SAN PAOLO: ANTESIGNANO DELLO SPIRITO EUROPEO?

 

di Emanuela Catalano

 

La seguente disamina verterà sulle relazioni esistenti tra le origini del primissimo Cristianesimo, in particolar modo tra il suo sistematizzatore Saulo di Tarso e l’odierno processo di unificazione dell’Europa. Il tema apparentemente non presenta immediati punti di contatto con l’attualità; se però riflettiamo sullo sforzo paolino di rendere universale quella che fino ad allora era una religione marcatamente nazionalista ecco che iniziano a delinearsi alcuni spunti di riflessione utili ad una analisi approfondita delle radici e dello spirito che da sempre ha animato i nostri legislatori e costituzionalisti. Il richiamo a San Paolo diviene perciò imprescindibile, un punto di riferimento affascinante ed ineludibile al tempo stesso per chiunque voglia interrogarsi sul senso del nostro tempo. Qual è il nesso dunque, il collegamento fra San Paolo, le sue Lettere[1], la sua predicazione ai gentili, la sua missione evangelizzatrice in poche parole e l’attuale processo di integrazione europea, nonché la stessa identità europea? Vedremo come lo sforzo intrapreso da Paolo, attuatosi fra l’altro proprio nell’area soggetta all’odierno processo di riunificazione, sia in realtà all’origine della costituzione di quell’humus socio-culturale comune che è alla base dell’implicito pensiero collettivo dell’Europa.

Paolo è di una lungimiranza straordinaria se consideriamo il fatto che questioni da lui trattate duemila anni or sono si apprestano a tornare di grande attualità, non solo sotto il profilo teologico ma anche filosofico-politico. Egli fu un uomo del suo tempo, abituato a muoversi con grande libertà all’interno delle province dell’Impero romano; ebreo della diaspora, era orgoglioso di essere cittadino romano. Emerge il ritratto di un uomo colto, che parla ben quattro lingue[2] e che si dichiara pronto a spostarsi per terra e per mare, affermando a più riprese di volersi spingere fino alle estremità della Terra allora conosciuta per adempiere al disegno che Dio aveva tracciato su di lui: il suo è già un universalismo interiore, oltre che geografico. Paolo prende le mosse da Israele per estendere il suo discorso in direzione di una prospettiva più ampia e di ben più vasto raggio. Certamente non avrebbe mai potuto immaginare che il tempo dell’attesa escatologica, così centrale nella semantica del primo Cristianesimo, si potesse protrarre fino all’inverosimile: egli credeva davvero che il tempo stesse per terminare[3].

All’interno dell’excursus paolino, si passa così dall’iniziale elezione di Israele, da un nazionalismo settario, ad un allargamento ai pagani sino a comprendere l’intero genere umano, dal momento che il Messia di cui egli recava notizia non era venuto a dividere ulteriormente bensì ad abbattere tutti i muri della separazione, avendo Dio stesso elargito la sua promessa di salvezza eterna a tutte le genti. Leggiamo nelle Scritture: «Frattanto questo Vangelo del regno sarà annunziato in tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti; e allora verrà la fine» (Mt 24, 14)[4]. In poche parole, chiunque avesse avuto fede in Lui, nella sua morte e resurrezione, a prescindere dalle differenze di razza, di sesso, lingua, cultura, credo religioso, usi e costumi, sarebbe stato salvato: «Dio vi scelse come primizia per la salvezza attraverso la santificazione dello Spirito e la fede della verità» (II Tes 2, 13)[5]. Da qui, si comprende anche la necessità impellente di vigilare costantemente – si pensi all’importanza che il tema della veglia, dell’attesa riveste in certi autori, sto pensando in particolare allo scrittore ceco Franz Kafka – o ancora, a Pascal, che afferma che il “Cristo è in agonia fino alla fine del mondo e che in questo frattempo non dobbiamo dormire”[6]. Il dramma dell’attesa è costituito dal fatto che non sappiamo quando e dove il Messia verrà, anzi a complicare le cose – per citare Benjamin – “ogni istante diviene quella piccola porta attraverso la quale il Messia potrà entrare”[7], dal momento che Egli verrà “come un ladro nella notte” (II Tes 5, 2).

Che senso aveva promettere la salvezza ad un popolo – innalzarlo al rango di popolo eletto, modello per le altre nazioni – per poi assistere al suo annientamento nelle camere a gas? Fin dagli esordi della sua storia, Israele fa sfoggio di un privilegio, il cosiddetto “vanto” dell’elezione, condizione della sua “separatezza” (e dunque perdizione?) essendo nota la tendenza degli ebrei a vivere isolati dagli altri popoli. La loro Torah costituisce infatti una siepe, una parete divisoria, finalizzata ad evitare qualsiasi tipo di contaminazione da altri elementi, considerati estranei o comunque “impuri”[8].

Ed è proprio in virtù di questa separatezza che Paolo va a predicare fra i gentili, i pagani per intenderci (etnos in greco), elargendo il dono della salvezza a tutta l’umanità. È noto che il giudaismo, a differenza del cristianesimo, non nasce e si sviluppa come fenomeno di proselitismo. Leggiamo in Mt 10, 15: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele». È soltanto in un secondo momento che prevarrà l’opinione secondo la quale gli apostoli, illuminati dallo Spirito Santo, sarebbero stati testimoni dell’unico Dio «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della Terra» (At 1, 8). E ancora: «Sia, dunque, noto a voi che questa salvezza di Dio viene ora rivolta ai pagani ed essi l’ascolteranno» (At 28, 28).

