RICHARD SENNETT

 

 

A cura di Alberto Rossignoli

 

 

CENNI BIOGRAFICI

 

 

Richard Sennett è nato nel 1943 a Chicago, per la precisione nel quartiere Cabrini,progettato secondo gli austeri dettami del razionalismo elettronico.

Sua madre è stata precedentemente abbandonata dal suo compagno,il quale scelse di combattere nelle Brigate Internazionali; tornato a Chicago, profondamente segnato dalla guerra, preferì scomparire letteralmente nel nulla, lasciando soli e nell’indigenza madre e figlio, che si trasferirono al Cabrini.

La donna,per tirare avanti,diviene un’assistente sociale.

Sennett si trova dunque a crescere tra gli anni Quaranta e Cinquanta, in cui l’America combatte una doppia guerra: all’interno, vuole sconfiggere definitivamente la povertà e il ricordo della lunga crisi economica che ha avuto nel crollo di Wall Street del 1929 il suo momento topico.

Fuori dai confini nazionali,invece, gli States erano impegnati nella guerra contro il nazifascismo e il militarismo imperiale nipponico (di stampo fascista).

Entrambe le guerre saranno vinte dagli Usa ma, allorché inizia la Guerra Fredda, l’America scatena le sue forze contro i comunisti.

Ha compiuto i suoi studi presse l’Università di Chicago, laureandosi con il massimo dei voti nel 1964, proseguendo la carriera accademica ad Harvard.

Professore Incaricato alla Yale University dal 1967 al 1968, dal 1969 al 1971 diviene direttore di u programma di studio sulla famiglia urbana presso il Cambridge Institute e, sempre nel 1971, viene eletto Membro di Facoltà alla New York University.

Attualmente insegna sociologia presso la London School of Economics e sociologia e storia alla New York University. Nel 1975 ha fondato il New York Institute for the Humanities, diretto fino al 1984.

Dal 1988 al 1993 è stato direttore della Commissione sugli Studi Urbani dell’ UNESCO e dal 1996 dirige il Council on Works.

Membro dell’American Academy di Roma e dell’American Academy of Arts and Sciences, è stato insignito del premio “Friedrich Ebert” per la sociologia.

E’ stato consulente del candidato alla Casa Bianca per il Partito Democratico Kerry ed è un oppositore della politica dell’attuale premier britannico Tony Blair.

 

 

 

OPERE

 

(con S. Thernstrom) Nineteenth Century Cities, Yale U.P., New Haven, 1969; Families Against the City: Middle Class Homes of Industrial Chicago, Harvard U.P., Cambridge (MA), 1970; The Uses of Disorder, Knopf, New York, 1970; (con j. cobb) The Hidden Injuries of Class, Knopf, New York, 1972; The Fall of Public Man, New York, Knopf, 1977 (trad. it.: Il declino dell'uomo pubblico: la società intimista, Bompiani, Milano, 1982); Authority, New York, Knopf, 1980 (trad. it.: Autorità. Subordinazione e insubordinazione: l'ambiguo vincolo tra il forte e il debole, Bompiani, Milano, 1981); Narcissismo y Cultura Moderna, Kairos, Barcelona, 1980; La Transparence du pouvoir aux Etats-Unis, Fayard, Paris, 1982; The Conscience of the Eye, Knopf, New York, 1990 (trad. it.: La coscienza dell'occhio: progetto e vita sociale nelle città, Feltrinelli, Milano, 1992); Flesh and Stone: the Body and the City in Western Civilization, Norton, New York, 1994; The Corrosion of Character: the Personal Consequences of Work in the New Capitalism, Norton, New York-London, 1998. Ha curato: Classic Essays on the Culture of the Cities, Prentice Hall, New York, 1969; The Psychology of Society, Random House-Vintage, New York, 1977. Sennett è anche autore di opere di narrativa: The Frog who Dared the Croak, Farrar, Straus and Giroux, New York, 1982; An Evening of Brahms, Knopf, New York, 1984; Palais Royal, Knopf, New York, 1987 (trad. it.: Palais Royal, Feltrinelli, Milano, 1988).

 

 

 

PENSIERO

 

Il punto focale della riflessione di Sennett è dato dal “nuovo capitalismo”: tutte le sue opere si snodano attorno ad esso.

