Idem alla nota diciassette, cit. pp. 50.

[19] Idem alla nota diciotto, cit. pp. 51.

[20] Idem alla nota diciannove, cit. pp. 52.

[21] Idem alla nota venti, cit. pp. 53.

[22] Idem nota ventuno, cit. pp. 57.

[23] Idem alla nota ventidue, cit. pp. 57-58.

[24] Idem alla nota ventitre, cit. pp. 58.

[25] Idem alla nota ventiquattro, cit. pp. 60.

[26] Idem alla nota venticinque, cit. pp. 61.



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