Il ruolo del docente[1]

di Antonietta Pistone

 

 

            Nella relazione di ingresso in ruolo, dopo l’anno di formazione e di prova 2005-2006[2], scrivevo che l’insegnamento è una missione impegnativa che coinvolge interamente, perché la scuola produce cultura, ma è soprattutto il luogo di incontro di persone che maturano e crescono insieme. Il compito della classe docente è impegno etico, che si caratterizza per l’educazione ai valori fondamentali ed eterni dell’umanità. Il docente deve possedere la struttura epistemica della disciplina che insegna, ma deve al contempo essere un buon comunicatore, in grado di coinvolgere nella dialettica dell’interazione ogni singolo allievo. La tradizione scolastica italiana si caratterizza sin dalla Riforma Gentile del 1923 per la predilezione verso i saperi umanistici. La nostra scuola, fondata su tali presupposti, appare retrograda nei confronti del modello tecnocratico tedesco in cui tuttora predomina il mondo del lavoro, come elemento di confronto della didattica e come obiettivo finale del sistema di istruzione. La scuola progressista del futuro, nell’intento di recuperare decenni di tradizione umanistica in cui era del tutto assente l’aspetto tecnico scientifico dell’istruzione, propende ad un’educazione che sia davvero per tutto l’uomo nella sua interezza. Una scuola del futuro che riconosca alla classe docente, depositaria della cultura di un popolo e di una civiltà, quella sacralità commemorata da Platone nella Repubblica. La scuola è stata coinvolta nel nichilismo dei valori che ha toccato, più o meno gravemente, tutte le istituzioni sociali. La tecnologia è cieca ed immiserisce l’uomo ad una sola dimensione, quella tecnica. I valori culturali, etici, umani e laici costituiscono il presupposto di qualsivoglia educazione che intenda liberare l’uomo. La cultura è strumento di affrancamento e di riscatto, dalla schiavitù delle passioni, dei vizi, della noia e della passività. Anche i valori dello spirito, della religiosità, sono emblemi da recuperare. Eppure nelle scuole oggi si assiste ad episodi di insubordinazione ai docenti, e di incomprensione tra compagni dello stesso gruppo classe. Evidentemente c’è qualcosa che non funziona nel profondo. E la scuola, che appartiene a tutti, non può non interrogarsi su problemi così decisivi per il suo futuro. La cultura è patrimonio dell’umanità perché non vuole padroni. Gli insegnanti devono essere persone libere e senza pregiudizi, capaci di inculcare i valori dell’indipendenza e dell’autonomia interiore. «Educazione è azione formatrice della capacità di pensare, volere e sentire con autentica libertà. Questo concetto critico è una piattaforma teoretica molto lata sulla quale s’incontrano pacificamente contrastanti pedagogie per un comune dialogo costruttivo. L’educazione, infatti, libera l’uomo dalle sue numerose schiavitù interne ed esterne e lo fa progressivamente sempre più capace di azioni libere, autonome e personali. L’uomo libero è colui che pensa con la sua testa e che irraggia tutt’intorno la serenità, il gusto e la bellezza del suo stato. Egli è artefice del suo destino, padrone dei suoi atti, coraggioso, sveglio e vigilante» scriveva mio zio che mi ha trasmesso la passione per la filosofia e la storia, oltre che per la scrittura ed il giornalismo, nel 1968, quando era un giovane professore di trentacinque anni (Spigolando tra i pensieri in La scuola del crepuscolo, Pietro Pistone, Litostampa Minervini, Giugno 1968, Molfetta). Quest’uomo, che è poi diventato docente di storia e filosofia, oltre che giornalista, e che ha collaborato presso l’Università degli Studi di Bari e Napoli con il prof. Antonio Corsano, ha lottato per la libertà e la trasparenza fino alla fine, come un novello Socrate, sempre andando contro i suoi personali interessi. Considerato dai più un ingenuo si è battuto per l’espressione incondizionata del pensiero, come forma di liberazione delle coscienze dei giovani. Spesso ne ha pagato direttamente le conseguenze. Ma non si è mai piegato, e non ha mai avuto padroni.  