Gli ebrei, colpevoli di non aver riconosciuto in Gesù il Messia che tanto attendevano, sarebbero forse stati ulteriormente messi alla prova da Dio (mi riferisco alla prima terribile prova cui fu sottoposto il patriarca Abramo)? Una prova che aveva come obiettivo quello di suscitare la gelosia di Israele. Oppure era necessario che il “resto” di cui parla Isaia fosse sacrificato in nome della redenzione degli altri, fino alla successiva, perentoria affermazione, secondo la quale “tutto Israele sarà salvato”? ma perché ciò accadesse era prima necessario che tutti rientrassero all’interno del disegno soteriologico finale, che tutti i popoli venissero cioè  ricompresi nell’imperscrutabile piano divino e che la salvezza fosse estesa loro senza distinzioni. Ecco l’elemento sovversivo della predicazione di Paolo: era davvero rivoluzionario per un ebreo di quel tempo pensare di poter diffondere la lieta novella fuori dai ristretti confini dell’ebraismo, di varcare le rigide mura del separatismo ebraico. Una delle peculiarità di Israele era proprio il vanto di cui dicevamo, il fatto che, in quanto popolo eletto, ‘scelto’ direttamente da Dio, gli ebrei si reputassero gli unici detentori del sapere e della rivelazione e per tale motivo i soli destinatari della promessa di salvezza escatologica finale. Paolo invece credeva si dovesse annunciare la buona novella anche ai goyim, e per questo andò a predicare il Vangelo in quelle che oggi sono la Macedonia, la Turchia e la Grecia, manifestando più volte l’intimo desiderio di «spingersi fino alle estremità della terra allora conosciuta» (At 13, 47), nella convinzione che anche coloro che non erano ebrei sarebbero diventati membri del nuovo Israele, anche se non osservavano rigorosamente la legge di Mosè. Per l’ebraismo questo punto costituisce l’aspetto fondamentale e dirimente della questione: per questa ragione diventa essenziale comprendere come Paolo operò ed effettuò questo passaggio, al prezzo della sua stessa vita, divenendo l’architrave del Cristianesimo nascente.

Egli prende le mosse dalla circoncisione, rituale basilare dell’ebraismo ma in Deut 10, 16 compare per la prima volta l’espressione «circoncisione del cuore», che sarà ripresa a sua volta dal profeta Geremia: «Dentro di loro pianterò la mia Legge, scrivendola nei loro cuori» (Ger 31, 33). Vediamo come questa pratica, da semplice segno esteriore, tangibile, della carne diventi simbolo di qualcosa di “interiore”, di un’alleanza che scaturisce dall’intimità del singolo[9]. Per Paolo «non si è giudei manifesti nella carne, e la circoncisione non è quella manifesta nella carne. Si è giudei nel segreto, e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito, non nella lettera» (Rom 2, 28-29).

Un simile modo di pensare metteva chiaramente in discussione quello che era stato uno dei capisaldi della religione ebraica e destituiva di senso la principale motivazione del loro vanto, il loro esclusivismo, frutto del fatto che gli ebrei si considerassero il popolo eletto par excellence – poiché Dio aveva scelto proprio loro, un loro avo, per stipulare il suo patto – essendo essi gli unici custodi della promessa della salvezza eterna. Paolo non mancherà di polemizzare contro questo vanto, proprio a partire dai suoi discorsi sulla circoncisione, richiamandosi a quanto scritto: «Il Signore vi ha amati e vi ha scelti, non perché eravate un popolo più numeroso di tutti gli altri, anzi siete inferiori a tanti altri come numero; ma è per l’amore che vi porta e per mantenere il giuramento fatto ai vostri padri» (Deut 7, 7). La conclusione che avrebbe tratto da questo suo insolito modo di pensare riguarda il fatto che i gentili, convertiti al nuovo messaggio evangelico, non avrebbero più necessitato della circoncisione, dal momento che «la circoncisione non è nulla, né il prepuzio: bensì la nuova creatura» (Gal 6, 15).

È di conseguenza in Abramo che Paolo riconosce il vero progenitore del popolo ebraico. Al di là del racconto biblico e della sua storia, notiamo come egli, nel corso del suo ragionamento, ignori i primi versetti e concentri piuttosto la sua attenzione su un passo immediatamente antecedente a quello della promessa: «Abramo credette a Dio, e ciò gli fu accreditato a giustizia» (Gen 15, 6). Ecco il momento decisivo in cui Jahweh stabilisce il suo patto di alleanza con Abramo. La circoncisione era per gli ebrei il segno tangibile nella carne del patto con il loro Dio e chi non era circonciso, come abbiamo visto, non poteva appartenere al popolo di Israele. Il passo in questione è di una intensità e di una difficoltà ermeneutica senza pari: quando fu considerato giusto Abramo? Secondo Paolo, questo accadde prima della rivelazione della Legge, che cronologicamente viene fatta risalire a circa quattrocento anni dopo questi avvenimenti con Mosè, sul Monte Sinai. Abramo ebbe fede, credette nell’impossibile[10], «e credeva che Egli fosse giusto con lui», poiché si ricordava della promessa che Egli gli aveva fatto: «In te tutti i gentili saranno benedetti» (Gen 18, 18)[11]. Paolo può dirsi convinto che «un patto già confermato da Dio non viene infirmato dalla Legge sopraggiunta dopo quattrocento anni, al punto da dissolvere la promessa stessa» (Gal 3, 18). La circoncisione comportava tra l’altro, per chi decideva di sottoporsi ad essa, una totale sottomissione e l’impegno di osservare ‘tutta’ la Torah. Il presupposto sconcertante è che non esiste in realtà un solo uomo in grado di osservare la Legge in tutte le sue disposizioni, «nemmeno i circoncisi osservano la Legge» (Gal 6, 13); ciascuno perciò è colpevole, poiché non esiste un solo individuo che abbia fatto tutto ciò che è prescritto dalla Legge. Viene da domandarsi allora per quale motivo Dio avesse voluto dare queste disposizioni all’uomo, conscio del fatto che egli non sarebbe stato mai in grado di corrispondere pienamente ad esse. Leggiamo in Deut 27, 26 l’opinione secondo la quale chi trasgredisce anche uno solo dei precetti della Torah è maledetto[12]. Paolo stesso confessava di non essere stato in grado, nemmeno quando era uno zelante fariseo, di osservare ‘tutta’ la Legge.