Ora, la cultura neo-capitalistica, ovviamente,procede consequenzialmente dal vetero-capitalismo,che ebbe in Max Weber uno dei suoi più importanti teorici; nel capitalismo dell’età moderna,a detta di Weber prima e di Sennett poi, che riutilizza l’immagine come la foto di una carta d’identità, essenziale era la “gabbia d’acciaio”.

Ma cos’è?

E’ la rigida macchina burocratica dello Stato e dell’economia così come si era sviluppata dalla fine dell’Ottocento in poi e che il filosofo e sociologo Max Weber descrisse nelle sue opere ai primi del Novecento.

Detta “gabbia d’acciaio” si basava sulla militarizzazione delle imprese e delle istituzioni in cui ognuno ha il suo posto e adempie ad una determinata funzione con compiti rigidamente fissati.

Non ricorda forse la rigida struttura della geocentrica società altomedievale?

Tutto ciò al fine dell’integrazione sociale delle masse e della pacificazione sociale contro le tendenze rivoluzionarie che agitavano quei tempi. Anche con specifico intento anti-comunista,dunque.

Ma il fulcro di questo capitalismo era soprattutto una ben precisa e determinata concezione del tempo, vale a dire a lungo termine, prevedibile e razionalizzato,in cui il singolo individuo poteva pensare alla propria vita come a una narrazione avente una scansione regolare e probabile.

Del resto, il cuore dell’etica protestante, come descritta da Weber, era il differimento della gratificazione immediata per obiettivi a lungo termine: la possibilità,dunque, di costruire un percorso esistenziale avente un determinato indirizzo e sviluppo.

Tuttavia, nel volgere di poco tempo, l’individuo è stato liberato dalla “gabbia d’acciaio”, ma a quale prezzo?

L’individuo si è ritrovato più solo a gestire la flessibilità e la frammentarietà della propria esperienza di vita, in particolare nella sfera lavorativa. I valori dominanti delle grandi imprese sono rapidamente radicalmente mutati: alla stabilità e alla staticità delle burocrazie e dei processi industriali sono subentrati flessibilità e leggerezza, divenute parole chiave del nuovo capitalismo.

Ma il singolo non ne ha ricavato maggiore libertà, bensì maggiore insicurezza.

Forze diverse hanno contribuito allo sgretolarsi della “gabbia d’acciaio” e all’instaurarsi consequenziale del neo-capitalismo.

Anzitutto lo sviluppo del capitalismo azionistico, che ha implicato nuove forme di governo delle imprese le quali, non avendo più il controllo finanziario su se stesse, sono divenute preda di investitori esterni da cui dipendono, il potere effettivo è passato nelle mani dei manager interni alla stessa azienda e agli stessi azionisti, in cerca dei maggiori profitti nel minor tempo possibile.

Si è dunque innescato un capitalismo dominato dalla frenesia dei mercati azionari per i quali le imprese devono apparire nelle migliori condizioni possibile: i licenziamenti per fini borsistici sono la conseguenza immediata di questo processo.

Il criterio del successo economico dell’azienda non sono più i dividendi delle azioni a lungo termine, ma il loro andamento quotidiano.

Altro elemento da considerare è lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione.

All’interno dell’organizzazione aziendale, esse rendono superflua gran parte dei quadri aziendali, oltre a rendere l’esercizio del controllo e la comunicazione da parte dei vertici immediato e diretto.

Rende inoltre superflua una gran parte dei lavoratori non specializzati e di conseguenza viene meno uno dei capisaldi del capitalismo di stampo weberiano: la già citata integrazione delle masse.

Il consumatore,da parte sua, è lasciato sempre più solo di fronte alle merci.

Alla struttura piramidale del vecchio modello di organizzazione aziendale si sostituisce un nuovo modello organizzativo: quello del lettore MP3.

Questo dispositivo ha la caratteristica di poter essere programmato in maniera estremamente flessibile: è possibile infatti  saltare da un brano ad un altro e modificare le impostazioni di ascolto a nostro piacimento.

Ebbene, la direzione di un’azienda agisce più o meno allo stesso modo nei confronti dei suoi dipendenti: decide come, dove e per quanto tempo utilizzarli a seconda delle esigenze e delle tendenze del mercato.

Con quali conseguenze?

Anzitutto la separazione della base dal centro in termini sia fisici che economici; gli effetti più visibili di tutto questo sono rappresentati dalla delocalizzazione della forza-lavoro e dal crescente divario tra gli stipendi dei manager e quelli degli impiegati.

