FERNANDO SAVATER

 

A cura di Marco Minniti

 

 

 

SAVATERFernando Savater è nato in Spagna, a San Sebastiàn, nel 1947; è professore di Etica all’Università dei Paesi Baschi. Oltre a Etica per un figlio, forse la sua opera maggiore che lo ha fatto conoscere in tutto il mondo, è autore de Il giardino dei dubbi (1994), Cattivi e maledetti (1996), Etica come amor proprio (1998), Brevissime teorie (2000), Dizionario filosofico (2000), L’infanzia recuperata (2000), Le domande della vita (2001), Politica per un figlio (2001), A mia madre, mia prima maestra (2001), A cavallo tra due millenni (2001).

Carlo Sini, teoretico presso l’Università degli studi di Milano dice:  “il lavoro del filosofo è quello di citare le citazioni”; questa è la maniera migliore per parlare di uno come Savater, il quale, sui testi di filosofia, non sta accanto ai massimi autori, ma certamente dovrebbe essere letto per capire, come dice in Le domande della vita, che “la filosofia non è sapere come se la cavava Socrate, nell’Atene di venticinque secoli fa, per vivere meglio, ma di come noi, possiamo comprendere e utilizzare meglio la nostra esistenza”.

Il meglio di Savater sta nella sua semplicità; la semplicità di raccontare le emozioni, le sensazioni, di raccontare la morte, per quel che si può, la vita e l’attualità di un mondo che perde sempre più la sua identità. Si tenga ben presente che egli è un “etico”, non un metafisico, non un empirista, non un razionalista, né un criticista, né un idealista; le sue opere però trattano svariati argomenti, i quali racchiudono una brillante “filosofia della vita” che va dai semplici ma fondamentali dialoghi con un figlio, a un’infanzia recuperata, a una serie di domande cosiddètte della vita e anche a una politica per un figlio. Tutto ciò, fa di Savater un grande filosofo, un contemporaneo di cui sicuramente si può apprezzare l’onestà intellettuale.

In Etica per un figlio, un grande filosofo parla, a suo figlio, del bene e del male, con passione e insieme humor. Ecco un commento di Gianni Vattimo in merito:

 

“non è vero che un’etica laica, senza assoluti e senza miti, non può fornire modelli educativi efficaci. Savater lo dimostra persuasivamente: la moralità risulta soprattutto caratterizzata come autonomia, capacità di non sottomettersi, amor di sé nel senso migliore del termine. Un libro intenso ma anche amichevole, che genitori e maestri dovrebbero leggere e commentare insieme ai loro figli, discepoli, amici adolescenti”.

 

Ma vediamo di capire cosa dice Savater relativamente ad alcune tematiche che vengono definite, per la maggior parte delle volte, filosofiche; per esempio, che la riflessione morale non può ridursi a un argomento specialistico per chi intende iscriversi all’università: l’etica è parte essenziale di ogni educazione veramente degna di questo nome. L’obiettivo di uno come Savater non è dunque, fabbricare cittadini benpensanti (e tantomeno malpensanti), ma quello di stimolare la formazione di “liberi pensatori”. Tra tutte le scienze ne esiste almeno una di cui non si può fare a meno: sapere che certe cose ci convengono e altre no. Certi alimenti non fanno bene, certi comportamenti o atteggiamenti non sono convenienti. Certe cose ci risultano utili e le chiamiamo “buone” perché ci fanno bene; altre invece ci fanno molto male e queste le chiamiamo “cattive”. Sapere che cosa ci è utile, ossia distinguere tra il bene e il male, è una conoscenza che tutti cerchiamo di acquisire – tutti nessuno escluso – perché è vantaggiosa. Per esempio, è indispensabile sapere quali cibi mangiare; che il fuoco a volte riscalda, altre volte ustiona; e che l’acqua può dissetare ma anche affogare. Eppure le cose non sono così semplici: certe droghe, ad esempio, aumentano il nostro coraggio e danno sensazioni piacevoli, ma il loro abuso continuato nel tempo può essere dannoso. Per certi versi fanno bene, per altri fanno male: sono utili e dannose nello stesso tempo.

Nel campo delle relazioni umane queste ambiguità sono anche più frequenti. In generale, la bugia è una cosa negativa, perché distrugge la fiducia nella parola data – e tutti abbiamo bisogno di comunicare per vivere in una società – e rende le persone nemiche; a volte però sembra che sia utile o produttivo mentire per ottenere qualche piccolo vantaggio, e Platone stesso aveva parlato nella Repubblica di “nobili menzogne”. Per esempio: a chi è affetto da un cancro incurabile è meglio dire la verità sul suo stato o è preferibile ingannarlo per lasciargli vivere serenamente le sue ultime ore? La bugia non è utile, è una brutta cosa, ma a volte sembra dare risultati positivi. Si è detto che non conviene cercare la rissa, ma allora dobbiamo permettere che una ragazza sia violentata davanti a noi senza intervenire per evitare problemi? D’altra parte quelli che dicono sempre la verità  sono antipatici a tutti – ma proprio a tutti – e chi interviene come Indiana Jones per salvare la ragazza aggredita è più probabile che si trovi con la testa rotta di chi se ne torna a casa fischiettando. Le cosa sbagliate a volte risultano più o meno positive e le cose giuste a volte sono all’apparenza del tutto negative.