Da tutto questo discorso è possibile evincere il carattere assolutamente transitorio della legge, e la conseguente portata universale della predicazione del Messia, considerato il fine ma anche la fine della legge: egli giunge non per invalidare la legge, abolirla, inficiarla, bensì per “sospenderla”[13], completandola ed ampliandola. Diventava pertanto necessario passare dall’osservanza scrupolosa dei precetti ad una nuova legge, che è quella della fede nel Messia Gesù venuto a predicare l’amore universale. Ed è precisamente in virtù di tale interpretazione che Paolo poté tracciare una nuova storia della salvezza, la cui dimensione soteriologica si estendesse a tutti, senza distinzione alcuna di sesso o di razza.

Non la nascita dunque ma la morte e la resurrezione del Cristo costituiscono la chiave di volta della prospettiva universalistica dal momento che essa – la resurrezione – è promessa a tutti, senza eccezione. Chiunque crederà in questo evento sarà salvato, non trattandosi più di una questione di popolo, di sangue, di razza bensì di FEDE per l’appunto e di Amore. Da qui la sostituzione della vecchia legge con quella nuova. La fedeltà ad un simile evento avrebbe eliminato i particolarismi settari e comunitari; l’enunciato “Cristo è risorto” – un evento singolare per intenderci – concerne dunque le leggi dell’universalità in generale. Un pensiero universale, partendo dalla proliferazione mondana delle alterità, produce come risultato la scomparsa delle categorie di ebreo, greco, uomo, donna, schiavo, libero, ecc. L’universale è lo Stesso che sussume in sé le varie alterità e non nega le particolarità che anzi continuano a sussistere. Ogni particolarità è un conformismo: si tratta in definitiva non di fuggire il mondo ma di convivere con esso (vedi 1 Cor 9, 19 sgg). Le differenze non si possono negare ma soltanto trascendere, attraverso la benevolenza nei riguardi di costumi ed opinioni diverse dalle proprie. In Rom 14, 1, si parla di “discernimento delle differenze” – una filosofia può contestare le varie opinioni, la fede no ed è proprio questo che la caratterizza e la contraddistingue. Mentre in Rom 2, 10, leggiamo un’espressione utile a smentire chiunque abbia tacciato Paolo di presunto antisemitismo: “per il giudeo prima”, in essa notiamo la posizione primaria dell’ebreo nel movimento che attraversa tutte le differenze per costruire l’universale.

In Abramo vi è così un’anticipazione di ciò che potremmo definire universalismo del sito ebraico, dal momento che la sua promessa si riferisce a tutti i gentili e non alla sola discendenza ebraica. Le differenze dunque esistono, non si possono negare ma sono indifferenti, la vera universalità le fa venir meno ed esse possono accogliere la verità che le attraversa, sottraendole ad ogni forma di particolarismo e fondando per la prima volta nella storia la possibilità di una predicazione universale (1 Cor 14, 7).

Gli uomini non dovranno più sentirsi apolidi quindi, senza patria ma figli del medesimo spirito europeo. Tutti siamo chiamati oggi a rispondere al compito che ci attende, contribuendo attivamente alla creazione e consolidazione di questo spirito, al rafforzamento dei principi della Rivoluzione francese, all’abbattimento delle frontiere[14], allo sviluppo di “nuovi” valori che, figli laici di quelli ereditati dalla bimillenaria riflessione cristiana, siano capaci di trarre l’Europa, e l’Occidente in genere, dalla crisi nichilistica oggi in atto.