Io credo come lui che la scuola debba riacquistare quel ruolo di prestigio che in qualche modo, in questi ultimi anni, le è stato sottratto. «Tempi nuovi si annunciano ed avanzano in fretta come non mai. Il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che storture, ingiustizie, zone d’ombra, condizioni di insufficiente dignità e di insufficiente potere non siano oltre tollerabili, l’ampliarsi del quadro delle attese e delle speranze all’intera umanità, la visione del diritto degli altri, anche dei più lontani, da tutelare non meno del proprio, il fatto che i giovani, sentendosi ad un punto nodale della storia, non si riconoscano nella società in cui sono e la mettono in crisi, sono tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità. Vi sono certo dati sconcertanti di fronte ai quali chi abbia responsabilità decisive non può restare indifferente: la violenza talvolta, una confusione ad un tempo inquietante e paralizzante, il semplicismo scarsamente efficace di certe impostazioni sono sì un dato reale e anche preoccupante. Ma sono, tuttavia, un fatto benché grave, di superficie. Nel profondo, è una nuova umanità che vuole farsi, è il moto irresistibile della storia. Di fronte a sconcertanti e, forse, transitorie esperienze c’è quello che solo vale ed al quale bisogna inchinarsi, un modo nuovo di essere nella condizione umana [...]», scriveva Aldo Moro il 21 novembre del 1968. Ormai è necessario ricercare una legge morale per la società e lo stato, un’anima nuova che si faccia linfa vitale della cultura e dell’uomo. La scuola, in vista della costruzione di questo dinamico equilibrio, che accetti il cambiamento per incorporarlo progettualmente e fattivamente, ha un ruolo di primo piano nella formazione delle coscienze civili e politiche dei giovani. Alcuni pedagogisti gridano allo scandalo, e invocano autorità ed autorevolezza. Non credo sia questa la soluzione all’immobilità del nostro presente. Inviterei a riflettere sul vuoto di senso, sul deserto heideggeriano che ci circonda. Sulla morte di Dio e sulla fine della morale e dei valori di cui parla Nietzsche. Sul suo necessario ateismo, inteso come adulta presa d’atto che, seppure ci sia stato, Dio non tornerà mai più. Questo ateismo, insieme con il suo conseguente smarrimento, costituiscono la  medesima situazione psichica di molti dei nostri giovani allievi. Il nichilismo non va rifiutato. Qualcuno oggi dice che va attraversato fino in fondo. E che l’inferno del nulla sia preferibile alla verità preconfezionata, comodamente offerta ed onorata dalla tradizione. I giovani hanno il diritto di intuire una strada che sia realmente percorribile.  Un futuro libero e democratico, degno di essere vissuto nel disprezzo dell’emarginazione, del razzismo, dell’intolleranza. Piuttosto che imporre regole eteronome dettate con la forza, la scuola dovrebbe ricominciare ad educare, con la Storia, maestra di vita, e con l’Educazione civica, il cui insegnamento fu introdotto proprio dal costituzionalista Aldo Moro, che fece poi abolire le leggi razziali fasciste. Bisogna inculcare nei giovani i valori forti della Filosofia, che si interroga costantemente sul destino dell’uomo, cercando di rendergli possibile il raggiungimento della conquista più ardua, che è quella della felicità. Una felicità esistenziale e storica, che non abbia nulla di trascendente, né che aspiri a verità assolute e dogmatiche. Che sia semplicemente consapevole di sé, dei suoi propri vissuti empirici, e che si assuma il compito oneroso del prendersi cura, del fare attenzione, del dialogare con l’altro, imparando ad ascoltare oltre il sentire e a guardare oltre il superficiale atto del vedere. [… ] Non credo nell’educazione formale, troppo spesso vuota di contenuti reali. […] Ma la conquista di un equilibrio democratico e maturo si dimostra sempre assai difficoltosa da raggiungere nell’immediato, avendo bisogno di tempi lunghi e dilatati per realizzarsi pienamente. L’autogestione resta il mio obiettivo. L’autonomia del porsi domande per camminare insieme con l’insegnante, che lungi dal sentirsi il depositario dello scibile, è comunque e sempre una persona che si interessa di cultura, e che ha piacere di approfondire, facendo un percorso comune a quello dei suoi stessi allievi. […] Il mio si conferma un metodo scomodo e faticoso nel breve periodo. Ma, alla lunga, risulta vincente per tutti, favorendo un clima di positivo ascolto e collaborazione tra docente e allievi. I giovani, infatti, lasciati liberi di organizzare il tempo individuale di studio, si responsabilizzano e raggiungono autonomamente determinati obiettivi di contenuto disciplinare, attraverso una competenza finale che si attesta, per la maggioranza di loro, sugli obiettivi minimi. Sono d’accordo con il filosofo Giovanni Gentile che riteneva fondamentale la conoscenza delle discipline storico-filosofiche per ciascun futuro dirigente o uomo politico. In questo senso anche io ritengo che l’educazione liceale si confermi formazione privilegiata, sebbene universalmente estendibile in linea teorica. Nell’epoca post-moderna ci si trova proiettati a vivere nella cittadinanza globale. Nessuno può dirsi estraneo ai fatti accaduti, né agli eventi storici che, seppure lontani nel tempo, finiscono imprescindibilmente per influire sugli aspetti più pregnanti della civiltà contemporanea. Il male peggiore è, oggi, l’indifferenza che, nell’ignoranza, rende ogni aspetto del reale uguale a tutto il resto. Le prospettive