Dunque si passa da una struttura piramidale a una struttura a rete, una rete fatta di partite IVA, di collaboratori a progetto, di Co.co.co, in cui la maggior parte dei nodi non può tessere alcun filo.

Spesso, inoltre, l’autorità viene separata dal controllo e il potere decisionale è spesso demandato a consulenti che si assumono la responsabilità a breve termine circa le conseguenze delle loro decisioni sul futuro dell’azienda.

Inutile dire che,in questo stato di cose, l’individuo non può più fare della sua vita un qualcosa di stabile, ma deve praticamente vivere alla giornata, in un mondo fatto di relazioni e situazioni non stabili.

L’effetto combinato di automazione e globalizzazione rende vane le strategie di avanzamento basate sulla formazione e sulle specifiche competenze: il progresso tecnologico e informatico sono indifferenti alle qualifiche e all’esperienza.

Ne deriva che il nuovo valore su cui si punta è la potenzialità dell’individuo (fondamentalmente basata sull’adattarsi a i repentini cambiamenti): se non hai potenzialità,sei perduto.

Sennett individua un altro elemento della cultura neo-capitalista è l’esaltazione del cambiamento come fine a se stesso.

Il consumo come passione divoratrice si può scorgere dalla politica all’economia,al lavoro alla vita intima.

Un aspetto di questa questione è quello della “tecnica di piattaforma”: a un prodotto base vengono aggiunte piccole differenze al fine di renderlo unico e appetibile.

Stessa cosa in ambito politico: i programmi di destra e sinistra,a detta del sociologo americano, tendono sempre più a somigliarsi nella sostanza, facendo un largo uso di strumenti retorici per favorire questa “piattaforma”.

Il ragionamento che fa Sennett a proposito del capitalismo ruota attorno ad un tragico paradosso: il capitalismo delle origini mira alla distruzione della società.

Dal canto suo,il welfare state non fa che salvaguardare il capitalismo dalla sua logica distruttiva, puntando al rispetto di sé, alla crescita personale, allo sviluppo di attitudini personali e collettive, se con attitudine si intende un indicatore di potenzialità.

Il riconoscimento da parte dello Stato delle capacità potenziali ha evitato l’esplosione di conflitti devastanti.

Sarebbe bene che le pressioni che possono nuocere al welfare state abbiano dunque fine.

C’è tuttavia da rilevare un sentimento di dipendenza nei confronti delle istituzioni statali di cui il welfare state è appunto causa.

Sennett ritiene che il welfare state debba cambiare atteggiamento.

Infatti la burocrazia del welfare state ha sempre imposto una distanza emotiva tra il funzionario e gli assistiti per evitare che l’erogazione dei servizi sociali suonasse come carità.

Dovrebbe perciò rinunciare a vedere le persone in quest’ottica compassionevole:ciò nuoce al sistema riformismo liberale.

Devono attuare una politica sociale basata sul “rispetto”, sul “riconoscimento”, come il sociologo afferma nei suoi scritti, la cui lettura è caldamente consigliata a tutti se si vuol capire come sta andando il sistema socio-economico di questi ultimi anni e quali tendenze sta sviluppando.

Concludendo, focalizziamo brevemente l’attenzione sulle proposte avanzate da Sennett.

Ora, abbiamo dato per certo che, nelle condizioni di incertezza che si sono venute a creare, è sempre più difficile dare un senso alla propria esistenza. Dunque i possibili rimedi devono avere come scopo quello di ridare una continuità alla vita delle persone.

E’ necessario creare istituzioni parallele che diano ai lavoratori la stabilità che manca alle organizzazioni flessibili.

A detta di Sennett, il sindacato potrebbe farsi carico della difesa, in veste di agenzia di collocamento, di chi non ha un posto di lavoro e di chi non ne ha uno stabile.

Altra proposta del sociologo americano è quella del reddito minimo di base per tutti: in tal modo, come lui afferma, lo Stato, con le tasse, potrebbe garantire una certa dignità all’esistenza “ma scomparirebbe lo Stato-Balia”.

Infine, Sennett auspica che si recuperi in qualche modo lo spirito dell’artigiano del fare bene qualcosa come fine a se stesso e senza aspettarsi nulla in cambio, come in un’azione di contrasto nei confronti di una sempre più diffusa e radicata superficialità.

 

 

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