Urge, ancora, la necessità di partecipare ai cambiamenti che da anni ormai interessano il mondo nel quale viviamo, cooperando alla crescita ”morale” del nostro continente affinché ciascuno di noi possa sentirsi oltre che italiano, francese, rumeno, bulgaro, greco, anche e soprattutto eticamente europeo. È, perciò, necessario un mutamento delle coscienze: ed è Gadamer a ricordarci che «è probabilmente un privilegio dell’Europa il fatto di aver saputo e dovuto imparare, più di altri paesi, a convivere con la diversità»[15]. Il progetto di unificare popoli tra loro non omogenei è un esperimento unico nel suo genere. Preservare le differenze nel pieno rispetto della loro dignità significa mantenere aperti ampi varchi di libertà, perché l’Europa è una e molte al contempo, in un nuovo intendimento della sua identità e del senso di appartenenza. È dunque auspicabile che, alla raggiunta unità politica di questa compagine di stati, si aggiunga presto un’unità spirituale, compito ben più arduo in quanto coinvolge l’essere umano nella sua essenza più intima. Il limes della vecchia Europa è andato allargandosi ed ampliandosi, fino a lambire gli ultimi stati appartenenti all’ex blocco sovietico. Con l’ingresso di Bulgaria e Romania infatti il processo di integrazione si fa sempre più concreto e realizzabile. L’Europa dei ventisette è oramai una realtà di fatto; resta da verificare il processo nella fattispecie concreta ed effettualità storica, il che dipende dalle condizioni nelle quali versano i singoli paesi.

Nel preambolo del Trattato costituzionale[16] sono delineati il ruolo centrale della Costituzione, già espressa dallo storico greco Tucidide e l’idea secondo la quale l’Europa sarebbe portatrice di valori universali, quali la civiltà, l’umanesimo, l’eguaglianza, la libertà, il rispetto dei vari credo religiosi, la possibilità di professare liberamente la propria fede nonché la rilevanza dell’immenso patrimonio culturale, artistico e umanistico. In particolare, si legge che la Costituzione si ispira alle “eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello stato di diritto”. I legislatori si dicono convinti che “l’Europa ormai riunificata dopo esperienze dolorose, intende avanzare sulla via della civiltà, del progresso e della prosperità per il bene di tutti i suoi abitanti, compresi i più deboli e bisognosi”. È stato ribadito come “i popoli d’Europa, pur restando fieri della loro identità e della loro storia nazionale, siano decisi a superare le antiche divisioni e, uniti in modo sempre più stretto, a forgiare il loro comune destino”, certi che l’Europa offra loro le migliori possibilità di proseguire, nel rispetto dei diritti di ciascuno e nella consapevolezza della loro responsabilità nei confronti della generazioni future e della terra, la grande avventura che fa di essa uno “spazio privilegiato della speranza umana”. Manca però il riferimento alle radici cristiane di cui tanto si è discusso, anche se sono accennati il concetto di ‘persona’, che è già idea cristiana e quello di ‘diritto’, che rimanda invece allo ius romano. Considerato in una prospettiva più ampia, ciò potrebbe significare la necessaria apertura dell’Europa alle altre confessioni religiose, essendo insita nel progetto, sin dalle sue origini, la coesistenza delle tre grandi religioni del Libro: è un fatto congenito che l’Europa debba vivere confrontandosi con la diversità, l’altro, l’estraneo. Consapevole del suo ruolo cardine, essa dovrà allora assurgere al suo compito – che non è più quello di mera appendice degli Stati Uniti – bensì quello di porsi come mediatore etico del delicatissimo dialogo e confronto tra Usa e mondo islamico, smussandone le tensioni. In tale ottica, più che di scontro di civiltà sarebbe opportuno parlare di incomprensione e nessun altro meglio dell’Europa, grazie alla sua straordinaria ricchezza interiore, avrà la forza di porsi come garante di un diverso assetto politico-istituzionale nei rapporti internazionali. L’“unità nella diversità” è il motto dell’Europa, nella quale unità e diversità procedono all’unisono, nel pieno rispetto delle differenze e nel mantenimento delle varie identità. È questa la sfida più grande che ciascuno di noi ha il compito e il dovere di portare avanti, facendosi carico di tutta la problematicità che questa reca con sé. L’Europa è e rimane lo spazio della speranza umana: solo interrogando le proprie radici, essa non dimenticherà il suo passato ed è proprio da questa capacità di autocritica che deriva il vantaggio della cultura europea. L’iniziale supremazia, per via degli avvenimenti che hanno funestato il secolo scorso, si è trasformata in una presa di coscienza del suo ruolo e della necessità di dialogare con le altre culture. Credo quindi, con Husserl, che l’Europa sia anzitutto un’idea da realizzare: solo quando i cittadini avranno preso pienamente coscienza del loro essere europei e superato le barriere mentali del nazionalismo, sarà possibile auspicare la completa riuscita e realizzazione del processo di unificazione europea. Un grandissimo passo in questa direzione è stato compiuto, ma molto rimane ancora da fare e proprio San Paolo può fungere da guida e da maestro: ascoltando le sue parole, il suo insegnamento, qualcosa potremmo ancora imparare. La sua missione non mirava ad erigere differenze, a scavare solchi di separazione, ma ad abbattere tutte le disuguaglianze, le diversità, poiché il Cristo stesso era venuto a far crollare tutti i muri della separazione, «non essendovi distinzione alcuna d’aspetto davanti a Dio» (Rom 2, 11). La Legge era stata per troppo tempo considerata come una siepe, una parete divisoria tra il mondo ebraico ed il variegato universo dei gentili:

 

«Adesso invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani siete diventati vicini per il sangue del Cristo. Egli infatti è la nostra pace; ha fatto dei due uno, ha abbattuto la parete dello sbarramento, l’inimicizia, e nella sua carne ha dissolto la legge dei comandamenti con i loro decreti. Così, facendo pace, dei due creò un uomo solo e nuovo; li riconciliò entrambi in un unico corpo per Dio mediante la croce, uccidendo con essa l’inimicizia»[17].

