IL GENIO E L'ARTE


 

 

La dottrina delle idee rende conto dell’AMBIGUITÀ DEL CONOSCERE: la conoscenza è ambigua poiché in essa convivono una tendenza alla menzogna, frutto dell’obiettivazione inadeguata, e  una tendenza veritiera, frutto dell’obiettivazione adeguata. Questa tendenza veritiera è una sorta di anamnesi platonica, è il ricordo che il soggetto ha di sé come puro soggetto conoscente: è come se vi fossero tracce di esso nel singolo soggetto empirico. Si spiega così la nostra parziale tendenza alla verità.

Ogni prevalenza della dimensione oggettiva e contemplativa nel nostro conoscere è una conseguenza dell’influenza esercitata su di noi dall’obiettivazione adeguata. Quando il soggetto si abbandona al puro pensiero, trascende per un attimo se stesso e ritorna a quella dimensione sovraindividuale di pura conoscenza; tale soggetto, però, non è il singolo individuo, è la volontà come cosa in sè assoluta. Nel momento in cui ci si immerge nell’intuizione e nella contemplazione dell’oggetto, si dimentica il proprio Io inteso come volontà e lo si fa sussistere solo come puro soggetto conoscente, si giunge a uno stato superiore in cui l’oggetto non è più separato dal soggetto ed è l’idea. Questa è l’esperienza del GENIO, che è puro soggetto del conoscere; è un’esperienza straordinaria di completa trasfigurazione. La genialità è intesa da Schopenhauer come perfetta obiettività: essa è espressione dello spirito contemplativo che trascende il singolo Io volente. Il genio è colui che è capace di mantenersi nell’intuizione pura, anzi di perdersi in essa e quindi di sottrarre la conoscenza alla schiavitù della volontà. Egli dimentica di essere soggetto volente e si fa OCCHIO DEL MONDO per tutto il tempo necessario all’esperienza artistica, cioè alla realizzazione artistica dell’oggetto così puramente intuito.

La genialità, in quanto tale, non può essere frutto di libera scelta: essa non può derivare dall’applicazione, dallo sforzo di astrazione da sé del soggetto empirico, perché, in tal caso, risulterebbe impossibile. Il soggetto empirico non può decidere di astrarsi da se stesso volontariamente: nel momento in cui tenta di farlo, cioè mira a un superamento di se stesso, continua inevitabilmente a pensare a se stesso come ciò che si sforza di trascendere, senza pertanto mai riuscirci.

La genialità è una CONDIZIONE che ci sottrae all’arbitrio individuale, è un’esperienza che ci ritroviamo a fare senza volerlo. In essa la capacità conoscitiva è andata ben oltre i limiti richiesti dal servigio nei confronti della volontà, per un attimo si configura come puro disinteresse: è come un lampo che subiamo, ma che non possiamo né volere, né imparare.

L’oggetto artistico è estraneo all’uomo, è sovrannaturale perché espressione di un genio che è volontà intesa come cosa in sé assoluta. Quest’ultima, attraverso il genio, è in grado di trasferirsi liberamente dall’obiettivazione adeguata a quella inadeguata e viceversa.

Tutto questo, dice Schopenhauer, è un mistero di cui possiamo renderci conto ma che non possiamo rendere trasparente, essendo appunto tale.

Il genio è un individuo straordinario, che si differenzia radicalmente dalla massa degli uomini comuni, spesso profondamente volgari. Un aspetto della volgarità dell’uomo comune è la sua seriosità: in lui l’intelletto è tutto quanto al servizio della volontà individuale, è tutto teso alla soddisfazione dei suoi desideri. Individui del genere hanno molta autostima, si prendono molto sul serio, non scherzano mai, non hanno il minimo distacco da se stessi, la minima auto-ironia: sono sempre attenti a impressionare gli altri, sempre “ in posa”.

Per Schopenhauer, tutto questo è il massimo della volgarità e della trivialità.

Il genio è invece distaccato dal proprio Io e dalle sua piccole esigenze: tale atteggiamento si palesa nella sua eccentricità e nella sua profonda incoerenza all’atto dell’esistenza pratica. Il genio è incapace di far fronte ai bisogni della vita comune, è sempre fuori posto, è misconosciuto, deriso, posposto a schiere di mediocri; egli ha sempre nostalgia di un altro mondo, del suo mondo a cui vorrebbe ritornare, è l’eterno fanciullo che contempla la realtà circostante e si perde in essa.