storico-politiche sono tutt’altro che rosee, perché è difficile da vivere e da comprendere l’attuale momento storico. La storia, magistra vitae, insegna ad interpretare in modo critico e problematico il passato per capire meglio il presente, ed evitare, in futuro, che si ripetano gli errori già commessi. Ma non è facile smuovere le menti dei giovani, spesso già conformistiche e plasmate dalla mentalità degli adulti che hanno vicino. D’altra parte è improbabile che un adolescente abbia avuto il tempo di fermarsi a riflettere profondamente sulle sue convinzioni. I miei alunni più capaci ed intelligenti mi mettono in grave difficoltà ed imbarazzo quando si tratti di affrontare con loro le problematiche dell’immigrazione. Le questioni sociali dei rom sono percepite essenzialmente come un fastidioso problema della contemporaneità, ritenendo che sia più conveniente per determinate categorie sociali e ceppi razziali, che questi portatori di disordini restino ghettizzati ai margini della civiltà, che lavorino pure agli impieghi più umili purché non diano fastidio. Ugualmente per le violenze sessuali, di cui sono unanimemente ritenuti responsabili dai più. Ho tentato di far capire ai miei allievi come sia difficile avvicinare la diversità, e quanto questo sia, nonostante tutto, un compito doveroso ed impellente per le nostre generazioni, che hanno ancora sulla loro pelle gli effetti devastanti dei campi di concentramento e dei pogrom. Ho riportato loro la memoria dei nostri italiani che nella seconda metà dell’ottocento hanno sfidato la fortuna, emigrando in America, per mantenere moglie e figli che spesso restavano in patria ad aspettare quattrini per potersi sfamare, e vivere in modo più degno e decoroso di quanto non facessero prima. Non di rado mi sono trovata davanti un muro di gomma, impenetrabile. E proprio dai giovani che dimostravano di possedere maggiori abilità critiche e dialettiche. Non mi sono spaventata né irretita, pur nella consapevolezza del ruolo sempre più scomodo di chi vuole tentare l’impresa di aprire la mente delle nuove generazioni ad uno sguardo ampio e prospettico, che includa la polimorfa complessità del reale. Troppo torpore ha atrofizzato la versatilità, la leggerezza, l’abilità di modificare le proprie opinioni per incontrare davvero l’altro, al fine di stabilire una relazione significativa e costruttiva. La stessa difficoltà ho incontrato nell’affrontare il tema della religione, ed in particolar modo quello della reale natura di Dio, e della fede. La maggior parte degli alunni crede, e si dichiara cattolica, anche per tradizione. Ma quelli che tra di loro si definiscono atei, sono profondamente convinti delle loro opinioni, e rifiutano anche la possibilità di una fondazione metafisica in senso forte, come ricerca ontologica dei valori morali.  Tuttavia, il vero incontro, sosteneva giustamente Socrate, è fondato sul dialogo, che è sempre una forma di introspezione clinica in cui ciascuno mette in gioco se stesso e l’altro, senza la benché minima presunzione di stare nel giusto. Il mio sogno è quello di una scuola che abitui i giovani al confronto dialettico con gli altri, compagni e insegnanti. Ma è, al tempo stesso, una meta ancora utopica, che si può tentare di costruire, e per la quale vale ancora la pena di esserci, per approntare una sfida alla post-modernità. I miei programmi dello scorso anno risentono di questa impostazione. Ho trattato la filosofia ebraica, perché sentivo la necessità di trasmettere loro, unitamente all’esperienza devastante del nichilismo nietzscheano, anche la fede in una speranza possibile. Quest’anno ho, invece, recuperato il sintetismo idealistico di Rosmini, anche attraverso la fondazione ontologica dei valori di cui parla lo storico della filosofia Pier Paolo Ottonello. Si trattava di trasmettere la speranza nella persona umana, ormai distrutta dalla criminalità organizzata, dalla Mafia, dal mondo onnivoro della droga, che hanno travolto l’uomo. Perché un siffatto scenario lascia un orizzonte di disperazione e di vuoto negli occhi dei giovani. Mentre doveva tornare a splendere la luce, dopo aver varcato insieme le colonne d’Ercole del peccato di Ubris, del patto di Mefistofele che tutto promette affidandolo alla scienza e alla filosofia. Certamente vi è in ciò la presunzione che la ricerca possa in qualche modo rendere l’uomo felice. Ma in questo caso si trattava di far capire loro che la persona resta un valore. E che un valore immenso, nel cui fondo si agita per il credente la presenza, immagine del Dio Creatore, deve essere comunque riconosciuto nello sguardo dell’altro, nelle sue parole, nel dialogo di relazione, in cui un io ed un tu vengono ad incontrarsi per avvicinarsi mutuamente, reciprocamente affinarsi e modificarsi. Dopo aver