 

 

E questa situazione sarebbe durata fino a quando il Messia non avrebbe fatto «dei due uno». Non vi sarebbe più stata in tal modo nessuna differenza tra giudei e greci, maschio e femmina. Ciò significa che la linea di demarcazione tra pagani ed ebrei sarà abolita una volta per tutte e che gli uomini saranno salvati in virtù della fede in Cristo Gesù, a prescindere dalle distinzioni di razza, fede, cultura, lingua, religione, essendo il vangelo «potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, il giudeo anzitutto e anche il greco» (Rom 1, 16) e Dio stesso potrà essere conosciuto solo in quanto gli uomini cammineranno l’uno accanto all’altro. Si passa così da uno stato di chiusura nazionalistica ad uno di “apertura universalistica”, poiché il disegno soteriologico nel piano divino ingloberà tutti i gentili. Israele però aveva peccato e si rifiutava di accettare il Vangelo; scrive Paolo:

 

«Una parte di Israele si è irrigidita, fino a che non sia entrata la pienezza delle genti. Così tutto Israele sarà salvato, come sta scritto:

Uscirà da Sion il liberatore,

e stornerà le empietà da Giacobbe.

E questo è il mio patto con loro,

quando eliminerà i loro peccati»[18].

 

 

Non tutti gli ebrei infatti avevano riconosciuto in Gesù di Nazareth il Messia che tanto attendevano: abbiamo detto di come Dio avesse indurito i loro cuori, per salvarne poi qualcuno; parlando degli ebrei in particolare Paolo li definisce:

 

«questi uccisori del Signore Gesù e dei profeti, nostri persecutori, spiacenti a Dio, avversi a tutti gli uomini; essi ci impediscono di parlare ai gentili affinché siano salvi, così completando sempre la misura dei loro peccati. Ma l’ira li ha finalmente raggiunti»[19].

 

 

Dio avrebbe allora ripudiato il suo popolo? «Non sia mai» (Rom 11, 1) risponde l’apostolo che istituisce, attraverso una bellissima metafora, il parallelismo tra il popolo di Israele ed i rami di un albero:

 

«Ed anche loro, se non persisteranno nell’incredulità, verranno innestati, poiché Dio ha il potere d’innestarli nuovamente. Se tu infatti sei stato reciso dall’olivastro a cui eri connaturato, e innestato innaturalmente in un olivo ben formato, quanto più essi, che vi sono connaturati, saranno innestati nel proprio olivo»[20].

 

 

In realtà, tutto ciò era funzionale al disegno divino: per la caduta di pochi, molti si salvarono, dal momento che lo stesso Paolo si rivolge ai pagani e va a predicare alle genti, nella speranza di suscitare la gelosia di Israele. E conclude: «Dio infatti ha rinchiuso tutti nell’incredulità, per usare a tutti misericordia» (Rom 11, 32). Subentra a questo punto il famoso “resto” di cui parlava Isaia, per cui solo nel momento in cui rimarrà un resto davvero irriducibile, ebbene solo allora tutti saranno inglobati nella salvezza ed Israele sarà salvato. Nell’iniziale schema escatologico, l’essere un popolo “eletto” significava che questo popolo sarebbe stato il primo a salvarsi; adesso invece, in virtù di un paradossale capovolgimento, questo resto sarà l’ultimo, nel senso che prima verranno compresi i gentili e, solo in un secondo momento, Israele entrerà a far parte della promessa. Per spiegare meglio questo concetto, Paolo ricorre all’immagine del rapporto intercorrente tra le molta membra del corpo ed il corpo mistico del Cristo, il quale è capo dell’unica Chiesa e solo Signore:

 

«Come infatti il corpo è unico con molte membra, e tutte le membra del corpo, pur molte, sono un unico corpo, così anche il Cristo. Tutti noi siamo stati immersi nell’acqua in un unico Spirito per formare un unico corpo, sia giudei sia greci, sia servi sia liberi. […] Anzi, le membra del corpo apparentemente più delicate sono le più necessarie, e a quelle da noi giudicate più vili nel corpo attribuiamo un pregio assai maggiore, e le nostre parti indecorose non hanno bisogno di nulla. Ma Dio fuse il corpo attribuendo assai maggior pregio al membro che ne mancava, per impedire scissioni nel corpo stesso, e invece le membra si preoccupino l’una dell’altra. Così, se un membro soffre, soffrono con quello tutte le altre membra, e se un membro è glorificato, tutte le altre ne gioiscono con lui»[21].

 

Insistiamo sul termine ‘tutto’ per ribadire la sua importanza all’interno del nostro discorso[22]. La chiesa cattolica fonda se stessa in quanto ekklesia, a confermare il carattere universale della chiamata. Nelle Scritture, leggiamo: «In te verranno benedette tutte le nazioni» (Gn 12, 3) e Paolo commenta così queste parole: «così che quanti procedono dalla fede sono benedetti con Abramo fedele» (Gal 3, 9): già queste frasi sono anticipatrici dell’universalismo salvifico mediante Abramo. Da qui si capisce il perché dell’iniziale elezione di Israele e della sua successiva perdizione: Dio – dicevamo – non aveva scelto questo popolo in quanto migliore degli altri ma la sua elezione sarebbe stata il preludio della futura salvezza generale. L’elezione dei pagani è partecipazione all’elezione di Israele e Paolo precisa:

 

«Non tutti i discendenti di Israele sono infatti il vero Israele; né per essere discendenza d’Abramo sono tutti suoi figli, bensì in Isacco verrà chiamata la tua discendenza: ossia, non i figli della carne sono i figli di Dio, ma i figli della promessa saranno considerati come discendenza»[23].