Che confusione! Saper vivere non è così facile perché esistono criteri diametralmente opposti riguardo a quello che bisogna fare. In matematica o in geografia ci sono gli esperti e gli ignoranti, e in genere gli esperti si trovano quasi sempre d’accordo sui princìpi fondamentali. Quanto al saper vivere, invece, non c’è affatto unanimità. Se uno vuole una vita emozionante può dedicarsi alla Formula Uno o all’alpinismo; se preferisce una vita tranquilla e senza rischi farà meglio a cercarsi le avventure nel videoclub all’angolo. Alcuni giurano che la cosa più nobile è vivere per gli altri, altri dicono che conviene convincere gli altri a vivere per noi. Secondo certa gente, la cosa più importante è guadagnare; altri sostengono che i soldi senza salute, tempo libero, affetti sinceri serenità d’animo non valgono nulla. A prima vista, l’unica cosa sulla quale siamo tutti d’accordo è che non siamo tutti d’accordo; però queste opinioni diverse coincidono anche in un altro punto: quello che sarà la nostra vita, almeno in parte, è il risultato di ciò che ognuno di noi vuole. Se la vita fosse qualcosa di completamente determinato, un destino immodificabile, tutte queste discussioni non avrebbero alcun senso. Nessuno sta a discutere se le pietre debbano cadere verso il basso o verso l’alto: si sa che cadono dall’alto in basso, e basta. Certamente Savater non parla di etica in senso aristotelico, né in senso abelardiano, decisamente poco metafisico, semplice e alla portata di tutti… di coloro che vogliono naturalmente. Vediamo cosa dice relativamente al concetto di “libertà”, che in Savater fa tutt’uno con l’etica, temi connessi tra loro e strettamente riflessi gli uni negli altri.

Libertà: è quello che ci distingue dalle termiti e dalle maree, da tutto ciò che si muove in modo necessario e immodificabile. Egli non dice che possiamo fare tutto quello che vogliamo, ma neppure siamo obbligati a fare una cosa sola; non siamo liberi di decidere quello che ci succede, ma siamo liberi di rispondere a quello che ci succede in un modo o nell’altro. Essere liberi di tentare di fare qualcosa, non ha niente a che vedere col riuscirci necessariamente; la Libertà non s’identifica con l’onnipotenza; quanto più abbiamo capacità di agire, migliori saranno i risultati che potremo ottenere dalla nostra libertà.. Sono libero di voler salire sull’Everest, ma con la mia salute precaria e la mia totale impreparazione è praticamente impossibile che possa raggiungere l’obiettivo; invece sono libero di leggere o non leggere perché l’ho imparato da bambino e la cosa non mi risulta troppo difficile. Ci sono cose che dipendono dalla mia volontà, ma non tutto (altrimenti sarei onnipotente), perché nel mondo ci sono molte altre volontà  e molte altre necessità che non controllo a mio piacere. Se non conosco né me stesso né il mondo in cui vivo, la mia libertà si scontrerà prima o poi contro la necessità; ma - cosa importante - “non per questo smetterò di essere libero… anche se mi scoccia”. In realtà, ci sono molte cose che limitano la nostra libertà: terremoti, malattie, tiranni; ma anche la nostra libertà è una forza nel mondo, la nostra forza. Se parli con la gente, ti renderai conto che la maggior parte ha più coscienza di quello che ne limita la libertà che della libertà stessa. Diranno: “libertà? Ma di che libertà parli? Come si fa ad essere libere se ti mangiano il cervello con la tv, se i politici ci ingannano e ci manipolano, se i terroristi ci minacciano, se le droghe ci rendono schiavi, e se non ho neanche i soldi per comprare la moto che vorrei?”. Se si riflette un momento, ci si rende conto che quelli che parlano così sembra che si lamentino, ma in realtà sono ben contenti di sapere che non sono liberi. In fondo pensano: “Uh! Bel peso che cui siamo tolti di dosso! Dato che non siamo liberi non abbiamo colpa di quello che ci succede…”.

Ma si è sicuri che nessuno crede davvero di non essere libero, nessuno accetta di funzionare come il cieco meccanismo di un orologio o come una termite. Siccome optare liberamente per certe cose in certe circostanze è molto difficile, allora è meglio dire che non c’è libertà per non dover riconoscere che si preferisce fare quello che è più facile: aspettare i pompieri o leccare le scarpe a chi ci schiavizza . Però nel fondo di noi qualcosa non smette di dirci: “se tu avessi voluto…”.

Dunque, noi uomini possiamo trovare soluzioni nuove e scegliere almeno parzialmente la nostra forma di vita. Possiamo optare per quello che ci sembra essere giusto, e cioè conveniente per noi, ed evitare quello che sembra farci del male o non convincerci. Ma siccome possiamo scegliere, possiamo sbagliarci, cosa che non succede ai castori, alle api e alla termiti. Perciò sembra meglio riflettere bene su quello che facciamo e cercare di acquisire un certo saper vivere che ci permetta di scegliere bene. Questo saper vivere, o arte di vivere se preferiamo, è ciò che chiamiamo etica.

