SCHOPENHAUER

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IL COMICO

1. Le fonti. La teoria della comicità e dell'arguzia si trova nel § 13 dell'opera principale di Schopenhauer: Il mondo come volontà e rappresentazione (1818). Il Mondo, tuttavia, non ebbe il successo sperato, e Schopenhauer mette mano a una riedizione dell'opera solo nel '44. La mole del libro cresce sensibilmente: Schopenhauer l'arricchisce di molti supplementi. Tra questi vi è anche un approfondimento della teoria del ridicolo (Supplementi, cap. VIII), volto più a chiarire che a correggere le pagine del 1818. Nel corso delle nostre considerazioni ci rifaremo, senza ulteriori indicazioni, alle pagine del Mondo e dei Supplementi.


2. Una premessa necessaria: intelletto e ragione nella filosofia di Schopenhauer. Le riflessioni di Schopenhauer sul riso si collocano nel primo libro de Il mondo come volontà e rappresentazione, e costituiscono una breve digressione volta a far luce su uno dei nodi centrali della sua filosofia: il rapporto tra intelletto e ragione. Di qui la necessità di premettere alle nostre considerazioni una breve esposizione del senso che Schopenhauer attribuisce a queste due facoltà che, a partire almeno dalla Critica della ragion pura, diventano centro di interpretazioni contrastanti.

Per Schopenhauer come per Kant, l'intelletto ha una funzione trascendentale: permette di passare dall'ambito delle sensazioni alla sfera degli oggetti della nostra esperienza. Il rimando a Kant, tuttavia, non deve impedirci di cogliere una differenza sostanziale: per Schopenhauer, e non certo per Kant, l'intelletto fa tutt'uno con l'intuizione e non deve essere inteso alla luce della forma logica del giudizio. L'esperienza non assume validità obiettiva grazie alle categorie della logica trascendentale: se dalle sensazioni come modificazioni della nostra corporeità risaliamo agli oggetti non è perché i dati sensibili vengono connessi nell'unità di un giudizio, ma è solo in virtù dell'interpretazione tanto irriflessa, quanto istintiva che ci costringe a pensare alla causa dei nostri stati psicologici. L'intelletto non è allora, per Schopenhauer, la kantiana facoltà di pensare i fenomeni, ma è ciò che permette all'uomo e agli altri animali di orientarsi nel mondo e di intuirlo come una concatenazione di eventi causalisticamente connessi.

Diversamente stanno le cose per la ragione. La ragione è, per Schopenhauer, la facoltà che ci permette di risalire dalla rappresentazione al concetto e di cogliere le relazioni che tra i concetti sussistono. L'uomo non si limita a operare nell'esperienza, ma riflette anche sull'esperienza: la ragione ci permette di riflettere sulla realtà, di raccogliere nell'unità di una rappresentazione di secondo grado (di una rappresentazione di rappresentazioni) una molteplicità di rappresentazioni individuali tra loro per qualche aspetto simili.

E tuttavia, nella natura mediata del concetto, Schopenhauer non coglie soltanto la definizione logica del pensiero razionale, ma anche la sua più generale collocazione metafisica:

come dalla luce diretta del Sole si passa a quella riflessa della Luna, così ora passeremo dalla rappresentazione intuitiva che si afferma e garantisce da sé, alla riflessione, ai concetti astratti della ragione (Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit., p. 75)

- così scrive Schopenhauer, e di quest'immagine che apre le sue considerazioni sulla ragione non si può rendere conto solo richiamandosi alla tesi di sapore empiristico secondo la quale il piano concettuale non fa che rispecchiare in forma attenuata la ricchezza del mondo intuitivo. Dietro quell'immagine vi è altro: il Sole è calore, luce, vitalità, mentre la Luna è un valore notturno, e brilla di luce fredda nella sua lontananza dalle vicende umane.

Sono proprio questi valori immaginativi che Schopenhauer intende proiettare sulla nozione dio ragione. Finché si muove sul terreno dell'intuizione concreta, l'uomo è interamente immerso nel presente, ed è tutt'uno con la natura e con il mondo e quindi anche con la volontà che lo anima. La ragione strappa l'uomo da questo sicuro (e ingenuo) sentimento della vita e lo getta in una nuova dimensione dell'esistenza, più fredda e priva di colore e di vitalità. In altri termini, la ragione ci distacca dal flusso dell'esperienza, ci permette - per così dire - di contemplare dall'alto ciò che accade. I concetti, proprio perché ci permettono di avanzare previsioni raccordando il presente all'esperienza passata, ci strappano dal dominio che l'attimo esercita su di noi, disponendoci in una dimensione diacronica e quindi storica. La ragione è dunque ciò che allontana l’uomo dalla vita, che cancella la sua piena e spontanea adesione al mondo, separandolo dalla natura e dal suo continuo fluire.