 

 

Non i figli discendenti da Ismaele ma quelli discendenti da Isacco sarebbero stati davvero liberi ed eredi della promessa. I popoli, pervenuti finalmente alla salvezza, smuoveranno l’Israele disperso nella diaspora dell’incredulità e lo indurranno a ritornare a Sion[24]. La salvezza, che deriva da un dono [karisma] puro ed assolutamente gratuito, potrà essere elargita agli uomini solo se tutti, pagani ed ebrei, torneranno a volgersi a Sion.

Nel precetto universale dell’amore è riassunto il principio del monoteismo assoluto e della necessità di prestare obbedienza ai comandamenti divini. A Paolo spetta in definitiva il merito di aver reso “universale”[25] il messaggio cristiano, facendolo uscire dai ristretti confini della Palestina, per giungere a tutte le genti. «Ciò nonostante, Dio aveva stretto un’alleanza con Israele per unirsi di nuovo, tramite questo popolo, con tutta l’umanità»[26], è il commento di Bouwman a questo proposito. Quando, alla fine delle sue riflessioni teologiche, Paolo proclamò la salvezza dell’Israele empirico degli ultimi tempi – ad avviso di Gnilka – stava in realtà professando la propria fede nella fedeltà a Dio (Rom 11, 28) e dichiarava la propria convinzione che l’inizio del popolo di Dio e la sua fine fossero identici, vale a dire sono costituite da Israele[27]. Gerusalemme, la città santa, si trova quindi all’inizio ed alla fine del percorso di salvezza e, alla fine dei tempi, tutti avranno libero accesso alla Gerusalemme celeste, “liberata” per dirla con Torquato Tasso, in riferimento alle lotte tra cristiani e musulmani che la insanguinarono nel Medioevo per la riconquista del santo sepolcro, eppure la storia sembra destinata a ripetersi ineluttabilmente, a scorrere nel suo essere sempre uguale a se medesima, come se gli uomini non avessero tratto nulla dagli insegnamenti del passato, considerando che anche oggi i combattimenti che lacerano il mondo sembrano identici a quelli che si perpetrarono ottocent’anni fa.

Alla domanda nietzscheana dell’uomo folle “Dov’è Dio?” dovremmo piuttosto chiederci che fine abbia fatto l’uomo, nella sua umanità ed in ciò che connota propriamente la sua essenza più intima, perché è lui che, in riferimento ai massacri, alle ingiustizie perpetrate nel tempo, alle aberrazioni di quest’ultimo secolo in particolar modo, ha permesso tutto ciò. Dove regna il peccato, lì sovrabbonderà la grazia: il riferimento è allo scempio delle guerre, alle migliaia di donne, uomini, bambini, massacrati inutilmente e disumanamente, come pecore destinate al macello. Ciò vuol dire, al di là dei conflitti che hanno insanguinato il teatro della scena storica, delle lotte fratricide, tra fratelli appunto, poiché Dio si era rivelato ad Abramo ed in lui aveva promesso la salvezza a tutti, non si capisce bene per quale motivo le tre grandi religioni del Libro, cristianesimo, ebraismo ed islam, abbiano perduto di vista il loro punto comune mentre hanno invece insistito sulle differenze e sugli elementi di discontinuità, facendo leva su quest’ultime per muoversi guerra a vicenda. Se tutti devono la propria origine alla medesima fonte divina – se le tre grandi religioni monoteistiche derivano veramente dallo stesso Libro – che senso avrebbe questo continuare a farsi la guerra senza pervenire mai alla stipulazione di un accordo, senza una pace che sia per così dire duratura, “perpetua” per dirla con Kant? E perché in seguito al crollo di un muro vergognoso si è assistiti sgomenti ed impassibili all’edificazione di un altro muro altrettanto doloroso[28]? Dio che creò ogni cosa, compresi gli uomini, non lascerà che nulla di ciò che Gli appartenga possa smarrirsi; per dirla con Sanders: «Tutti noi e l’intera creazione appartengono a Lui»[29]. Lo stesso Isaia mette in bocca al suo Signore le seguenti parole: «Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato a quelli che non si rivolgevano a me, mentre di Israele dice: «Tutto il giorno ho steso le mani verso un popolo disobbediente e ribelle!» (Is 65, 1-2). Sulla scia di Paolo perciò non possiamo che tentare di ripensare ad una torah prima del Sinai[30], che si rivolga a ciò che esisteva prima della legge mortifera delle opere e della carne, e che torni a guardare non più a Mosè bensì ad Abramo ed all’incondizionato gesto d’amore che questi compì nel momento in cui ricevette la chiamata di Dio. Solo volgendosi indietro nel passato sarà possibile recuperare quell’autentico spirito di pace e fratellanza indispensabile per una pacifica convivenza e coesistenza delle molteplicità. Paolo parla di legge della promessa, in un contesto di “sospensione della legge”, che torni a dirigersi verso quell’incredibile promessa fattagli da Dio, alla quale egli tuttavia credette, “sperando contro ogni speranza” e pronto ad accogliere l’evento dell’impossibile. Perché, per riprendere l’annuncio del profeta Abdia, è da Sion che proverrà la salvezza: «Ma sul monte Sion vi sarà una porzione salva e sarà un luogo santo» (Abdia 1, 17). Siamo in presenza di un uomo, avanti negli anni, e di una donna, per di più sterile; eppure Abramo e Sara credettero, al di là di ogni logica e buon senso. È questo il gesto più inaudito ed incomprensibile per la sensibilità di noi uomini contemporanei; ed è da questa fede nella follia che bisogna ripartire. Ognuno di noi è chiamato, convocato da Dio a porsi su questa strada e a corrispondere al suo appello. Forse, ad avviso di Paolo, è proprio questo che ci viene richiesto: dare prova di una simile fede, prova terribile e difficile insieme ma non impossibile dal momento che solo la speranza, la fede e l’amore potranno far crollare, una volta per sempre, tutti i muri della separazione, di odio e di violenza che si erigono quotidianamente fra gli uomini, poiché, per dirla con Paolo, «uno solo è il Signore, una la fede» (Ef 4, 5) e noi tutti, a prescindere dalle apparenti differenze, «siamo stati fidanzati ad un unico sposo» (II Cor 11, 2).