Ne L’infanzia recuperata, per esempio, la maggior parte dei capitoli sono consacrati alla nostalgia verso autori amati allora e forse un po’ meno oggi, benché la vitalità di molti di loro – Stevenson, Verne, Conan Doyle, ecc – sembri essere ancora intatta. In un paio di occasioni Savater è stato, casualmente, profetico; la prima quando ha parlato di Tolkien, che poco dopo divenne una passione incontenibile in Spagna e nel resto d’Europa; egli dice: “mi emozionò vedere mio figlio, a cui dedicai questo libro quando era quasi un neonato, leggere, quindici anni dopo e con raro entusiasmo, Il signore degli anelli”. La seconda, quando in un capitolo, La terra dei draghi, lamenta quanto poco sia stato scritto sull’immensa importanza dei dinosauri. Non si dimentichi che Savater non è solo un filosofo o un poeta, ma è anche uno scrittore; infatti, egli ha sempre in mente un piano per almeno due libri che gli piacerebbe scrivere su temi diversi e per i quali accumula interiormente del materiale, poi, quando ritiene che siano maturi e passa alla loro stesura, scrive in modo continuato e veloce. La sua scrittura è intensa, ma meno noiosa di quella di altri, e deve scrivere di getto o rinunciare; ma nei testi è tutto fuorché un improvvisatore, mentre a voce lo è quasi sempre. Un libro come appunto L’infanzia recuperata fu oggetto di malintesi, ai quali forse deve parte del suo successo se è vero, come dice Cioran, che il successo non è altro che un malinteso. In primo luogo, forse a causa del titolo, si credette che fosse un libro di racconti per bambini: recuperare l’infanzia consisterebbe nella rilettura dei testi che da bambini ci fecero luccicare gli occhi. Ma non si tratta affatto di questo o, almeno, non è questo il tratto fondamentale del libro. Racconti propriamente infantili non ce ne sono nel libro, e non ovviamente, perché non siano degni di essere menzionati. Savter racconta, in profondità, quello che tutti dovrebbero leggere, a qualsiasi età; rammentiamo un verso di Nietzsche: “laggiù voglio andare/ e confido per l’avvenire in me e nella mia mano serrata. / aperto è il mare, verso l’azzurro/ si muove la mia nave genovese”. Quando Bataille parlò di letteratura come dell’infanzia infine recuperata, certamente non si riferiva a storielle dolcemente infantili, ma all’opera di fiction come esperimento nel quale corriamo un rischio strutturale.

Un altro malinteso di cui fu oggetto il libro fu causato dal fatto che venne scambiato per un manifesto contro il romanzo psicologico e sperimentale e per una sorta di rivendicazione esclusiva della letteratura “in cui accadono le cose”. Il libro dunque, si può dire, mira proprio a sottolineare che la fiction narrativa ha funzioni diverse dall’instancabile approfondimento dell’introspezione o dell’elaborazione di forme espressive, ma in nessun modo ha la ridicola pretesa di proscrivere i legittimi piaceri che derivano dalla medesima ricerca. “È delizioso spiegare i propri gusti, ma è odioso trasformarli in dogmi arroganti”.

Savater dice che L’infanzia recuperata è un libro che parla di libri: un libro sull’amore per i libri e sulla forza concentrata della lettura; e ancora Savater affronta il tema della felicità, sulla quale si fonda, a suo avviso, “l’autentico desiderio dell’uomo”, e sa che la sua felicità è nell’infanzia recuperata.

In Politica per un figlio, Savater offre forse il meglio di sé, e dice, tanto per rammentare:

 

“Caro figlio, […] anche in questo libro prenderò posizione con franchezza per le cose in cui credo ma eviterò di farti un sermoncino sui “buoni” e sui “cattivi”, e tantomeno ti suggerirò per chi votare. Parleremo delle questioni di fondo che sono in gioco nella politica (e non delle questioni con cui giocano oggi i politici…). Dopo di che, sarai tu ad avere l’ultima parola, e vedi bene che nessuno te la tolga o dica al posto tuo”.

 

Decisamente, la politica, qui, è tema principale e Savater, ne parla citando Aristotele e altri grandi pensatori; gli antichi greci definivano chi non si occupava di politica con il nome di idiòtes, “cittadino privato”; questa parola significava persona isolata, che non ha nulla da offrire agli altri, ossessionata dai piccoli problemi di casa sua e in fin dei conti alla mercé di tutta la comunità.

Ecco le più significative citazioni di cui Savater si serve per chiarire la complessità del concetto di “politica”: venire al mondo significa venire al nostro mondo, al mondo degli umani. Stare al mondo significa stare fra gli umani, vivere, nel bene e nel male, in società; la società è una rete di legami più sottili, più spirituali: è composta dal linguaggio, l’elemento umanizzante per eccellenza, da una memoria collettiva, dalle tradizioni, dalle leggi; non si discute sul fatto che l’ambiente più naturale per vivere da uomini sia la società umana. Non si tratta di scegliere fra natura e società, ma di riconoscere che la nostra natura è la società; le leggi e le imposizioni della società non sono niente di più (ma neppure niente di meno) di convenzioni; la ragione è la capacità di stabilire convenzioni, cioè leggi che non ci siano imposte dalla biologia ma che siamo noi ad accettare volontariamente; come si fa a decidere ciò di cui dobbiamo accontentarci, se quello che caratterizza noi umani è l’inquietudine? Il gruppo sociale si presenta come il nucleo che non può morire , a differenza degli individui, e le sue intenzioni servono ad arginare ciò che ognuno di noi teme del destino mortale: se la morte è la solitudine definitiva, la società ci offre una compagnia permanente, se la morte è debolezza e inazione, la società si propone come il luogo della forza collettiva e l’origine di innumerevoli cose da fare e di gesta gloriose; se la morte cancella ogni differenza fra gli individui e livella tutto, la società offre le sue gerarchie, la possibilità di distinguersi e di essere riconosciuti e ammirati dagli altri; se la morte è oblio, la società alimenta tutto ciò che è memoria, leggenda, monumento, celebrazione della gloria passata; se la morte è insensibilità e monotonia, la società potenzia i nostri sensi, con le sue arti raffina il nostro palato, il nostro udito e la nostra vista, ci prepara diversivi impegnativi ed emozionanti con cui rompere l’avvilente routine; la morte è naturale, e per questo la società umana è, in un certo modo, “sovrannaturale”, artificiale, è la grande opera d’arte che noi uomini conveniamo gli uni con gli altri, il luogo vero e proprio dove trascorrere questa miscela di mito e biologia, metafora e istinto, simbolo e chimica che è l’esistenza umana;

Aristotele scrive che “la politica è l’arte di vivre bene assieme”, ma quest’arte purtroppo è anche un’utopia, nessuno ci pensa, e chi lo fa, è solo un sognatore.