attraversato senz’altro per intero l’inferno del nichilismo. Abbiamo bisogno di scuole di umanità. E non esiste scienza al mondo che sia capace di esprimere la grandezza dell’uomo, il suo intrinseco valore, la memoria storica, fedelmente custodita nel patrimonio della civiltà e del suo popolo, che non possa essere distrutta dalla violenza efferata dell’uomo sull’uomo. La guerra è il male peggiore. Eppure, dopo due guerre mondiali, non lo abbiamo ancora capito se, evidentemente, esiste l’odio razziale, la presunzione della razza perfetta e pura, incontaminata, che deve primeggiare sulle altre. Quanto più cresce e si affina la cultura scientifica e tecnologica, tanto maggiormente vi è un bisogno intrinseco di filosofia, che faccia di se stessa uno strumento di educazione alla pace dei popoli e tra i popoli. L’intercultura non deve restare un sogno. Necessita doverosamente di divenire un imperativo categorico kantiano per la nostra umanità. La pace tra civiltà resta possibile solo attraverso un reale incontro tra le differenti culture. D’altra parte la vera conoscenza muove sempre dall’amore. Fino a che il patrimonio delle civiltà non saprà insegnare il rispetto reciproco della storia dei popoli, le culture resteranno tra loro sempre “altre” espressioni di società. Credo fermamente che insegnare oggi storia e filosofia sia un compito ingrato, spesso mal pagato in termini di soddisfazione economica, sempre oneroso e impegnativo, e per questo coinvolgente. Non esiste nulla di più vero per l’uomo che non rappresenti il confronto con la diversità, e non implichi il dialogo comunitario e condivisibile della relazione autentica, che riconosce nel volto dell’altro la trascendenza di Dio, secondo il mirabile insegnamento di Lévinas. Perché solo allora l’altro è concepito come totalità olistica di anima e corpo, sinolo aristotelico di materia e forma, leib come unità dei vissuti psichici, e non Körper, organismo vivente, secondo l’insegnamento della filosofa tedesca Edith Stein. Il personalismo si propone, allora, come via di fuga dal nichilismo, suggestivo ed ammaliante, ma pericoloso per la sua eredità troppo pesante da lasciare ai giovani la prospettiva di desolazione e di disperazione dolorosa. Ho poi voluto spegnere le certezze del personalismo nella precarietà della filosofia dell’esistenza di Heidegger, dopo aver studiato l’approccio fenomenologico della coscienza intenzionale e del suo residuo. Il personalismo rimane una soluzione, ma è necessario prospettare anche l’interrogativo, la domanda, la ricerca di senso, il vuoto, il deserto, il nulla. Il compito della filosofia e della storia è, per il futuro, un pesante fardello di ricostruzione della speranza negata ed umiliata. C’è bisogno di una nuova etica, che dia senso e significato alle prospettive umane. Una nuova ecologia che renda abitabile la terra per le prossime generazioni. Una morale che si riconosca nel rispetto della persona umana, come valore imprescindibile ed ineguagliabile. Che avvicini la scienza all’uomo, alla sua mente, ma anche al suo cuore. Necessitiamo di una storia che non sia favola, ma che riscopra il valore delle grandi narrazioni edificanti del passato, sulle quali poter costruire nuovi orientamenti. Dobbiamo imparare a riconoscere il peso di una storia che si faccia politica nel senso vero della parola, e che riscopra, come Hannah Arendt sosteneva, il ruolo sociale della polis greca, laddove “fare politica” volesse dire inequivocabilmente preoccuparsi della città e della sua amministrazione. Qualcosa che implicasse direttamente un ruolo precipuo per ogni cittadino che volesse dirsi tale, fino ad essere disposto a sacrificare la propria vita, come fece Socrate, come sono oggi disposti a fare tutti coloro i quali lottano quotidianamente per fare doverosamente e fino in fondo il proprio dovere: insegnanti, magistrati, uomini politici, giornalisti, che restano vittime di un sistema omertoso e colludente con la Mafia. Spero di aver insegnato ai miei alunni la fede negli ideali più alti del loro compito, in quanto cittadini dello Stato italiano, attraverso la lettura di alcuni articoli della Costituzione, che esalta il lavoro come valore e attaccamento al dovere. Ma spero di averlo insegnato anche, e soprattutto, con l’esempio che ho loro quotidianamente offerto.



[1] La presente relazione è stata da me scritta per la conferma in ruolo su passaggio di cattedra dalla classe di concorso per l’insegnamento di filosofia e psicologia (A036) alla classe di concorso per l’insegnamento di storia e filosofia (A037), avvenuta in coda all’anno scolastico 2008-2009

[2] Si tratta della prima relazione di ingresso in ruolo, per la classe di concorso di filosofia e psicologia (A036)



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