In un’epoca come la nostra, è necessario capire e recepire il messaggio di Paolo nella sua interezza e straordinaria attualità, comprendendo l’urgenza con la quale bisogna agire per abbattere tutte queste pareti di sbarramento. Per cui, nel momento in cui calerà il sipario e la promessa troverà finalmente la sua attuazione ed il suo compimento, quel che resterà sarà solo agape, nel suo dominio assoluto ed incontrastato. Ci piace pensare che tutto questo discorso non sia solo una mera utopia o un sogno irrealizzabile che svanirà non appena le parole non troveranno adempimento o riscontro nella realtà dei fatti ma che veramente, nel futuro regno messianico, letto oggi in una chiave secolarizzata, gli uomini possano imparare a riconoscersi come fratelli e, guidati dallo spirito della pace e dell’amore, sappiano dare vita ad una nuova comunità messianica di “eletti”, guidati dalla speranza e dallo spirito di “fratellanza, uguaglianza e libertà” e, con gli occhi infine scevri di pregiudizi ed inimicizia e di avversione l’uno per l’altro, al di là degli odi etnici e di razza contemporanei, ritrovare infine quell’elemento di comunione e di coesione che ci accomuna tutti quanti.

 



              [1]  Per le citazioni paoline, faremo riferimento a: San Paolo, Le lettere, a cura di C. Carena, Einaudi, Torino 1999.

[2] È noto che Paolo parlasse ben quattro lingue; lo conferma E. P. Sanders, San Paolo, tr. it. di P. Ursino, il melangolo, Genova 1997, pp. 17-18: «Cittadino e cosmopolita, Paolo si muove invece a suo agio nel mondo greco-romano. Probabilmente parla aramaico (o ebraico o entrambe le lingue, At 21, 40); ed è possibile che conosca anche il latino; ma la sua lingua principale è una delle più grandi lingue di tutti i tempi: la koiné, il greco parlato allora nel vicino Oriente».

[3] C’è anche da dire – sulla scia di Heidegger – che le comunità protocristiane avevano una modalità del tutto particolare di esperire la temporalità. Cfr. M. Heidegger, Esplicazione fenomenologica di fenomeni religiosi concreti sulla scorta delle lettere dell’apostolo Paolo, in Fenomenologia della vita religiosa, tr. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2003. Agamben parla al riguardo di un tempo fra il “già” della prima venuta ed il “non ancora” della parousia, il ritorno del Messia su questa terra. Vedi G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000.

[4] Per i riferimenti biblici, vedi La Sacra Bibbia, edizioni paoline, Roma 1960.

[5] È insita una critica radicale al concetto di razza e di popolo basato sul sangue.

[6] B. Pascal, Pensieri, Bompiani, Milano 2003.

[7] Vedi la IX tesi in W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, p. 35.

[8] G. Agamben, Il tempo che resta, cit., p. 49: «La legge, per essi, non era soltanto la Torah in senso stretto, la legge scritta, ma anche la Torah orale, la tradizione concepita come una “parete divisoria” o una “siepe” attorno alla Torah, che deve proteggerla da ogni contatto impuro». L’autore prosegue sostenendo che Paolo parla di separazione a proposito del suo vecchio status di fariseo in relazione al nomos, ma anche in riferimento alla sua nuova condizione di ebreo, messo in disparte per l’evangelo di Dio. La separazione è appunto la connotazione precipua che caratterizza la condizione di santità.

[9] E. P. Sanders, Paolo, la legge e il popolo giudaico, cit., p. 213: «Il vero giudeo è chi pratica la legge, e non ne fa mostra in pubblico, può non essere circonciso fisicamente (“nella carne”), ma lo è interiormente, in segreto, non si tratta di una circoncisione concreta, ma di una circoncisione spirituale, del cuore».

[10] Uno degli esegeti più mirabili di questa terribile prova è certamente S. Kierkegaard, Timore e tremore, tr. it. di F. Fortini e K. Montanari Guldbrandsen, Mondadori, Milano 1991.

[11] A supporto di quanto affermato, potremmo citare H. Hübner, La legge in Paolo, tr. it. di R. Favero, Paideia, Brescia 1995, p. 36: «Alle promesse fatte ad Abramo spetta dunque nei confronti del nomos una priorità cronologica e quindi effettiva. Rilevante per la salvezza, dunque, non è Mosè ma Abramo!». Resta da capire perché Jahweh abbia voluto dare poi la Legge, quattrocento anni dopo la promessa, e che cosa accadde in questo intervallo di anomia.