Ma citiamo dei passi rispettivamente di Aristotele, Arendt, Cassirer, Tocqueville.

Aristotele, nella Politica, scrive:

 

“è evidente che lo stato è un prodotto naturale e che l’uomo per natura è un essere socievole… Perché la natura, come diciamo, non fa niente senza scopo, solo l’uomo, fra gli animali, ha la parola: la voce indica quel che è doloroso e gioioso e pertanto l’hanno anche gli altri animali (e in effetti, fin qui giunge la loro natura, di avere la sensazione di quanto è doloroso e gioioso, e di indicarselo a vicenda), ma la parola è fatta per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e l’ingiusto: questo è, infatti, proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, di avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e degli altri valori: il possesso comune di questi costituisce la famiglia e lo stato”.

 

Harendt, in Vita activa, scrive sulla condizione umana:


“La lingua dei romani, forse il popolo più politico che abbiamo conosciuto, usava le espressioni “vivere” e “essere fra gli uomini”, e “morire” e “cessare di essere fra gli uomini” come sinonimi”.

 

Cassirer, nel suo Saggio sull’uomo, scrive:

 

“Ma la vita politica non è la sola forma di esistenza umana comunitaria. Nella storia dell’umanità lo Stato inteso nella sua forma attuale figura come prodotto relativamente tardo nel processo civilizzatorio. Assai prima che fosse stata creata questa forma di organizzazione sociale l’uomo aveva fatto altri tentativi per ordinare le sue attività, i suoi sentimenti, i suoi desideri e i suoi pensieri. Simili sistematizzazioni sono il linguaggio, il mito, la religione e l’arte”.

 

Tocqueville, ne La democrazia in America, scrive:

 

“Tutti i secoli hanno forse somigliato al nostro? E l’uomo si è sempre trovato in un mondo in cui la virtù è senza genio e il genio senza onore? Dove l’amore per l’ordine si confonde con la tirannide e il culto della libertà col disprezzo delle leggi? Dove niente più è vietato, né permesso, né onesto, né vergognoso, né vero, né falso?”.

 

La politica non è altro che l’insieme delle ragioni per obbedire e di ribellarsi; l’ideale anarchico prevede che ognuno agisca secondo la propria coscienza, senza riconoscere alcun tipo d’autorità; l’anarchia postula una società libera dall’obbedienza a qualcuno, e dunque libera anche dalla necessità della ribellione. In una parola: la fine della politica, il suo pensionamento; i capi sostengono che ci comandano per il nostro bene; gli anarchici rispondono che il nostro vero bene sarebbe non esser comandati da nessuno, perché in quel caso ciascuno obbedirebbe…non a un individuo fallace e capriccioso, ma alla bontà della natura umana; una società senza politica sarebbe una società senza conflitti; ciò che ci rende nemici è ciò che ci accomuna: l’interesse (etimologicamente) è quanto sta fra due o più persone, vale a dire ciò che le unisce, ma anche ciò che le separa. Sentiremo dire che la colpa dei mali sociali ce l’hanno gli asociali, gli individualisti, ma non è cosi; i nemici più pericolosi del sociale sono quelli che si credono il sociale più di ogni altro, quelli che trasformano le preoccupazioni sociali (denaro, per dirne una) in passioni travolgenti, quelli che vogliono collettivizzare tutto o che si impegnano affinché tutti formiamo un’unità indivisibile; la gente più socievole è quella che accetta il compromesso con gli altri ragionevolmente, vale a dire senza esagerazioni.

Una società senza conflitti non sarebbe una società umana, ma un cimitero o un museo delle cere.

Si potrebbe aggiungere che in politica non c’e’ oggettività, e che l’unica cosa che non tradisce è il Partito… perché i compagni, o partono o si vendono!

Cambiamo invece discorso; Il perché della filosofia è  l’inizio del celebre libro di Savater intitolato Le domande della vita; un inizio dunque, ma anche una fine.

Ecco una delle preferite citazioni di Savater, tratta da Octavio Paz:

 

“albero di sangue, l’uomo sente, pensa, fiorisce e dà insoliti frutti: parole. S’intrecciano sensi e pensiero, tocchiamo le idee: sono corpi e sono numeri”.