La diversità del genio è dovuta al suo vedere lontano, alla sua lungimiranza, di contro al conoscere banale dell’uomo ordinario, simile a quello degli animali: l’uomo comune percepisce le cose del mondo ma non il mondo, il proprio fare e soffrire ma non se stesso.

Il genio, naturalmente, non è sempre tale, la sua è una momentanea sospensione dell’ordinario: « Nessun eroe resta tale agli occhi del suo cameriere» (Plutarco).

Di questo tema si era occupato anche Hegel: il genio non è mai tale per il suo cameriere proprio perché questi è un cameriere e non ha gli strumenti adatti a cogliere la genialità. Schopenhauer, invece, fornisce un’altra interpretazione: il cameriere non lo vede come genio in quanto in quel momento non sta facendo il genio, ma si dedica a cose ordinarie.

Riguardo al genio filosofico, per esserlo bisogna avere un intelletto svincolato dalla volontà, onde non avere una visione interessata, ideologica del mondo: occorre una visione estetica, che vada oltre la fenomenicità delle cose e colga l’unitotalità di esse. Una filosofia autentica richiede momenti di genialità, cioè fasi di conoscenza svincolate dall’oggettivazione inadeguata:, un puro vedere, non un vedere in vista di qualcosa. Questo è il carattere visionario e intuitivo fondamentale del buon filosofare. L’autentico filosofo, come l’artista, è posseduto dalla volontà assoluta che ritorna a una dimensione di puro conoscere. Ma, se l’arte fissa definitivamente l’intuizione dell’artista nell’opera, consentendo all’osservatore di riviverla, la filosofia traduce in concetti, in pensiero discorsivo, quindi in un sapere astratto, l’intuizione del filosofo. Chi entra in contatto con tale pensiero non vive direttamente l’intuizione come nel miracolo artistico, ma ne ha solo accenni, allusioni, descrizioni. La filosofia resta sapere limitato che non trasforma chi vi si accosta, ma gli fa solo intravvedere la via dell’intuizione. Il filosofo, insomma, non è né un mago né un santo; l’artista, invece, talvolta può esserlo.

Il piacere estetico è disinteressato, quindi vero piacere che annulla le incombenze della volontà e crea uno stato di pace, di assenza di dolore (che, diceva Epicuro, è per noi l’unica vera felicità possibile). L’arte non mira all’utile, quindi libera dalla preoccupazione della volontà di vivere, trascende il mondo fenomenico, è messaggera di un altro mondo. L’artista è vate, sacerdote, medico dell’anima che ci presta i suoi occhi per farci rivivere la sua intuizione.

In secondo luogo, il piacere dipende dalla bellezza dell’arte. L’arte rappresenta le idee, che sono belle in quanto sommamente perfette. La bellezza è la perfezione dell’essere: “bonum et pulchrum convertuntur”, dicevano i Medievali.

Come già sostenevano i Neo-platonici, Schopenhauer sancisce la superiorità della bellezza artistica su quella naturale: questa consiste nelle cose in quanto ci sono date dall’esperienza fenomenica, la prima è rappresentazione della perfezione, del puro essere.

Crolla, quindi, ogni teoria di un’arte educativa, didascalica o impegnata. In particolare, l’artista impegnato è negazione dell’arte, non è un vero artista perché resta ancorato al fenomenico, non lo trascende.

L’arte è evasione, ma in senso metafisico, come sospensione delle sofferenze, non certo fisico, cioè riposo edonistico dei sensi come volevano gli illuministi: la “fabbrica dei sogni” non ci fa stare meglio, ma ribadisce sempre di nuovo la nostra appartenenza al mondo fisico.

Nell’atto di essere evasione metafisica, l’arte è anche realmente moralizzatrice, non perché veicola insegnamenti morali, ma perché vince temporaneamente il nostro egoismo, ci rende disinteressati e, senza alcun intervento o merito da parte nostra, ci migliora. Questo è uno stato di grazia, un dono divino, una momentanea salvezza da noi stessi e dal mondo, ed è la sola vera moralità: infatti, ogni morale della e nella volontà è immorale in quanto morale dell’utile.

 

 


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