[12] Ivi, p. 39: «Ciascuno è colpevole, poiché non c’è proprio un solo individuo che abbia fatto tutto ciò che è prescritto nella legge. […] Chi trasgredisce anche solo in un unico punto la torà sia maledetto».

[13] Vedi a tal proposito la definizione dello stato d’eccezione in C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità in Le categorie del «Politico», a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1998, p. 33. Il Messia non sarebbe venuto ad abbattere o ad abrogare definitivamente la Legge, bensì a ‘sospenderla’, a suggellarla, a compierla una volta per tutte: in poche parole, a portare la pienezza. Per riprendere le parole di Matteo, «Gesù non è venuto ad abolire, ma a completare» (Mt 5, 17). Ciò che veniva sospesa era la sua normatività, l’abolizione definitiva della Legge essendo di pertinenza soltanto del futuro regno messianico.

[14] Vedi a tal proposito la normativa relativa agli accordi di Schengen (libera circolazione alle frontiere).

[15] H. G. Gadamer, L’eredità dell’Europa, tr. it. di F. Cuniberto, Einaudi, Milano 1991, p. 22.

[16] I riferimenti al Trattato costituzionale sono tratti dal sito http://europa.eu/index_it.htm

[17] Ef 2, 13-17.

[18] Rom 11, 25-27.

[19] I Tes 2, 15-16.

[20] Rom 11, 23-24.

[21] I Cor 12, 12-26.

[22] Che il cristianesimo si presentasse in questa veste ugualitaria ed avesse elargito la sua promessa di vita eterna indistintamente a tutta l’umanità non è altro che, agli occhi di Nietzsche, un’emerita follia ed un’impostura. Il cristianesimo avrebbe preso le difese di tutto ciò che nella storia è debole, abietto e malriuscito e lo avrebbe innalzato a dignità. In realtà, i preti facendo leva su questo sentimento non avrebbero fatto che considerare la stragrande maggioranza degli uomini alla stregua di un animale malato, un gregge bisognoso di aiuto e di guida, convincendoli che lo loro sottomissione fosse giusta, assieme al soffocamento di ogni istinto, alla svalutazione di ogni realtà sensibile. Il cristianesimo è stato la più grande sciagura dell’umanità, l’unica grande maledizione e, come tale, va condannato, per il suo aver fatto di ogni valore un disvalore, aver discreditato la vita in ogni sua forma di autopotenziamento ed accrescimento, per aver innalzato ogni anima ad una condizione di uguaglianza davanti a Dio! Perciò il tempo, ad avviso di Nietzsche, non va computato a partire dal primo giorno in cui ebbe origine questa fatalità – dies nefastus – bensì dall’ultimo, vale a dire da oggi stesso. Vedi F. Nietzsche, L’anticristo. Maledizione del Cristianesimo, tr. it. di F. Masini, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 2002.

[23] Rom 9, 6-9.

[24] Vedi J. Gnilka, Paolo di Tarso. Apostolo e testimone, tr. it. di V. Gatti, Paideia, Brescia 1988, p. 373.

[25] L’aggettivo “cattolico” in realtà non designa altro che la vocazione universalistica della comunità messianica.

[26] G. Bouwman, Libertà e legge, tr. it. di F. Spaltro-Hendriksen, a cura di P. De Benedetti, Bompiani, Milano 1970, p. 82.

[27] J. Gnilka, Paolo di Tarso…, cit., pp. 374-375.

[28] Mi riferisco alla barriera di separazione israeliana, sistema di barriere fisiche costruito da Israele in Cisgiordania sotto il nome di “chiusura di sicurezza”, allo scopo ufficiale d’impedire fisicamente ogni intrusione di terroristi palestinesi nel territorio nazionale. Questa barriera, il cui tracciato di circa 700 km è controverso ed è stato ridisegnato più volte particolarmente a causa delle pressioni internazionali, consiste per tutta la sua lunghezza in una successione di muri, trincee e porte elettroniche. Il progetto ha suscitato una grande controversia fra la maggioranza dei civili israeliani che vogliono una protezione supplementare comportata da questa barriera dopo l’avvio della Seconda Intifada e i detrattori della barriera, soprannominata “muro della vergogna”, che denunciano l’attentato perpetrato ai diritti umani e vedono il manufatto come un tentativo d’annessione di parte dei territori cisgiordanici occupati da Israele, essendo una porzione del tracciato in territorio occupato. È ugualmente chiamato “Muro della vergogna” o “Muro dell’annessione” da chi è ostile al progetto. Alcuni di loro parlano anche di “Muro dell’Apartheid”. I Palestinesi (fra cui i loro media) si riferiscono spesso a questa barriera usando l’espressione “Muro di separazione razziale”. I partigiani della barriera usano invece il nome ufficiale di “chiusura di sicurezza israeliana” o la chiamano “barriera anti-terrorista” o, ancora, “muraglia di protezione”. L’ONU e la comunità internazionale utilizzano più frequentemente il termine “Muro”, ma sono usate talora anche altre espressioni: chiusura/muro/barriera di separazione/sicurezza.

[29] E. P. Sanders, San Paolo, cit., p. 140.

[30] L’espressione è di E. Lévinas.



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