 

Rammentiamo dunque, queste favolose pagine de Il perché della filosofia: a cavallo fra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI, ha ancora senso continuare a  far studiare filosofia al liceo? Non sarà una questione di pura sopravvivenza del passato, che i conservatori esaltano in virtù del suo tradizionale prestigio, ma cui i progressisti e le persone pratiche debbano guardare con giustificato fastidio? Possono i giovani, o meglio gli adolescenti e i bambini, capire qualcosa di ciò che alla loro età deve sembrare un rompicapo? Non è più facile che, nel migliore dei casi, si limitino a memorizzare un certi numero di formule noiose che poi ripeteranno come dei pappagalli? Forse la filosofia interessa soltanto poche persone, quelle che hanno già una vocazione filosofica, se esiste qualcosa del genere, ma questo genere di individui avrà la possibilità di scoprirla comunque in futuro. Allora, perché imporla a tutti alle scuole superiori? Non è una perdita di tempo, bizzarra e reazionaria, visto il sovraccarico degli attuali programmi di liceo? È curioso che i primi avversari della filosofia le rimproverassero proprio di essere “una cosa da bambini”, adatta a mo’ di passatempo formativo nei primi anni di studio, ma assolutamente inadeguata per gli adulti. Un esempio è Callicle, che pretende di ribattere all’opinione di Socrate secondo la quale “è meglio subire un’ingiustizia piuttosto che causarla”. Secondo lui, ciò che veramente è giusto, al di là di ciò che dicono le leggi, è che i forti si impongano sui deboli, coloro che valgono di più su quelli che valgono di meno e i capaci sugli incapaci. La legge potrà anche dire che commettere un’ingiustizia sia peggio che subirla, ma è naturale pensare che sia peggio patirla che infliggerla. Tutto il resto sono sottigliezze filosofiche, per cui l’ormai caduto Callicle nutre il massimo disprezzo: “la filosofia è, senza dubbio, piena di grazia, purchè venga studiata con misura; in età giovanile, ma se con essa ci s’intrattiene oltre il dovuto limite, è la rovina degli uomini”. Apparentemente, Callicle non trova niente di male nell’insegnare ai giovani la filosofia, anche se considera il vizio di filosofare un peccato rovinoso quando si sia diventati adulti. Apparentemente perché non possiamo dimenticare che Socrate fu condannato a bere la cicuta in base all’accusa di corrompere i giovani seducendoli con il suo pensiero e le sue parole. In fin dei conti, se la filosofia sparisse del tutto, per grandi e piccini, l’energico Callicle, sostenitore della ragione del più forte, non se l’avrebbe tanto a male…

Se si vogliono riassumere i rimproveri mossi alla filosofia in quattro parole, bastano queste: non serve a niente. Più di chiunque altro, i filosofi vogliono conoscere tutto lo scibile umano, ma in realtà non sono altro che ciarlatani, amanti della vacua verbosità. E allora, chi sa veramente quel che c’è da sapere sul mondo e la società? Bhe, gli scienziati e i tecnici, gli specialisti, quelli che sono in grado di dare informazioni valide sulla realtà. In fondo i filosofi si ostinano a parlare di ciò che non sanno: lo ammise anche Socrate, quando disse “so soltanto di non sapere nulla”. Ma se non sa niente, perché, giovani e meno giovani, lo ascoltiamo? Quello che dobbiamo fare è apprendere da coloro che sanno, non da quelli che non sanno. Soprattutto oggi, visti gli enormi progressi della scienza che ci hanno permesso di sapere come funziona la maggior parte delle cose, nonché di farne funzionare altre, inventate dalla scienza applicata. Dunque, nell’epoca attuale, quella delle grandi scoperte tecnologiche, nel mondo dei microchip e degli acceleratori di particelle, nel regno di Internet e della televisione digitale…quali sono le informazioni che può fornirci la filosofia? L’unica risposta che ci rassegneremo a dare è quella che probabilmente avrebbe dato anche Socrate: nessuna. Ci informano le scienze naturali, i giornali, alcuni programmi televisivi…ma non esiste l’informazione “filosofica”. Come disse Ortega, citato nell’Avvertenza, la filosofia è incompatibile con le notizie e l’informazione è fatta di notizie. Benissimo, ma è solo di informazioni che abbiamo bisogno per comprendere meglio noi stessi e quel che ci circonda? Immaginiamo di ricevere una notizia qualsiasi, per esempio questa: un numero x di persone muore tutti i giorni di fame in tutto il mondo. E noi, una volta ricevuta questa informazione, domandiamo o ci domandiamo, che cosa dobbiamo pensare di un fatto simile. Raccoglieremo varie opinioni, alcune delle quali ci diranno che tali morti sono dovute a squilibri del ciclo macroeconomico globale, altre ci parleranno del problema della sovrappopolazione del pianeta, alcuni si scaglieranno contro l’ingiusta suddivisione dei beni fra ricchi e poveri, o invocheranno la volontà di Dio o la fatalità del destino…E certamente ci sarà anche qualche persona semplice e candida, il nostro portiere o l’edicolante che ci vende i giornali, che commenterà: “in che razza di mondo viviamo!”. E noi allora, come un’eco, ma cambiando la frase da esclamativa a interrogativa, ci domanderemo: “ecco, in che mondo viviamo?”. Non c’è una risposta scientifica a quest’ultima domanda, perché ovviamente non ci accontenteremo di risposte del tipo “viviamo sul pianeta terra”, “viviamo proprio in un mondo dove x persone muoiono di fame tutti i giorni” e nemmeno che si dica che “viviamo in un mondo molto ingiusto” o in “un mondo maledetto da Dio a causa dei peccati degli uomini” ( perché è ingiusto quel che succede? In che cosa consiste la maledizione divina e chi ne afferma l’esistenza?). In una parola, non vogliamo ulteriori informazioni su quanto accade intorno a noi, bensì vogliamo sapere che cosa significa l’informazione che abbiamo ricevuto, come interpretarla e metterla in relazione con altre informazioni precedenti o contemporanee, che cosa implica tutto ciò alla luce delle considerazioni generali sulla realtà in cui viviamo, come possiamo o dobbiamo comportarci in una situazione così definita. Sono proprio queste le domande cui attiene ciò che chiameremo filosofia. Diciamo che ci sono tre differenti livelli di comprensione:

 

a)     l’informazione, che ci presenta i fatti e i meccanismi primari di quanto succede;

b)    la conoscenza, che riflette sull’informazione ricevuta, crea una gerarchia fra i significati e cerca principi generali in base ai quali ordinarla;

c)     la saggezza, che vincola la conoscenza alle scelte di vita o ai valori assunti come propri, nel tentativo di stabilire come vivere meglio in base a ciò che sappiamo.