Questa separazione ha il suo suggello nella paura della morte che è così tipica dell’uomo e che dipende dalla sua razionalità: solo perché la ragione strappa l’uomo dalla sua immediata e vitale adesione al mondo, solo perché lo toglie dall’attimo presente in cui è la vita, per disporlo nella prospettiva della storia, solo per questo può insinuare nel suo animo la paura per ciò che ancora non è, ma verrà - la morte.


3. Il riso come rivincita della vita: la teoria schopenhaueriana del ridicolo. Sullo sfondo metafisico che abbiamo delineato si colloca la dottrina schopenhaueriana del ridicolo. Si tratta di una teoria molto semplice che tuttavia pretende di avere validità universale:

Il riso - osserva Schopenhauer - proviene sempre da un’incongruenza subitamente constatata fra un concetto e l’oggetto reale cui quel concetto, in un modo o nell’altro, ci fa pensare; e non è appunto se non l’espressione di questa incongruenza (ivi, p. 109).

È facile suggerire degli esempi che mostrino concretamente il senso di questa definizione. Di un predicatore noiosi può dire "Bav è il buon pastore di cui la Bibbia parlava / quando il suo gregge dormiva lui solo vegliava" (ivi, p. 854), così come nell’epitaffio di un medico si può scrivere "egli giace qui, come un eroe circondato dalle sue vittime" (ivi), ed in entrambi i casi il riso nasce perché ciò che si adatta bene al concetto (il pastore che si preoccupa delle sorti di un’umanità ignara e il combattente caduto dopo aver fatto strage del nemico) si dimostra invece del tutto incongruente non appena ci poniamo sul terreno dell’oggetto concreto (ivi).

Da questa base semplicissima, Schopenhauer muove per caratterizzare ulteriormente il fenomeno che gli sta a cuore. Un’incongruenza tra conoscenza astratta e conoscenza intuitiva può avere luogo in due diverse forme:

o sono dati nella conoscenza due o più differenti oggetti reali, due o più rappresentazioni intuitive che identifichiamo arbitrariamente nell’unità di un concetto comune […]. Oppure, viceversa, c’è dapprima nella conoscenza il concetto, dal quale passiamo in seguito alla realtà, cioè alla pratica: oggetti radicalmente differenti sotto ogni altro aspetto, ma che il pensiero abbraccia sotto un solo concetto, vengono trattati e considerati tutti allo stesso modo; finché da ultimo la grande divergenza che li separa finisce per dare nell’occhio con grande sorpresa e meraviglia di chi opera (ivi, p. 109).

Schopenhauer propone di chiamare arguzia il primo genere del ridicolo, per riservare al secondo il nome di buffoneria. Questa classificazione del ridicolo può essere ulteriormente arricchita, e Schopenhauer si muove in questa direzione quando illustra brevemente la natura del calembour, dello scherzo, dell’ironia, dell’umorismo. Tuttavia, piuttosto che soffermarci su queste nozioni che possono essere desunte facilmente dalle pagine schopenhaueriane e che restano comunque in ombra nella sua teoria, vorremmo soffermarci un poco sulla distinzione principale che Schopenhauer propone: quella tra buffoneria e arguzia. L’arguzia, egli osserva, è sempre volontaria: sorge quando intendiamo mostrare l’incapacità di un concetto di dominare la ricchezza di senso del materiale intuitivo. Al contrario la buffoneria è sempre involontaria, e ha la sua origine nella convinzione, che si mostrerà poi erronea, di avere nella ragione una guida sicura per le nostre azioni. Così, seppure da prospettive diverse, buffoneria ed arguzia ci mostrano uno stesso stato di cose: ciò che l’uomo arguto ci fa comprendere e che traspare nel gesto del buffone è di fatto

l’incapacità della ragione con i suoi concetti astratti ascendere fino all’infinita molteplicità e alle infinite sfumature dell’intuizione (ivi, pp.860-1).