 

La scienza tende a muoversi fra i livelli a) e b) della conoscenza, mentre la filosofia opera fra i livelli b) e c). Dunque non si dà un’informazione propriamente filosofica, mentre al contrario esiste la conoscenza filosofica: a noi piacerebbe che esistesse anche la saggezza filosofica. È possibile ottenere una cosa simile? E soprattutto: una cosa del genere può essere insegnata?

Cerchiamo un’altra prospettiva partendo da un altro esempio o, per maggiore esattezza, utilizzando una metafora. Immaginiamo di trovarci nel museo del Prado, davanti a uno dei quadri più famosi tra quelli che vengono ospitati, Il giardino delle delizie, di Hieronymus Bosch. Quale forma di comprensione possiamo avere di questo capolavoro? Dovremo innanzi tutto effettuare un’analisi fisico-chimica della tessitura della tela, della composizione dei vari pigmenti che compongono i colori e persino utilizzare i “raggi x” per individuare le tracce di altre immagini o di abbozzi di figure nascosti sotto la pittura. In fin dei conti, il quadro è un oggetto materiale, una cosa fra le cose che, come tale, può essere pensata, misurata, analizzata, sminuzzata, e via dicendo. Tuttavia, è anche indubbiamente una superficie sulla quale, grazie ai colori e alle forme, è rappresentato un certo numero di figure. Dunque, per comprendere interamente il dipinto occorre anche realizzare l’inventario completo di tutti i personaggi e di tutte le scene che in esso compaiono, che si tratti di persone, di animali, di mostri demoniaci, di vegetali o di cose, nonché rilevare la distribuzione di ognuno nelle tre parti del trittico. Tuttavia, tante figure e tante meraviglie non sono gratuite né comparvero da sole, un bel giorno, sulla superficie della tela. Un altro modo di intendere l’opera sarà prendere atto del fatto che il suo autore (al quale i contemporanei si riferivano anche con il nome di Jeroen Van Aeken) nacque nel 1450 e morì nel 1516. Fu un illustre pittore della scuola fiamminga, il cui stile diretto, rapido e dai toni delicati segna la fine della pittura medievale. I temi che raffigura, tuttavia, appartengono al mondo religioso e simbolico del Medioevo, anche se reinterpretato con grande libertà soggettiva. Un lavoro paziente può sviscerare, o almeno cercare di sviscerare, il contenuto allegorico di molte delle sue immagini secondo l’iconografia dell’epoca; il resto potrebbe ben essere spiegato alla luce dell’ermeneutica onirica della psicoanalisi freudiana. D’altra parte, Il giardino delle delizie è un’opera che appartiene al periodo centrale dell’attività dell’artista, come Le tentazioni di sant’Antonio conservate nel Museo di arte antica di Lisbona, realizzate cioè prima che l’autore cambiasse genere rappresentativo e disposizione delle figure, come si può vedere nei quadri successivi, ecc. Potremmo immaginare anche un altro modo di comprendere il quadro, una prospettiva che ignori né scarti nessuna delle precedenti, ma che voglia comprenderle tutte nei limiti del possibile, aspirando a capire l’opera nella sua totalità. Da questo punto di vista certamente più ambizioso, Il giardino delle delizie è sì un oggetto materiale, ma anche una testimonianza storica, una lezione mitologica, una satira delle ambizioni umane e un’espressione plastica della personalità più recondita dell’autore. Soprattutto, è qualcosa di profondamente significativo che interpella personalmente coloro che lo guardano a distanza di tanti secoli dalla sua realizzazione, che si riferisce a ciò che sappiamo, fantastichiamo e desideriamo della realtà e che ci rimanda ad altri modi simbolici e artistici di vivere nel mondo, a ciò che ci fa pensare, ridere e cantare, alla condizione esistenziale che condividiamo con tutti gli esseri umani, vivi, morti o non ancora nati. Quest’ultima prospettiva, che dal quadro ci porta direttamente a ciò che siamo e, dunque, a ciò che è la realtà nel suo complesso per poi tornare ancora nel quadro, sarà il punto di vista che possiamo definire filosofico. E, ovviamente, esiste una prospettiva di comprensione filosofica per ogni cosa, non solo per i capolavori della pittura. Riproviamo ancora una volta a definire la differenza essenziale fra scienza e filosofia. La prima cosa che salta agli occhi non è ciò che le distingue, bensì quel che le avvicina: sia la scienza sia la filosofia cercano di rispondere alle domande che la realtà solleva. Infatti, in origine la scienza e la filosofia erano unite e solo nel corso dei secoli la fisica, la chimica, l’astronomia e la psicologia incominciarono a rendersi autonome rispetto alla matrice filosofica comune. Oggi, le scienze intendono spiegare come sono fatte le cose e come funzionano, mentre la filosofia s’incentra piuttosto su quel che le cose significano per noi; la scienza deve adottare il punto di vista impersonale per poter parlare di tutto (perfino quando studia proprio le persone!), mentre la filosofia rimane sempre consapevole del fatto che la conoscenza possiede necessariamente un soggetto, un protagonista umano. La scienza aspira a conoscere ciò che esiste e accade; la filosofia si dedica a riflettere sull’importanza che ha per noi ciò che sappiamo esistere e accadere. La scienza moltiplica le prospettive e i campi della conoscenza, vale a dire frammenta e specifica il sapere; la filosofia s’impegna a mettere tutto in relazione con tutto, nel tentativo di contestualizzare i saperi in un panorama teorico che sorvoli la diversità dal punto di vista di questa avventura unitaria che è il pensare, ossia l’essere umani. La scienza smonta le apparenze del reale in elementi teorici invisibili, ondulatori o corpuscolari, suscettibili di forme matematiche, in elementi astratti intangibili; senza ignorare né disprezzare questa analisi, la filosofia riscatta la realtà umanamente vitale di ciò che è apparente, in cui trascorrere la peripezia della nostra esistenza concreta (per esempio la scienza ci rivela che gli alberi e i tavoli sono composti di elettroni, neutroni e via dicendo, mentre la filosofia, senza minimizzare tale rivelazione, ci restituisce a una realtà umana situata fra alberi e tavoli). La scienza è alla ricerca di saperi e non di semplici supposizioni; la filosofia vuole sapere ciò che implica per noi l’insieme dei nostri saperi, e perfino se si tratti di saperi autentici o di ignoranza mascherata. Perché la filosofia è solita interrogarsi principalmente sulle questioni che gli scienziati (e naturalmente le persone normali) danno per scontate ed evidenti. Bene lo enuclea Thomas Negel:

 

“il principale interesse della filosofia è mettere in questione e comprendere idee assolutamente comuni che tutti noi impieghiamo ogni giorno senza pensarci sopra. Uno storico può chiedere che cosa è accaduto in un certo tempo del passato, ma un filosofo chiederà  ‘Che cos’è il tempo?’ Un matematico può studiare le relazioni tra i numeri, ma un filosofo chiederà ‘Che cos’è un numero?’. Un fisico chiederà di che cosa sono fatti gli atomi o cosa spiega la gravità, ma un filosofo chiederà come possiamo sapere che vi è qualcosa al di fuori delle nostre menti. Uno psicologo può studiare come i bambini imparino il linguaggio, ma un filosofo chiederà ‘Cosa fa in modo che una parola significhi qualcosa?’. Chiunque può chiedersi se è sbagliato entrare in un cinema senza pagare , ma un filosofo chiederà ‘Che cosa rende un’azione giusta o sbagliata?’”.

 

In ogni caso, sia le scienze sia la filosofia rispondono alle domande che ci pone la realtà. Tuttavia, a tali domande le scienze offrono delle soluzioni, vale a dire, risposte che soddisfino in questo modo la questione, annullandola e dissolvendola. Quando una risposta scientifica funziona in quanto tale, non ha più senso insistervi, poiché la domanda cessa di essere interessante; invece, la filosofia non offre soluzioni, ma risposte, le quali, pur non annullando le domande, ci permettono di convivere razionalmente con esse, anche se continueremo a porcele più volte: per quante risposte filosofiche possiamo trovare alla domanda su che cosa sia la giustizia o su che cosa sia il tempo, non smetteremo mai di interrogarci sulla giustizia e sul tempo, né scarteremo come oziose o superate le risposte date a tali domande dai filosofi precedenti. Le risposte filosofiche non risolvono i quesiti della realtà, piuttosto coltivano la domanda, mettono in risalto l’essenza di questo domandare e ci aiutano a non smettere di farlo, a domandare sempre meglio, a umanizzarci nella convivenza perpetua con il quesito. Del resto, che cos’è l’uomo se non l’animale che fa domande e che continuerà a farle al di là di qualsiasi immaginabile risposta?

Ci sono domande che ammettono una soluzione soddisfacente e sono quelle che si pone la scienza; poi ce ne sono altre cui riteniamo impossibile riuscire a dare una risposta del tutto esauriente: rispondere a queste domande, sebbene sempre in modo incompleto, è precisamente l’impegno della filosofia. Nella storia, è accaduto che alcuni quesiti che inizialmente erano competenza della filosofia, come la natura e il movimento degli astri, per esempio, siano stati successivamente risolti dalla scienza. In altri casi, questioni cui apparentemente aveva risolto la scienza passarono a essere affrontate da nuovi punti di vista scientifici grazie allo stimolo rappresentato dai dubbi di natura filosofica (il passaggio dalla geometria euclidea alle geometrie non euclidee costituisce in questo senso un esempio). Chiarire quali domande paiano oggi appartenere al primo gruppo e quali al secondo è una delle funzioni critiche più importanti dei filosofi e degli scienziati. È probabile che certi aspetti delle domande di cui si occupa oggi la filosofia ricevano domani una soluzione scientifica, e senza dubbio le future soluzioni scientifiche forniranno un aiuto decisivo nella riformulazione delle risposte filosofiche a venire; d’altra parte, non sarebbe la prima volta che la funzione dei filosofi orienta o ispira alcuni scienziati. Non c’è ragione che giustifichi una opposizione irriducibile, né tanto meno un vicendevole disprezzo tra scienza e filosofia, come credono gli scienziati e i filosofi di basso profilo. L’unica cosa di cui possiamo essere sicuri è che la scienza e la filosofia non saranno mai a corto di domande cui cercare una risposta.