Del resto, è proprio in questo incrinarsi del dominio della ragione sulla vita che consiste la forma del piacere che proviamo ridendo:

è questa vittoria della conoscenza intuitiva sul pensiero che ci rallegra. Intuire è infatti il modo primitivo di conoscere, inseparabile dalla natura animale, un conoscere in cui si presenta tutto ciò che dà soddisfazione immediata alla volontà: è l’intermediario del presente, del godimento, della gioia […]. Con il pensiero accade sempre il contrario: pensare è il conoscere alla seconda potenza, che esige sempre qualche sforzo, spesso anche considerevole; suoi sono i concetti, che così spesso si oppongono alla soddisfazione dei nostri desideri immediati, giacché tali concetti, come intermediari del passato, del futuro e della serietà, fanno da veicoli ai nostri timori, ai nostri rimorsi e a tutte le nostre preoccupazioni. Dev’essere perciò un godimento scoprire una buona volta l’insufficienza della ragione, di questa governante severa, instancabile e opprimente. Per questo dunque l’espressione del riso e quella della gioia si assomigliano tanto (ivi, p. 861).

L’immagine della ragione come una governante opprimente e saccente indica del resto la via per comprendere quell’accostamento tra pedanteria e buffoneria che, a prima vista, può stupire, ma che è in realtà perfettamente coerente con l’approccio schopenhaueriano. Il pedante ha poca fiducia nelle sue capacità intuitive e teme l’urgenza e la complessità dei problemi che il presente gli pone: si arma per questo di un insieme di regole che gli permettono di cancellare la novità del presente, riconducendolo (e quindi riducendolo) a ciò che è già stato. Il pedante abbandona la vita in concreto per rifugiarsi nella vita in abstracto, in un’esistenza, dunque, nella per ogni problema quale vi è già una soluzione collaudata. Ma il corso della vita e dell’esperienza non sono proni ai dettati della pedanteria: il concetto - di cui il pedante fa la sua unica guida -

Non discende mai fino al particolare e […] la sua universalità e la rigidezza della sua determinazione non gli permettono di esprimere esattamente le sfumature, le svariate modificazioni della realtà (ivi, p. 110).

Per quanto fitta, la rete delle regole non aderisce mai perfettamente alla realtà, ed il pedante diviene così preda del ridicolo. E se le cose stanno così, il riso non è che il gesto liberatorio nel quale la vita si affranca dalle forme morte in cui la ragione la costringeva: sullo sfondo della dottrina schopenhaueriana della comicità si deve dunque leggere una rivendicazione esplicita dei diritti della vita e dell’immediatezza sulle forme astratte e rigide della ragione.


4. Lo spirito della storia e lo spirito della terra. Le nostre considerazioni sulla teoria schopenhaueriana del ridicolo potrebbero chiudersi già qui. e tuttavia è forse opportuna una breve digressione volta a far luce su un passo del Mondo in cui Schopenhauer tocca, seppure di sfuggita, l’argomento del riso. Si tratta di un passo molto impegnativo dal punto di vista metafisico: Schopenhauer intende infatti liberarsi con poche parole delle concezioni razionalistiche della storia, ed in particolare di quella hegeliana, tutta volta a cercare nella concatenazione degli eventi il dipanarsi necessario dello Spirito. Ora, la prima mossa in questa direzione consiste, per Schopenhauer, nel sottolineare come la storia non sia affatto il processo necessario in cui lo Spirito si rivela, ma sia piuttosto il regno del caso:

Se, per ipotesi, ci fosse dato di gettare uno sguardo luminoso nel regno della possibilità e sulla completa catena delle cause e degli effetti, lo Spirito della Terra sorgerebbe, e ci mostrerebbe in un quadro gli uomini più eminenti, i luminari del mondo e gli eroi che furono rapiti dal destino prima che l’ora delle rispettive missioni fosse suonata. Ci mostrerebbe quindi i grandi avvenimenti che avrebbero cambiato aspetto alla storia del mondo, e arrecato ere di luce e di suprema civiltà, se il caso più cieco e l’accidente più futile non li avessero soffocati sul nascere (ivi, p. 271).

Ora, di fronte a questo spettacolo, noi uomini abituati a comprenderci come frutto della storia non potremmo probabilmente sottrarci ad un senso di raccapriccio, e ci dispereremmo per le crudeli scelte operate dal caso. E tuttavia all’uomo che piange il mancato progresso dell’umanità e lamenta l’assenza di una Ragione nella storia, lo Spirito della terra potrebbe rispondere con un sorriso (ivi, p. 271), poiché a chi ha compreso che i fenomeni nel loro mutevole esserci altro non sono che manifestazioni di un’identica volontà, non può che apparire ridicola la pretesa razionalistica di scorgere nel fluire del tempo il progresso della storia degli uomini.

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