Tuttavia, c’è un’altra differenza importante fra scienza e filosofia che non riguarda i risultati che esse hanno raggiunto, bensì il modo in cui sono arrivate a dei risultati. Uno scienziato può utilizzare le soluzioni trovate dai suoi predecessori senza bisogno di ripercorrere da solo tutti i ragionamenti, i calcoli e gli esperimenti che hanno portato alla loro scoperta; ma quando qualcuno ha intenzione di filosofare, non può accontentarsi di accettare le risposte di altri filosofi o di citare la loro autorità come argomento incontrovertibile: nessuna risposta filosofica sarà valida se l’individuo non ripercorre da solo il cammino tracciato dai suoi predecessori o se non ne tenta uno nuovo basandosi su punti di vista altrui che avrà, però, meditato in modo assolutamente personale. In una parola, l’itinerario filosofico deve essere pensato individualmente da ciascuno, anche se parte da una tradizione intellettuale assai ricca. I risultati ottenuti dalla scienza sono a disposizione di chiunque voglia consultarli, mentre quelli della filosofia servono unicamente a coloro che decidano di riflettervi per conto loro. Per dirla in modo radicale: i progressi scientifici hanno come obiettivo quello di migliorare la nostra conoscenza collettiva della realtà, mentre filosofare significa aiutare a trasformare e ad ampliare la visione personale del mondo di chi si dedica a questo compito. Si può svolgere una ricerca scientifica al posto di un altro, ma non si può pensare filosoficamente al posto di un altro, per quanto i grandi filosofi ci abbiano aiutato a pensare. Forse potremmo aggiungere che le scoperte della scienza rendono più facile il compito degli scienziati che vengono dopo, mentre i contributi della filosofia rendono sempre più complesso l’impegno di coloro che si mettono a pensare dopo di loro. Deve essere questo il motivo per cui Kant disse che ciò che si può insegnare non è la filosofia, ma “l’attitudine a filosofare”: perché non si tratta di trasmettere un sapere già concluso da altri che chiunque può imparare come s’imparano a memoria la capitali d’Europa, ma di un metodo, vale a dire un percorso del pensiero, un modo di porsi dinanzi alle cose e di argomentare.

“So soltanto di non sapere nulla”, dice Socrate, e si tratta di un’affermazione che bisogna prendere – a partire da ciò che dissero Platone e Senofonte su colui che la proferì – in maniera ironica. “So soltanto di non sapere nulla” va allora inteso così: “non mi soddisfa nessuno dei saperi di cui voi siete tanto contenti. Se sapere consiste in questo, io non devo sapere nulla perché vedo obiezioni e mancanza di  fondamento nelle vostre certezze. Ma almeno so di non sapere nulla, vale a dire ho degli argomenti per non fidarmi di ciò che viene comunemente detto sapere. Forse voi sapete tante cose come sembra e, se è cosi, dovreste essere capaci di rispondere alle mie domande e di dissipare i miei dubbi. Esaminiamo insieme ciò che vuole essere definito sapere e smontiamo quanto i cosiddetti esperti non possono mettere al riparo dalla tempesta delle mie domande. Limitarsi a ripetere ciò che comunemente si pensa di sapere non significa sapere veramente. Sapere di non sapere è preferibile a credere di sapere qualcosa su cui non abbiamo riflettuto a fondo personalmente. Una vita di riflessione, vale a dire la vita di chi non pondera le risposte che vengono date alle domande fondamentali, né tenta di rispondervi da solo, non vale la pena di essere vissuta”. Ovvero, la filosofia, prima di proporre teorie che risolvano le nostre perplessità, deve essere essa stessa perplessa. Prima di dare le risposte autentiche, deve mettere in chiaro i motivi per cui non la convincono le risposte false. Una cosa è sapere dopo aver pensato e discusso, e un’altra, radicalmente diversa, è adottare le conoscenze che nessuno mette in discussione per non vedersi costretto a pensare. Prima di giungere a sapere, filosofare significa difendersi da coloro che credono di sapere mentre non fanno altro che ripetere gli errori altrui. Ben più importante di fondare delle conoscenze è l’esser capaci di criticare ciò che non si conosce a fondo o che non si conosce affatto, malgrado si creda il contrario: prima di sapere perché afferma ciò che afferma, il filosofo deve sapere almeno perché dubita di quanto affermano gli altri e perché non si decide ad affermarlo a sua volta. E questa funzione negativa, difensiva, critica, ha già un valore in se stessa, anche se non possiamo andare più in là e anche se, nel mondo di coloro che credono di sapere, il filosofo è forse l’unico che accetta di non sapere, ma almeno è consapevole della propria ignoranza. Ma si può insegnare ancora a filosofare nel terzo millennio, quando tutti sembrano non desiderare altro che soluzioni immediate e prefabbricate alle domande così scomode che si stagliano sull’abisso dell’inconoscibile?

Poniamo la questione in un altro modo: non significa rendere pienamente umana la principale funzione dell’educazione? C’è un’altra dimensione tipicamente umana, più necessariamente umana, dell’inquietudine che da secoli ci spinge a filosofare? Può l’educazione prescindere da essa e continuare a svolgere la sua funzione umanizzante nel senso libero e antidogmatico di cui ha bisogno la società democratica in cui vogliamo vivere? D’accordo, accettiamo il fatto che sia necessario tentare di insegnare ai giovani la filosofia, o meglio a filosofare. Tuttavia, come portare a termine tale insegnamento, che non può essere altro che un invito affinché ognuno impari a filosofare da solo?

 

 

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